SOCIETÀ

Perché è così difficile parlare di razze (e di razzismo)

A ottant’anni di distanza dalla pubblicazione del Manifesto della razza, il tema della diversità umana è più vivo e attuale che mai. Nell’anno appena passato i fatti di cronaca hanno portato alla luce storie di discriminazione, intolleranza e sfruttamento, ma hanno anche drammaticamente evidenziato le difficoltà dei processi di integrazione. Sondaggi e indagini convergono su una stessa conclusione: razzismo e intolleranza hanno raggiunto nel nostro paese livelli molto alti, secondo alcuni i più elevati in Europa. 

Noi, come tanti altri, crediamo che sia oggi prioritario impegnarsi per condividere conoscenze e spunti di riflessione sull’entità e il significato della diversità umana. A questo scopo, insieme ad altri colleghi abbiamo creato il Manifesto della Diversità e dell'Unità Umana. Non si tratta solo di una testimonianza civile dell'errore sociale, scientifico e culturale e della profonda disumanità di ogni forma di razzismo e intolleranza, ma anche di un'iniziativa che vuole creare uno spazio di informazione e discussione aperto a tutti i cittadini.

Fortunatamente, non sono mancati commenti e reazioni. Tra questi, quelli riportate nel blog Anticitera di Lucio Russo, Stefano Isola e Alessandro della Corte (), sono di particolare interesse. Le critiche che ci sono state fatte muovono da una visione del tutto condivisa - l'avversione al razzismo, la completa adesione ai concetti di uguaglianza e solidarietà tra gli uomini e il riconoscimento del valore della diversità - e dalla comune esigenza di una discussione che affronti il tema della diversità umana senza pregiudizi e ambiguità. A nostro modo di vedere, le loro osservazioni hanno messo in evidenza alcuni dei nodi irrisolti che hanno fino ad oggi reso la discussione meno proficua. Dopo aver risposto in maniera puntuale sullo stesso blog, ritorniamo su una parte degli argomenti toccati, integrandoli con osservazioni fatte da altri, in modo rendere la discussione ampia e fruibile a un pubblico più esteso.

Incomprensione 1. State dicendo che posso riconoscere i diritti solo a chi mi somiglia

Nel corso della discussione che si è sviluppata intorno al quesito se (e in quali modi) mantenere la presenza della parola “razza” nella Costituzione italiana, alcuni hanno sottolineato che discutendo al tempo stesso di diversità e di diritti si assume, di fatto, un’associazione tra dignità umana e uguaglianza biologica: si lancia, anche senza volerlo, il messaggio che si debbano rispettare solo coloro che sono sufficientemente uguali a noi. Si genererebbe così un vero e proprio effetto paradosso: “volevo sostenere un’idea e mi trovo a sostenerne un’altra che va proprio nella direzione opposta”.

Quale può essere la risposta a questa (utile) critica, che possa anche allontanare ogni possibile strumentalizzazione? Suggeriamo che, ancor prima di ogni discussione su “razze sì” o “razze no”, possa essere utile mettere in chiaro che “riconoscere a tutti la stessa dignità e gli stessi diritti è il principio fondante della nostra società e, come tale, non può variare a seconda delle tendenze politiche del momento o della maggiore o minore somiglianza biologica o culturale tra gli esseri umani”. Tuttavia, l’ostacolo non si supera con una semplice premessa. Perché il messaggio arrivi forte e chiaro: “Dobbiamo essere capaci di far comprendere che conoscere le cause e il significato della diversità umana è fondamentale per diventare pienamente consapevoli del senso e del valore dell'eguaglianza umana”. Ecco, quindi, già un primo aspetto che mette in luce quanto parlare di diversità, argomento di grande importanza per le sue ricadute sociali, richieda attenzione, preparazione e una discussione approfondita.

