SOCIETÀ

Pietro Greco, le isole e le carceri

Esattamente tre anni fa Pietro Greco (1955-2020) ospitò a Ischia una conferenza su un inedito e appassionante argomento del quale discutevamo da tempo immemorabile: l’uso millenario degli ecosistemi insulari come pena detentiva umana (o disumana che dir si voglia). Dal 21 al 24 febbraio 2018 il Circolo Georges Sadoul di Ischia (fondato nel 1977), in collaborazione con il locale liceo, con l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli e con il Centro Studi di Città della Scienza di Napoli, organizzò l’annuale edizione della scuola Scienza&Società, ancora una volta al teatro Poli di Via delle Ginestre, ogni mattina e pomeriggio di fronte a centinaia di studenti. Il tema del 2018 era: “(Piccole) Isole nella corrente. Evoluzione naturale, culturale e sociale nel Mediterraneo. In ricordo di Paolo Gasparini”. Il programma era stato ancora una volta predisposto e coordinato da Pietro Greco e prevedeva il 23 febbraio una conferenza per la quale scegliemmo appunto il seguente titolo: ”L’isolamento insulare per allontanamento coatto, vendetta sociale, custodia di imputati o debitori, lavoro forzato, pena carceraria, confino e filtro migratorio, nel passato e/o nel presente, nel Mediterraneo”. 

Avevamo iniziato a parlarne decenni prima, davvero. Era un mio pallino, pensiero intrusivo emerso in non si sa bene quale particolare occasione, e ne avevamo condiviso esempi concreti e multidisciplinari possibili risvolti, in tanti incontri e viaggi. La prima idea era venuta grazie alla lettura adolescenziale del letterario Conte di Montecristo (1844), dove sono protagoniste direttamente il Castello d'If dell'arcipelago delle Frioul nel golfo di Marsiglia e, indirettamente, la stessa isola di Montecristo dell'Arcipelago toscano? O, invece, dalla visione del perseguitato detenuto cinematografico Clint Eastwood, scaltramente evaso da Alcatraz nella baia di San Francisco? Era spuntata da altri libri o film, se ne occupano tantissimi, più o meno realistici, da Papillon a Plissken? A chi dei lettori non viene in mente un nome o un caso? E, soprattutto, in che momento è scattata la consapevolezza che il singolo episodio costituiva in realtà l’adattamento antropologico e culturale di un fatto fisico e biologico divenuto il binomio (non metaforico) isola-carcere, comportamento diffuso e frequente delle comunità umani stanziali, isolare qualcuno in una piccola isola? 

Come era scattato? Furono le memorie di storia antica, almeno dalle civiltà greca e romana, oppure i drammi contemporanei alla vita politico-culturale degli ultimi decenni, compresi la segregazione in campi di profughi e migranti via mare (in vario modo Lampedusa e Lesbo le conoscono tutti)? La partenza degli schiavi da Gorée in Senegal? L’arrivo e la selezione degli immigrati in Usa a Ellis Island? L’uso pluridecennale di Nocra (una delle 126 isole isolotti scogli dell’arcipelago di Dahlak) nell’Eritrea invasa dal pessimo colonialismo italiano nel Mar Rosso? La lunghissima prigionia di Nelson Mandela e dei leader sudafricano a Robben Island ad alcune miglia marine da Cape Town e all’incrocio fra i due oceani? La trasformazione dell’Asinara in parco, in cui ero impegnato in Parlamento e al Governo durante un paio di legislature circa 25 anni fa? La crudele detenzione a Imrali nel Mar di Marmara del leader curdo Abdullah Öcalan (che dura ancora oggi, ininterrottamente dal 15 febbraio 1999 in una cella singola, fino al 2009 unico carcerato della prigione, ormai siamo in pochi a ricordarlo)? O chiacchiere e visite dedicate allo stesso carcere nella minuscola “isola” del Castello Aragonese della sua grande isola di Ischia?

Raccoglievo dati e notizie, ne accennavo agli amici, compilavo elenchi per mari/oceani ed epoche, riflettevo sui risvolti biologici e culturali, chiedevo informazioni a esperti di varie materie o storici locali, ma non c’erano atlanti o repertori o studi completi. L’argomento aveva finito per diventare uno spunto rituale di personali conversazioni curiose. Pietro mi aveva sollecitato più volte a parlarne in pubblico o a scriverne diffusamente. Era una sua caratteristica preziosa e generosa, lui non poteva occuparsi di tutto (pur essendo di tutto curioso), con affetto ed empatia invitava ciascuno a cercare ancora, a dare il meglio sulle proprie competenze o sui propri interessi. Senza mai gelosia o competizione, sordità o disinteresse, crescendo insieme invece. L’amico grande scrittore Bruno Arpaia ha spiegato benissimo la fertile dinamica relazionale in pagine bellissime di un intenso colto libro, Il fantasma dei fatti (Guanda 2020): era stata una conversazione con Pietro Greco a stimolare la sua curiosità verso alcuni fatti (un tarlo contagioso per anni) e lo stesso Pietro era divenuto poi protagonista del suo romanzo, fantasmagorico interlocutore e filo conduttore della narrazione.

