SOCIETÀ

La pianta che attraversa il tempo: alla scoperta del cacao, tra ricerca e inclusione

Conosciamo bene il cioccolato ma del cacao sappiamo poco, eppure il suo consumo "è antico quanto la pratica dell'agricoltura nel continente americano [...] e oggi esistono numerose varietà di questo seme, che nel corso dei secoli è stato coltivato, accudito e selezionato dai coltivatori". L'origine è lontana, risale probabilmente al 5500 a.C. ed è rintracciabile nell'area amazzonica dell'attuale Ecuador, indizi archeologici relativi al cacao in Mesoamerica (civiltà olmeca in Messico) sono datati 1500 a.C. e, tra 1000 a.C. e 900 d.C. il cacao si consolida nella civiltà Maya.

"Esistono tantissime tracce in siti archeologici, vasellame, monumenti di pietra, tombe. Il cacao entra a far parte di un patrimonio culturale molto importante e assume una dimensione rituale che si collega a una serie di elementi simbolici come il passaggio vita/morte, ad animali come felini o anfibi, all’idea di rinascita. Tempo dopo, ne resteranno tracce anche nella Bibbia Maya del popol-vuh, che si diffonderà nel Settecento grazie agli studi di religiosi guatemaltechi".

Cacao e cioccolato, tradizioni antiche e grandi trasformazioni sociali sono al centro del libro Cacao. La pianta che attraverso il tempo. Un viaggio tra ricerca e inclusione (Carocci editore), risultato di una ricerca ampia e articolata a cui hanno partecipato numerosi studiosi, storici, archeologi, agronomi e genetisti. Ne abbiamo parlato con Massimo De Giuseppe, autore e curatore del volume (insieme a Clementina Battcock, Elisabeth Casanova Garcia e Giuseppe Carrieri), docente di Storia contemporanea all’Università IULM, delegato del Rettore all'inclusione sociale e direttore del centro di ricerca Euresis, Culture e sostenibilità, alla guida del progetto che ha permesso di realizzare anche una mostra e il documentario La leggenda dell'albero segreto, ripercorrendo un itinerario tra ecosistemi, religioni, guerre, commerci, invenzioni e appropriazioni culturali, dalla Mesoamerica maya al consumo di massa. Al centro degli studi di De Giuseppe vi sono i movimenti e le reti politiche, sociali e religiose, con particolare attenzione al Messico e al Centro America.

Una storia antichissima che lega le sue origini a un albero fragile delle aree tropicali americane, oggi vulnerabili al cambiamento climatico, approda nel corso del tempo a una globalizzazione commerciale e degli immaginari che sembra averne cancellato la memoria.

"Un prodotto di alcune aree tropicali delle Americhe, della Mesoamerica in particolare, ovvero l'area che va dal Messico al Centro America profondo e della regione amazzonica che corrisponde all'attuale Ecuador, diventa gradualmente un bene di lusso, poi borghese, infine di consumo di massa in Europa, rimuovendo infine l'elemento originario, un albero fragile che produce dei frutti. Questo è il risultato di un processo che vede da una parte il colonialismo europeo della grande monarchia spagnola (la prima spedizione commerciale di fave di cacao criollo dal porto di Veracruz in Nuova Spagna, oggi Messico, a Siviglia risale al 1585, nel 1600 inizia l’esportazione di cacao trinitario e forastero dal Sudamerica, ndr) e dall'altra le sue frammentazioni con l'azione di britannici, olandesi e francesi che, a un certo punto, riescono a rubarne un po' e a portarlo nei rispettivi territori. Il periodo dell'industrializzazione, quando nascono le barrette di cioccolato, corrisponde alla stagione dello spostamento delle piantagioni, che approdano in Africa e in alcune aree dell'Asia: da un consumo ispano-americano e di poche corti europee si passa a un consumo borghese che necessita di più materia prima. Infine, si arriva alla massificazione definitiva del Novecento. In sintesi, si propone il prodotto finito e l'origine botanica scompare dagli immaginari".