Incomprensione 2. Per affermare che le “razze umane” esistono non è necessario averne prima chiarito il significato

La percezione della diversità dei caratteri fisici (in primis del colore della pelle), corroborata dall’osservazione delle frequenti ineguaglianze nello status economico e sociale dei loro portatori (li potremmo definire “bianchi”, “neri” e “gialli”, per richiamare una sorta di classificazione razziale), sembra convincere molti dell’idea di un’umanità divisa in un certo numero di raggruppamenti che sarebbero in grado di esprimere la diversità biologica, fisica e, secondo molti, anche comportamentale, della nostra specie: le razze umane. Ma è sufficiente il loro innegabile successo di pubblico per affermare che le razze esistono? Certamente NO. La nostra percezione ci dice solo che siamo diversi, fatto incontestabile, ma non ci spiega quanto la diversità sia estesa, quali siano le sue cause prossime e quelle remote, come sia strutturata e che significati abbia. Per questo, è indispensabile che la discussione sia preceduta da una definizione chiara e condivisa dell’argomento in questione. 

Il compito non è certo agevole, ma per questo possiamo accettare delle scappatoie. Ne descriviamo un paio. Nicholas Wade nel noto libro “A troublesome inheritance” così scrive: ”Ben lungi dall’essere entità nettamente distinte, le razze differiscono per una semplice caratteristica, indicata dai genetisti come frequenza relativa degli alleli”. Cosa vuol dire entità non nettamente distinte? Che ognuno può appartenere a più razze contemporaneamente o che nel corso della vita, o con lo scorrere dell’albero genealogico, si può passare da una razza all’altra, o quale altra cosa? In ogni caso, se fosse sufficiente osservare delle differenze, magari anche marcate, nella frequenza degli alleli, allora le minoranze linguistiche come quelle di Sappada, o Sauris, o le comunità sarde, che si distinguono geneticamente in maniera netta da tante altre popolazioni italiane, farebbero sicuramente razza a sé (Capocasa et al., Le Scienze 2014). Seguendo la stessa linea di pensiero, potremmo avere la razza siciliana, trentina o valdostana. No comment. Non è utile nemmeno sostenere che chi cerca di definire il concetto di razza ricade nello stesso errore di chi vuole spiegare cosa sia l’arte o l’amore. Se accettassimo un‘idea di questo tipo, sarebbe illogico usare gli strumenti della dialettica per parlare di razze. Ma, prima ancora, va detto che il concetto di razza è profondamente radicato in una certa visione di elementi prettamente biologici. Nulla di esoterico e romantico: DNA, processi biochimici, cellule, organi, fenotipi. E poi, per chiudere il cerchio, chi sostiene che le “razze umane” esistono, ci dovrebbe anche spiegare quali e quante sono. Tutti quelli che ci hanno provato si sono sempre contraddetti tra loro: sarà un caso?

La via maestra, come sempre, è una sola: partire da una definizione condivisa. Basta visitare le pagine web di uno dei tanti antropologi che si sono occupati del tema, per trovare questa: le razze sono (o pretendono di essere) insiemi discreti, omogenei ed esclusivi di individui. Quindi: 

1. le razze devono essere chiaramente distinte e distinguibili le une dalle altre; 

2. la diversità tra chi appartiene alla stessa razza deve essere molto ridotta; 

3. la diversità tra chi fa parte di razze diverse deve essere elevata; 

4. non si può appartenere a più razze contemporaneamente. 

Si tratta di paletti che, per quanto ovvi, nessuna proposta razziale è mai stata capace di rispettare se non nelle intenzioni, non necessariamente in malafede, dei loro proponenti (vedi anche i brevi approfondimenti).

Incomprensione 3. Chi si oppone all’idea delle “razze umane”, non accetta o minimizza la diversità (per essere “politically correct”)

Secondo alcuni interventi pubblicati nel blog Anticitera, e non solo, negare la validità scientifica del concetto di razza nella nostra specie significherebbe implicitamente sostenere che Homo sapiens sia una specie assai povera, se non addirittura priva, di diversità. Tra i vari interventi, ce n’è uno in cui si accusa una certa “scienza” di sostenere che un pigmeo e un giapponese possano essere identici.