Dopo ulteriori mesi di ricerche, d’accordo con Pietro, preparai un powerpoint di trenta slides, con tante mappe e foto, comparazioni e intrecci interdisciplinari. L’isolamento insulare di individui da parte di comunità di sapiens risale indietro nel tempo; si deporta qualcuno nelle isole perché lì la penosa deportazione è più sicura e da lì è più difficile fuggire. La scelta di isolare individui nelle isole (per ragioni sociali e criminali, talora in parte anche sanitarie e psichiche) riguarda tutti gli ecosistemi marini antropizzati in tutti gli oceani e i mari. Avevo contato, escludendo quelle con più di 1000 km², fra passato e presente, con consapevoli limiti eurocentrici, oltre duecento isole-carcere (quasi una ventina lazzaretti. in alcuni periodi anche carceri): almeno novanta nel Mar Mediterraneo (Italia compresa), circa quindici nel Mar del Nord fin verso l’Artico, circa cinquanta nell’Oceano Atlantico, circa altre cinquanta nell’Oceano Pacifico fin verso Africa orientale e Australia. Certo, il voluto isolamento insulare umano è possibile solo da quando si naviga; da allora le isole sono a disposizione (anche) per de-portarvi qualcuno. Peraltro, per millenni e secoli le navi sono state mosse spesso da schiavi e lavori forzati, esse stesse artificiali (galleggianti) isole-carceri, E le occasioni non mancano: complessivamente le isole del Mediterraneo sono migliaia, solo l’Italia ha oltre 800 isole giuridicamente appartenenti alla Repubblica (marittime, lagunari, lacustri e fluviali).


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Le isole sono state sempre meta di migrazione forzata interna alla (complicata) convivenza umana; la storia ne conosce ovunque moltissime dove sono stati deportati individui (non solo nella finzione cinematografica), isole più o meno grandi e lontane (anche minuscole e sperse), più o meno abitate e costruite (anche quasi deserte e senza penitenziari); c’è una storia e geografia delle isole-carcere (questione anche di toponomastica), fatta di deportazioni, morti e fughe; di detenuti, guardie e residenti; in isole di ogni continente sono stati isolate famose personalità storicamente rilevanti considerate molto pericolose per il potere costituito. Nel Mediterraneo, fin dall’antica Grecia si mandavano lontano (e lì sono tutte isole!) i reietti dalla comunità, fu definito ostracismopoi i romani inventarono i due diversi istituti della deportatio in insulam e della relegatio in insulam: quando il carcere di epoca moderna non era stato concepito e la pena era solo vendicativa e corporale, si collocavano su isole coloro che avevano “ferito” individui o istituzioni della classe dirigente romana. 

Ben sappiamo, dalla biologia evoluzionistica, che l’isolamento ha specifiche conseguenze per tutte le specie e per tutti gli individui di ogni specie, ognuna a sua modo, ognuno a suo modo. Le isole hanno svolto e svolgono particolari funzioni rispetto alla selezione naturale e all’evoluzione della biodiversità, soprattutto per le specie che non nuotano e non volano in e da quegli ecosistemi. L’isolamento va calibrato con la biodiversità, con mezzi o capacità di mobilità e con le distanze; l'isolamento fisico, la mobilità sul territorio, le speciazioni e le migrazioni sono stati fattori chiave dell'evoluzione. Ma, come sempre, tutto è questione pure di ecologia, ovvero dell’ecosistema, quanto grande ed equilibrato, e della relazione fra ecosistemi differenti. Non c’è una misura biologica di cosa significhi essere “isolati”. Anche i continenti sono isole-arcipelaghi, terre contornate da acque, la questione rilevante è quanta superficie terrestre occupano, percentuale variabile nelle ere geologiche (comunque ora circa il 29% del totale). Anche le terreferme si muovono e vivono l’evoluzione, co-evolvonol’isolamento dipende dal livello del mare (a fini definitori, l’isola deve restare emersa anche durante l’alta marea). C’è una storia e una geografia delle migrazioni umane fra terre separate dal mare (il diritto di restare e la libertà di migrare), della presenza umana sulle isole (e sulle terreferme) e della navigazione umana. Il Mediterraneo non fa storia a sé, nemmeno per l’isolamento detentivo; casomai è specifico grazie alla più facile reperibilità di fonti per uno studioso europeo.