Con la globalizzazione commerciale cosa avviene nei territori d'origine di produzione del cacao? Quali sono le conseguenze su contesti, comunità locali, riti, tradizioni? Quale l'altra faccia della medaglia?

"Il fenomeno è interessante. A parte il Brasile, che diviene grande produttore ma solo successivamente con la crescita dei consumi, nel mondo originario americano, dove il cacao ha una tradizione culturale antichissima, resta un bene che non supera determinate dimensioni di piantagione. Un esempio: nel Tabasco, regione che produce circa l'80% del cacao messicano, ci sono micro fincas cacaoteras, piccole imprese di pochi ettari, dove le famiglie contadine continuano ad avere coltivazioni personali. Nei villaggi indigeni della Chontalpa si trovano teli per l'essicazione delle fave del cacao per produrre l'alimento base del mondo contadino che è il pozol, mescolanza che si beve a freddo con acqua, cacao tostato e mais cotto. Nel resto del mondo, invece, la situazione cambia radicalmente: i britannici portano il cacao in Giamaica e poi in Costa d'Oro, oggi Ghana, i francesi lo portano in Costa D'Avorio, che oggi da sola produce più cacao di tutto il continente americano. Vengono introdotte piantagioni che seguono le logiche dell'imperialismo. Ma queste ultime sono colture esposte al sole, mentre quelle originarie mesoamericane sono sempre state all'ombra, in zone in cui vi è una forte interazione tra uomo, animali e flora: questo è un aspetto molto importante perché il cacao si inserisce all'interno di un sistema agroforestale complesso e ha bisogno di ombra per essere protetto e produrre un microclima umido che permetta la nascita della zanzara/moscerino impollinatrice. Quando ci si sposta in colture di piantagione indotta, penso all'Africa ma anche ad alcune aree dell'Asia, il sistema si perde. Faccio un esempio: il caffè arriva nelle Americhe e in alcuni contesti, agli inizi dell'Ottocento, diventa dominante perché redditizio, però in certe aree si riesce a conservare la produzione di cacao solo per l'autoconsumo. Oggi, soprattutto in Salvador e Guatemala, nelle aree che erano diventate monocolture di caffè, diverse realtà della cooperazione internazionale stanno reintroducendo sistemi cacaoteros che sono più legati alla biodiversità e permettono la ridistribuzione della ricchezza, facendo nascere cooperative preziose per l'autosussistenza".

Spostiamoci in Italia, quale la nostra storia legata al cacao?

"L'Italia è un caso di glocalizzazione. Dal punto di vista storico una parte d'Italia era legata alla monarchia spagnola. Ci sono tantissime testimonianze d’epoca moderna che parlano di corti nobiliari con particolari predilezioni e una certa idea di lusso legata al cacao, come il Gran Ducato di Toscana. Ci sono medici che lo descrivono, il testo del medico della corte di Filippo II viene tradotto in italiano, e vi è persino una disputa teologica che riguarda l'Italia e che vede da una parte i Domenicani, contrari alla liceità della bevanda del cacao, considerata afrodisiaca e demoniaca, e dall'altra la Compagnia di Gesù che invece sostiene e addirittura produce cacao. Nel 1767 i Gesuiti vengono espulsi dal Messico, al tempo Vicereame della Nuova Spagna, e molti di loro raggiungono lo Stato Pontificio, sistemandosi tra Bologna e Ravenna: qui lasciano cenni e testimonianze relative al cacao e al cioccolato”.