Non ci è dato modo di sapere quale sia la fonte sulla quale si basa una deduzione così impegnativa e quella da cui è stata tratta la stravagante equazione, ma vale comunque la pena di sgomberare il campo dagli equivoci: nessuno studioso serio della diversità si sognerebbe di negare l’esistenza di una evidente diversità genetica e fenotipica tra gli esseri umani. Chiunque lo facesse si auto-condannerebbe ad essere ridicolizzato, magari dalla prima persona che incontra uscendo di casa. E poi, egli taglierebbe il ramo su cui è seduto: identificare le differenze è il primo passo per comprendere l’evoluzione e i cambiamenti della nostra specie, così come i percorsi tramite i quali si sono realizzati. In ogni caso, è un po’ grossolano confondere il rifiuto motivato scientificamente di un certo modello della diversità (come quello razziale), con il rifiuto in totodella diversità stessa. Si rimanda, ancora una volta al Manifesto e alle voci che corredano il testo per ulteriori chiarimenti.

Ma il problema non finisce qua: sempre nel blog citato, si dice anche che la negazione (o la minimizzazione) della diversità somatica deriva dalla tendenza, più o meno consapevole di alcuni, a ritenere l’associazione tra diversità e discriminazione una cosa inevitabile. Questo non è né il caso nostro, né ovviamente quello degli estensori degli interventi su Anticitera, e, sulla base della nostra conoscenza, nemmeno di tantissimi colleghi. 

In questa fase storica il vero pericolo potrebbe nascere, come in passato, dal tentativo di riaffermare (più o meno esplicitamente) l’associazione tra somiglianza, dignità e diritti da parte di coloro che vogliono giustificare, alla luce di una visione razziale della diversità, forme di discriminazione e pratiche razziste.

Incomprensione 4. Se la visione razziale della diversità umana è (o, piuttosto, sembra) utile per un qualche scopo applicativo, ergo le “razze umane” esistono

Tra le osservazioni a favore delle ”razze umane”, c’è quella secondo cui l’antropologia forense avrebbe dimostrato l’utilità delle categorie razziali nelle attività di riconoscimento dei cadaveri e degli individui presenti sulla scena di un crimine. Anche se gli antropologi forensi cercano, com’è ragionevole, di mettere a frutto la diversità genetica esistente tra i gruppi umani - cosa di cui nessuno si sogna di negare l’esistenza (repetita iuvant) - questo non significa che possano convalidare l’esistenza delle razze umane. Lo testimonia il fatto che, non essendo la diversità genetica umana strutturata in modo razziale, le conclusioni a cui si arriva attraverso l’uso dei cosiddetti “marcatori antropologici” possono essere facilmente attaccabili in tribunale. Questo accade per tre motivi:

1. In molti casi i caratteri che dovrebbero indicare l’appartenenza razziale non sono presenti in un “presunto” gruppo razzialeassenti in un altro, ma sono varianti che hanno solamente frequenze diverse qua e là. Per questa ragione l’attribuzione a una o a un’altra presunta razza deve essere espressa in termini probabilistici (con un errore di stima non trascurabile);

2. Nella maggior parte dei casi, l’utilità di questi caratteri per la “diagnosi razziale” è stata preventivamente stabilita sulla base del confronto tra campioni di Statunitensi di origine europea, asiatica e africana, quindi campioni che mettono insieme individui che provengono da popolazioni chiaramente distinte (Italiani, Polacchi e Svedesi, piuttosto che Etiopi, Senegalesi e Bantu del Sudafrica): se si confrontano le frequenze di questi caratteri nelle popolazioni originarie (disaggregando il campione...), la loro distribuzione non sempre conferma il pattern visto a livello del campione aggregato (quello “razziale”);

