SCIENZA E RICERCA

La peste del 1300 ha avuto un impatto diversificato nell’Europa medievale

La peste nera ha avuto un impatto devastante sull’Europa del XIV secolo. Eppure, secondo i risultati di un recente studio pubblicato su Nature, sembra che non tutte le aree del continente siano state colpite allo stesso modo. Questo lungo lavoro di ricerca si basa su un approccio innovativo, chiamato big data palaeoecology (“paleoecologia dei big data”), ed è il primo che finora sia riuscito a dimostrare con un buon grado di certezza quali sono le aree europee in cui la peste ha avuto un impatto meno pesante di quanto credessimo. Grazie alle fonti scritte sappiamo infatti che l’epidemia di peste del 1300 ha segnato un momento di svolta nella storia del nostro continente. Tuttavia, finora gli storici e gli archeologici non erano ancora riusciti a fare un bilancio preciso delle vittime a seconda delle diverse regioni europee, poiché le fonti a disposizione provenivano per la maggior parte dalle aree urbane, in cui è verosimile che la mortalità sia stata più alta.

“Finora gli strumenti utilizzati per valutare l’incidenza della peste si basavano per lo più sull’analisi delle fonti scritte, oltre che sullo studio dei reperti archeologici: si tratta per la maggior parte di documenti demografici o relativi alla riscossione delle tasse provenienti in gran parte dai centri urbani”, spiega Assunta Florenzano, ricercatrice in palinologia e paleobotanica all’università degli studi di Modena e Reggio Emilia, che ha partecipato allo studio. “Eppure, sappiamo che nel periodo in cui scoppiò l’epidemia di peste, quasi il 90% della popolazione europea viveva in campagna, nelle aree rurali. Di conseguenza, per valutare la mortalità di questa malattia, sono state sempre fatte delle inferenze a partire solo dai dati relativi alle aree urbane. In questi luoghi, però, c’era una concertazione maggiore di persone, un fattore che, come sappiamo, favorisce la diffusione delle malattie infettive. Di conseguenza, i dati finora considerati per valutare l’incidenza delle peste non riflettono l’intera realtà europea”.

L’intervista completa ad Assunta Florenzano, ricercatrice in paleoecologia e palinologia all’università di Modena e Reggio Emilia. Montaggio di Barbara Paknazar

Per correggere l’errore dovuto alla scarsità di dati provenienti dalle aree rurali, nel 2018 è nato un progetto di ricerca, coordinato dal professor Adam Izdebski del Max Plank Institute e dalla professoressa Alessia Masi dell’università “la Sapienza” di Roma, che ha coinvolto studiosi provenienti da quasi 60 centri di ricerca.

“Il nostro scopo era quello di stimare l'impatto demografico della peste utilizzando gli strumenti “classici” di cui la paleoecologia si avvale già da molto tempo e combinandoli con le più recenti tecnologie utilizzate per l’analisi dei big data”, racconta Florenzano. “Esistono infatti molti studi condotti in precedenza che hanno fornito una serie di dati sul paesaggio culturale del passato”. In altre parole, gli studiosi di paleoecologia e palinologia raccolgono campioni ambientali da un determinato luogo e li analizzano per capire quanto e come il paesaggio di quel luogo abbia subito dei cambiamenti in un particolare periodo storico. Nello specifico, gli autori di questo nuovo studio volevano scoprire quanto fosse mutato il paesaggio nel periodo corrispondente allo scoppio della peste, una fase storica in cui gli effetti dell’impatto antropico sono piuttosto evidenti dallo studio dei campioni paleoecologici.

“Abbiamo messo insieme tutti i dati palinologici che da anni abbiamo raccolto al nostro laboratorio dell’università di Modena e Reggio Emilia per acquisire nuove informazioni sul paesaggio antico. Questi dati provengono dallo studio del polline fossile che si è depositato nelle varie zone europee nel corso delle diverse fasi storiche. Insomma: il polline può aiutarci a scoprire come il paesaggio sia stato modificato dagli esseri umani”.

Se in un sito archeologico si trovano molte tracce di pollini provenienti da piante di cereali, si può presumere che nell’area in questione fossero diffuse le coltivazioni agricole. Al contrario, le tracce di pollini provenienti da piante selvatiche testimoniano che, nel periodo corrispondente a quello in cui il polline si è depositato, le aree coltivate erano ridotte e il territorio era stato soggetto a un processo di riboschizzazione in cui la natura si era riappropriata dei suoi spazi.