Nel Settecento il cacao si diffonde ed entra nell'immaginario collettivo…

"Con la nascita delle prime piccole fabbriche artigianali di cioccolato, penso a Modica, centrale per la circolazione europea del cacao insieme, tra le altre, a Tarragona, Vienna, Parigi, Torino. A Modica il cacao entra nella cultura popolare locale: viene riprodotto il metate, pietra lavica mesoamericana, utilizzando una pietra lavica dell'Etna, e si diffondono le 'mpanatigghi, una specie di empanadas spagnole con carne e cacao. La circolazione crea immaginari e una trasmigrazione di oggetti e nomi di cui, nella nostra ricerca, si è occupato Davide Dominici dell'Università di Bologna: la jicara, una sorta di zucca usata nelle Americhe per bere cioccolata, si trasforma in italiano in chicchera, tazza utilizzata per consumare cioccolata, successivamente anche caffè. Con l'avvento della barretta di cioccolato, tra gli anni Quaranta e Cinquanta dell'Ottocento, nasceranno anche in Italia tra fine Ottocento e i primi vent’anni del Novecento le imprese che daranno vita ai primi grandi nuclei del cioccolato italiano".

Entriamo nel Novecento.

"Tutto cambia nel secondo dopoguerra, quando gli statunitensi arrivano in Italia e regalano ai bambini le barrette che fanno parte delle loro dotazioni alimentari. Una operazione di soft power che serve alla propaganda statunitense per creare una buona immagine di sé tra gli italiani. A quel punto il cioccolato entra nell'immaginario di massa, legandosi a precisi canoni e alla pubblicità. Negli anni Sessanta del boom economico italiano le fabbriche iniziano a produrre su scala sempre più massificata ed ecco Perugina, Ferrero, Caffarel. Infine, una nuova e ultima svolta alla fine del Novecento: un doppio binario, da una parte la grande industria, fatta di corporation che piano piano assorbiranno alcune fabbriche, dall'altra la via del cioccolato gourmet, più raffinato e attento alla sostenibilità. Ma anche in questo secondo caso bisogna fare attenzione prima di tutto alla narrazione che ne viene fatta: è necessario fare una distinzione tra chi compra e usa pasta di cacao e i pochissimi che scelgono invece di utilizzare fave di cacao che arrivano dai territori di origine. Qui si apre un’altra partita che riguarda anche la consapevolezza dei consumatori ". 

Tornando alla ricerca, c'è stato un incontro, una esperienza o una scoperta che ha dato particolare energia o significato al vostro progetto? 

"Paradossalmente io non sono un grande appassionato di cioccolato, non lo ero neanche da bambino. Ho incontrato il cacao e ho imparato a conoscerlo lavorando in Tabasco, Messico, dove lo vedevo in ogni comunità. Quando abbiamo iniziato a pensare e poi costruire un progetto attorno alla glocalizzazione, il cacao ci è sembrato perfetto. Con Giuseppe Carrieri, girando La leggenda dell'albero segreto, un dialogo simbolico tra Dio e la scienza, tra la spiritualità nelle comunità indigene e i laboratori scientifici dove si studia il genoma del cacao, abbiamo fatto tanti incontri interessanti: ne ricordo uno in particolare, nella zona Chol del Tabasco dove ancora esistono le parteras indigene, ostetriche tradizionali che inseriscono la fava di cacao nell'ombelico del neonato fino allo svezzamento. Andammo a filmare quel momento in una famiglia Chontal, ci dissero che si trattava di un bambino. A riprese terminate, conquistata la loro fiducia, emerse la verità: era una bambina, proveniva da un altro nucleo familiare e aveva un nome diverso da quello che ci era stato detto. Le false informazioni erano servite a proteggere quella creatura da un mondo esterno che era entrato nella intimità della famiglia. Ci dissero, infine, di aver acconsentito alle riprese perché il cacao rappresentava per loro una potente protezione rispetto a questa invasione esterna. Può sembrare una cosa di poca importanza, ma non lo è: durante le riprese e per tutto il progetto abbiamo sempre cercato un dialogo alla pari scegliendo di coinvolgere le comunità e trasformando i piccoli produttori di quelle aree in attori protagonisti, mettendoli allo stesso livello degli studiosi, registi, storici e antropologi".

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