3. Le differenze di frequenza più robuste dei presunti caratteri diagnostici sono quelle che si riferiscono a varianti genetiche legate alla resistenza alla malaria da P. falciparum. Si tratta di caratteristiche adattative che ci parlano degli ambienti in cui le popolazioni hanno vissuto e che, come tali, non sono utili a tracciare i rapporti storici e filogenetici. Come se non bastasse, perfino in questo caso, l’errore può essere in agguato. Ad esempio, la frequenza della variante S dell’emoglobina (responsabile in omozigosi dell’anemia falciforme) varia tra il 5 e il 25% in Africa e Asia, ma può raggiungere valori elevati anche altrove. Questo è il caso del comune di Butera, in provincia di Caltanissetta, dove raggiunge un’incidenza del 12%, mentre valori non trascurabili si osservano anche altrove in Sicilia. Così potrebbe capitare più facilmente a un Buterese (?) o, più in generale, a un Siciliano di essere associato alla traccia di un delitto che presenta il “marcatore razziale” variante S dell’emoglobina.

Insomma, in diversità umana le cose sono molto spesso meno schematiche di quanto possa apparire. Non tenendo conto di ciò, può sembrare agevole trarre delle conclusioni che possono anche fare presa sul pubblico, ma che non rappresentano adeguatamente le evidenze.

Un discorso per molti versi analogo può essere fatto per la farmacogenetica, la disciplina che studia le relazioni tra risposta ai farmaci e diversità genetica. C’è chi sostiene la validità di una “farmacogenetica razziale”, che darebbe supporto al concetto di razza: se sei nero prendi questo farmaco invece che quello per i bianchi. In questo caso, valgono le riserve appena fatte sulle differenze in frequenza tra “razze” e popolazioni, alle quali si aggiungono i problemi e le distorsioni delle informazioni derivanti dagli interessi delle case farmaceutiche, come illustrato dal caso del farmaco ipotensivo Bidil. Per questo ultimo punto ci limitiamo a sottolineare l’evidente inutilità di pensare terapie e approcci clinici in termini razziali mentre si va sviluppando la Medicina personalizzata, rimandando volentieri all’articolo di Roberta Villa per una trattazione più generale della Medicina razziale (Il Tascabile, 2018).

Incomprensione 5.Le élite culturali possono favorire il riemergere del razzismo

Un rilievo che non ci possiamo permettere il lusso di trascurare è quello secondo cui alcune “élite culturali e politiche” cercherebbero di indurre i non addetti ai lavori a diffidare della loro capacità di osservazione e ad accettare supinamente “verità scientifiche” a loro incomprensibili. Da questo potrebbe originarsi una reazione di rigetto che, a sua volta, rischierebbe di favorire il riemergere del razzismo. Come è già stato detto, nessuno vuole disprezzare l’evidenza osservativa, che è la base di ogni studio, ma, piuttosto, si vuole sollecitare tutti ad acquisire gli strumenti per comprenderne il significato. 

Sembrerebbe che l’evidenza osservativa evocata sia, in primis, quella del colore della pelle. Quindi, provando a ricostruire: (1) osservo differenze tra persone nel colore della pelle e, forse, in altri tratti (quali?), che attraggono la mia percezione; (2) non avendo modo di percepire la gamma di tali differenze, mi viene naturale pensare che le si possa riassumere attraverso un numero limitato di categorie (le razze); (3) oplà, le jeux son faits! Bianchi, gialli e neri, le razze esistono! Questo sarebbe il buon senso? A noi sembra che il buon senso dovrebbe portarci a conoscere, capire e, infine, scegliere. Conoscere che il colore della pelle e altri caratteri “razziali” sono determinati da un numero limitato di geni che ci parlano dell’ambiente fisico e degli adattamenti ma non della storia delle popolazioni umane. Conoscere quello che ci dice una porzione davvero molto più grande del genoma. Capire che nemmeno il colore della pelle, ad un’analisi attenta, soddisfa la definizione di razza. Basta guardare, ad esempio, la sovrapposizione degli intervalli degli indici di rifrazione della luce nella pelle di popolazioni che dovrebbero appartenere a “razze diverse” e tra le quali non ci aspettiamo un alto livello di mescolamento, come Indiani (bramini) e Bushmen, oppure tra Giapponesi (rieccoli) e Amerindiani (Guarani del Brasile): il criterio delle categorie discrete, evidentemente, non è rispettato, così come quello dell’esclusività. Ma dedichiamo qualche riga alla “razza nera”. Tra gli Africani troviamo una gamma molto estesa di colore, che va dal nero più scuro dei Dinka del Sud Sudan ad una sorta di beige nei San del Sudafrica (Crawford et al. 2017, Science). Altrettanto ci mostra la genetica, che conferma come vi sia così tanta diversità da rendere impensabile anche solo immaginare una “razza africana” (criterio dell’omogeneità si diceva prima). Le “sorprese” non finiscono qua: uno dei geni che contribuisce di più al colore bianco della pelle degli Europei (SLC24A5) è comune anche nell'Africa orientale, mentre altri due geni (HERC2 e OCA2), che sono associati a una tonalità chiara di pelle, occhi e capelli negli Europei, sono comparsi in Africa e sono comuni nei Boscimani che hanno la pelle più chiara. Insomma, molte delle varianti geniche che causano la pelle chiara in Europa hanno origini africane. Qualcuno troverà strano tutto questo, ma lo possiamo spiegare facilmente: andando oltre la superficie, scopriamo che il colore della pelle non è utile per produrre classificazioni razziali, proprio come accade con altri tratti complessi e poligenici come la statura. In definitiva lo snodo è proprio questo: voler andare oltre la superficie, della pelle così come del problema.

