Se andiamo a vederla da vicino vicino, la nostra intelligenza non ha molto in più rispetto a quella di un’ape o di un verme: le forme essenziali del pensiero, cioè, sono le stesse, anche negli animali con cervelli minuscoli. Ne segue, in primo luogo, che per studiarle si fa prima a rivolgersi a loro. Ma ne segue anche che ci troveremo presto a chiederci, non senza un po’ di delusione, perché allora dobbiamo portarci in giro macchine tanto pletoriche. I nostri 86 miliardi di neuroni in fondo fanno le stesse cose dei novecentosessantamila dell’ape, compreso riconoscere un Picasso da un Monet. Abbiamo in testa una macchina molto inefficiente o cosa? E che cosa ci dice questo su quel mistero misteriosissimo che chiamiamo coscienza?
La domanda è complessa, perciò non aspettiamoci che non lo sia anche la risposta che ci dà Giorgio Vallortigara in questo suo nuovo libro dal titolo (bellissimo) Pensieri della mosca dalla testa storta appena uscito per i tipi di Adelphi. Vallortigara è un neuroscienziato e a volte gioca a definirsi “il più grande esperto di cervelli di gallina al mondo”, o giù di lì: il suo lavoro infatti è lo studio delle capacità cognitive “minime”, per le quali usa come modelli animali che, sotto le sue mani, si rivelano veri e propri geni. Uccelli, pesci, anfibi e insetti che hanno prestazioni prodigiose, e che finiscono per mostrarci quanto noi esseri umani, in fondo, non siamo che animaloni come tanti.
Per Vallortigara l’osservazione delle abilità degli altri animali significa anche finire per distaccarsi dalle proposte di maggior successo a proposito di che cosa sia la coscienza. Sembra quasi scusarsi mentre lo dice, ma è chiaro che non riesce a credere ai modelli dominanti delle neuroscienze e della filosofia della mente. E torna sempre lì.
Anche le api riconoscono i volti, compresi quelli umani. Magari ne riconoscono meno, ma possono imparare. È difficile sostenere che sia una capacità selezionata dall’evoluzione di per sé. Quindi Vallortigara disdegna (dice proprio così, “disdegno”) l’idea che ci sia un gradualismo nelle esperienze, cioè che alcune valgano di più e altre meno, e che le specie non umane possano averne di “grado” inferiore alle nostre. Disdegna altresì l’idea che la possibilità di avere esperienze sia legata alla complessità del sistema nervoso. Anche perché quale sarebbe la soglia al di sopra della quale le cose diventerebbero “complesse” abbastanza da raggiungere la dignità di “coscienza”? La sua tesi è che non serva avere grandi cervelli, e che il nostro “di più” neuronale serva come magazzino di memoria: non per farci pensare di più o meglio, né per renderci “più” qualsiasi cosa.
L’argomentazione è complessa e l’autrice di questa nota spera di averla capita almeno quel tanto che basta per riassumerla qui. C’è una teoria per cui le abilità sociali sarebbero state state il motore della nostra intelligenza: è la teoria della “funzione sociale dell’intelletto”. Dover cioè avere a che fare con altri individui, dover seguire rapporti interpersonali complicati, potrebbe aver dato la spinta all’evoluzione di menti complesse. Ma non siamo i soli a vivere in società, e probabilmente non siamo gli unici a conferire stati mentali ai nostri conspecifici.
Se la funzione sociale dell’intelletto fosse vera, in queste specie potremmo aspettarci di trovare che le zone del cervello specificatamente preposte alle funzioni sociali sono più sviluppate rispetto a quelle delle altre specie. Invece non succede. Come dire che non serve un cervello grande ma nemmeno un cervello specializzato.
“ Ma poi cervello grande in che senso?
Per numero di neuroni, densità di neuroni rispetto alle altre cellule, dimensione dei neuroni, o cervello nel suo complesso…? Comunque si proceda, non si va da nessuna parte. Anche la lateralizzazione delle funzioni, che fino a vent’anni fa si pensava essere prerogativa del cervello umano, si è dimostrato essere un principio organizzativo comune anche a cervelli piccoli come quelli dei vermi.
Quindi non è la dimensione, né complessità anatomica del cervello, né quella dei comportamenti, né quella della società in cui si vive, e non è la capacità di risolvere problemi la chiave della coscienza. E allora dove sta la differenza?
Se le forme essenziali del pensiero sono le stesse anche in cervelli minuscoli, il massimo della congettura che si può fare è che poche cellule fanno semplici computazioni e queste sono il substrato della coscienza, l’unico plausibile, nella sua manifestazione essenziale che è la capacità di sentire. Sentire l’esterno e distinguerlo da sé.
Ed ecco allora che arriva il vero eroe del libro: una mosca alla quale si può ruotare la testa di 180 gradi e poi incollarla così, capovolta, con il risultato di aver invertito la posizione degli occhi. L’esperimento è stato condotto per la prima volta nel 1950, ed esperimenti analoghi sono stati condotti sui pesci. L’idea è di studiare i rapporti tra sistema sensoriale e motorio seguendo l’ipotesi dell’esistenza di un sistema a retroazione, cioè di un sistema per cui il fatto di muoversi inibisce la possibilità di sentire come quando si è fermi, e a muoversi è qualcosa di esterno verso di noi. Dunque giriamo la testa alla mosca: che cosa succede? Che gira in tondo. Possiamo dedurre che esiste un feedback che permette di discriminare ciò che accade internamente all’animale e ciò che accade esternamente quando c’è movimento. Questo spiegherebbe anche perché il verme si ritrae quando qualcuno lo tocca ma sa gestire il contatto con gli oggetti quando è lui a muoversi, e non si ferma a ogni ostacolo che incontra.
Qui si parla di tatto, ma deve valere per tutte le modalità sensoriali. Vedi il grillo che suona con le zampe e sente con le zampe, ma sa che il suono che sente è prodotto da lui stesso. altrimenti sarebbe un’allucinazione. Ed ecco su che cosa dovrebbe poggiare la coscienza, qualunque cosa sia. Su questa capacità di distinguere se stesso dal resto del mondo.
Parentesi: forse è per questo che (a meno, forse, di essere schizofrenici o di adottare un trucco che nel libro è spiegato per bene, e se siete curiosi potete provarci) non ci si può fare il solletico da soli.
La conclusione? Per capire il set minimo di funzioni di una mente si può studiare un cervello molto piccolo. È comodo, ed è anche simpatico. L’autore per questo confessa di portarsi ogni tanto a casa un formicaleone (suo animale sperimentale da anni), perché gli fa compagnia come un vecchio amico. Quanto alla coscienza: più di quanto detto fin qui non si può dire. Ma, spiega l’autore, è comunque un inizio, e la ricerca continua.