“Abbiamo raccolto un set di dati molto vasto composto da più di 1600 campioni pollinici provenienti da 261 siti localizzati in 19 paesi europei”, continua Florenzano. “A partire dallo studio dei dati palinologici è possibile quindi capire come si è modificato il paesaggio nel corso del tempo e identificare per ogni area i momenti in cui, a causa dell’impatto demografico della peste, i campi sono stati abbandonati, la coltivazione è diminuita per lasciare posto alla pastorizia (che richiede meno forza lavoro rispetto all’agricoltura) oppure è aumentata la superficie boschiva.

Lo studio delle fonti storiche suggerisce che la diffusione della peste sia stata massiccia e uguale in tutta Europa, ma questo è stato confermato solo dai campioni raccolti in alcune regioni come la Scandinavia, la Francia, l’Italia centrale e la Germania sud-occidentale, dove i dati pollinici riflettono un calo consistente della cerealicoltura. Ci sono poi alcune aree, come la Spagna, l’Irlanda e i paesi del centro Europa, in cui le attività agricole sono diminuite, ma non si sono arrestate completamente.

Al contrario, in altre aree dell'Europa centrale e in Polonia, dove i campi di cereali erano diffusissimi sul territorio, i dati palinologici suggeriscono che il contagio sia stato minore. La nostra ipotesi è stata convalidata anche dall’analisi dei documenti presenti in alcuni archivi storici e relativi alla riscossione delle tasse. Questi materiali confermano che, nel corso del 1300, alcune zone mantennero una buona produzione agricola e godettero quindi di una discreta stabilità economica”.

“Analizzando cronologicamente i dati palinologici siamo riusciti inoltre a osservare il susseguirsi delle singole ondate di peste nelle diverse aree europee”, spiega Florenzano. “Sappiamo, infatti, che l’andamento del contagio ha delle fasi di fluttuazione, dovute alla comparsa, alla scomparsa e al ritorno dei vari focolai. Abbiamo analizzato statisticamente i dati relativi a ogni regione secondo degli specifici intervalli temporali. In particolare, abbiamo notato che alcuni in paesi, tra cui l'Italia centrale, l’impatto della pandemia è stato molto forte fin da subito, come viene dimostrato dai dati che testimoniano il crollo della cerealicoltura. Successivamente, l’agricoltura venne sostituita progressivamente dalla pastorizia, la quale, però, si interruppe a sua volta, seguita dall’abbandono dei campi e dalla riforestazione delle aree agricole. Questi dati confermano che in Italia la peste nera aprì una grave crisi economica e causò un consistente crollo demografico. Infatti, la popolazione impiegò molti anni per riprendersi anche dopo la fine della fase acuta del contagio”.

I risultati dello studio hanno anche permesso ai ricercatori di confermare la loro ipotesi secondo la quale il bilancio delle vittime sia stato più alto nelle aree urbane, rispetto alle campagne. “Come purtroppo abbiamo imparato a nostre spese a causa del covid, gli assembramenti e l’alta concentrazione di persone in poco spazio comportano una maggiore diffusione dell'infezione. Inoltre, nelle città medievali le condizioni igieniche erano decisamente peggiori rispetto alle aree rurali”, spiega la ricercatrice.

“Oggi abbiamo la fortuna di avere dei mezzi di comunicazione sofisticati che ci tengono aggiornati in tempo reale sull’andamento del contagio nelle varie zone del mondo. Naturalmente, non è possibile avere dati altrettanto precisi per le pandemie del passato. Sappiamo, tra l’altro, che la peste si diffuse anche in Asia e nell’Africa subsahariana, aree in cui le fonti scritte a disposizione sono ancora più scarse. Sarebbe quindi utile applicare questo approccio anche ad altri contesti oltre a quello europeo che, come sappiamo, è stato il centro del contagio.

I big data hanno rivoluzionato la scienza in vari campi e grazie al big data palaeoecology abbiamo potuto rielaborare i tantissimi dati di cui disponiamo con un approccio statistico per ottenere una differenziazione spaziale. Questa è la direzione giusta da seguire per la ricerca futura, che ci darà la possibilità di utilizzare strumenti e approcci nuovi per conoscere meglio il passato”.

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