Tornando alla questione iniziale, si può convenire sui danni provocati a questo paese da una parte delle (presunte) élite culturali e politiche (alle quali chi scrive di certo non appartiene), ma crediamo che in tema di razza e razzismo sia assai più potente e temibile la propaganda che, sfruttando la mancanza di conoscenza, vuole inasprire le tensioni sociali e creare ulteriore intolleranza: questo ci pare il vero pericolo contro cui puntare il dito. 

Incomprensione 6. Vogliono impedirci di usare la parola razza 

Nel sito Facebook che abbiamo creato per diffondere il Manifesto della Diversità e dell'Unità Umana abbiamo ricevuto diversi commenti che tacciavano noi ed altri di aver proposto di vietare la parola razza, in riferimento all’uomo, dal linguaggio comune prima ancora che dalla Costituzione. Questa stessa idea è suggerita da alcuni interventi sul blog Anticitera. Ovviamente, se due fonti diverse rilanciano la stessa fake news, questa non può che rinvigorirsi. 

Quindi, il discorso si sposta su un altro piano, quello della correttezza e completezza dell’informazione. Certo è del tutto comprensibile una reazione critica contro chiunque voglia, senza un’adeguata motivazione, impedire ad altri di usare una parola di uso comune. Peccato che nessuno abbia mai pensato una sciocchezza come quella sopra indicata. La proposta, originariamente avanzata da Olga Rickards e Gianfranco Biondi, si riferiva in maniera specifica all’articolo 3 della Costituzione, non al vocabolario. Scusandoci con chi ci sentirà ripetere per l’ennesima volta la stessa cosa, dobbiamo ribadire che gli estensori del Manifesto non hanno proposto l’eliminazione della parola razza né dal vocabolario, né dalla Costituzione. Hanno invece lanciato una proposta in cui essa persiste, ma con il valore che la comunità degli antropologi gli attribuisce. 

P.S. Ma non potrebbe essere più interessante/divertente/utile concentrarsi sulla storia della nostra specie come la raccontano archeologia, linguistica e genetica, piuttosto che pensare di racchiuderla in un concetto senza alcuna validità scientifica e del tutto incapace di tenere conto della meravigliosa diversità della nostra specie? L’evoluzione umana propone dei quesiti di straordinario interesse, ma richiede una sintesi di conoscenze specifiche, in ambito sia scientifico che umanistico. Dedicando loro del tempo, chiunque potrà evitare molte delle incomprensioni che ci siamo sentiti in obbligo di chiarire per rispetto della nostra disciplina e di coloro che, più degnamente di noi, ad essa si sono dedicati.

POTREBBE INTERESSARTI

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012