Se ne è riparlato spesso. Ho continuato a raccogliere materiali e a definire elenchi delle isole-carceri: per esempio sulla base della superficie (considerando anche se isolate o interne a un arcipelago): inferiore a 1 km² (100 ettari) (ne ho contate oltre 30), fra 1 e 10 km² (1000 ettari) (quasi 30), fra 10 e 100 km² (quasi 40), tra 100 e 1.000 km² (quasi 40) superiore a 1000 km² (forse troppo grandi, anche se ce ne sono in epoca romana, come la Corsica). Le variabili da prendere in considerazione sarebbero davvero numerose: sul piano geografico l’isola-carcere sia in mari e oceani che in laghi e fiumi; sul piano storico quelle con isolamento detentivo insulare riferito a millenni e secoli diversi o quelle specifiche di alcuni periodi storici, quelle per esempio nel (terribile) Novecento greco (finora ne ho contate 29) o di epoca romana (finora ne ho contate 28, alcune coincidono); sul piano operativo il tipo di carcere (connettendo e comparando anche varie epoche storiche), la distanza dalla terraferma, l’eventuale esclusività dell’uso detentivo, la convivenza o meno ed eventuale densità di abitanti civili, l’esistenza o meno di uno o più edifici, il numero dei detenuti e il “titolo” della detenzione (confino, lavoro all’aperto, penitenziario), le modalità e l’agevolezza del trasporto (anche per visite e merci), il materiale mitologico e iconografico esistente. Se gli amici di Pietro e i lettori presenti hanno casi o suggerimenti in materia saranno ben accolti.

Forse non è lavoro di un solo individuo. Ho consultato moltissimi testi, tuttavia ogni isola, ogni gruppo umano, ogni isolamento detentivo insulare, ogni carcerato, ogni carceriere, ogni fuggitivo, ogni isolano, ognuno fa storia a sé. Bisognerebbe ripartire dagli specifici oceano o mare, dalle loro geografia e storia; ripercorrere la vicenda della socialità e della giustizia fra i sapiens in connessione con ogni isola e con la relativa capacità di immigrare-emigrare (a ogni isola serve una terraferma più grande che ne faccia la controparte continentale). Bisognerebbe definire criteri quantitativi autonomi e connessi rispetto alla biologia evoluzionistica dei biodiversi ecosistemi insulari, al nostro arrivo in ogni dove (terra e mare), all’evoluzione qualitativa e quantitativa dei gruppi umani dell’ecosistema (specie compresenti, residenze, stato o colonia d’appartenenza, conflitti, cambi di appartenenza, emigrazioni forzate, lingue, municipio di riferimento), al significato di isolamento detentivo insulare (quantità e qualità, anche di altri tipi d’isolamento forzato).  Bisognerebbe individuare, verificare, discutere cosa (quanto e come) è comparabile nel tempo e nello spazio (un criterio potrebbe essere che sotto i 1000 km² un carcere va comunque considerato rilevante quando l’isola non è uno Stato e i residenti sono sotto i 10.000 abitanti). Bisognerebbe studiare ancora tanto e comprendere l’anima (corpi, senso, comunicazione, poesia, mito) dell’isolamento insulare e, di pari passo, il significato antico e moderno dell’isolamento detentivo insulare. In linea di massima, comunque, di qui in avanti: basta con l’isola-carcere! Facciamo parchi e musei (scienza e cultura) nelle isole! 

Alcune isole-carceri sono attive ancora oggi, altre sono ormai disabitate (talune con vestigia degli edifici penitenziari), altre sono meta di turismo proprio perché mantengono vivo il ricordo di detenuti e confinamenti (più o meno famosi), altre isole ancora vengono utilizzate per girare film con soggetti carcerari. E isole continuano a essere considerate metaforici carceri per qualcuno che vi abita. Sono innumerevoli sia romanzi memorie biografie saggi guide, sia quadri foto film documentari, su isole vere e “finte” con storie carcerarie vere e finte, con personaggi guardie e detenuti veri e finti. Manca uno studio completo e globale. Ovviamente, Pietro ogni tanto ricordava che toccava a me provarci, avevo teorizzato e coltivato l’idea. Mi convinse a preparare la conferenza di Ischia e poi suggerì subito che scrivessi un volume. Ancora per tutti questi tre anni. Vi è una traccia del continuo interesse anche su Il Bo Live, prendendo spunto da un interessante libro di Anna Foa riferito alle colonie penali del fascismo. Problemi personali mi impedirono di proseguire. Se mai potessi, se mai ci riuscirò (con il vostro aiuto), sarà dedicato a Pietro Greco, alle isole e ai carceri di vite fraterne.

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