SOCIETÀ

La politica italiana è pronta a rispondere all’appello sulle rinnovabili?

L’Italia e l’Europa intera stanno vivendo la più grave crisi energetica dallo shock petrolifero degli anni ‘70, che portò alla nascita della IEA (International Energy Agency) per monitorare la stabilità degli approvvigionamenti energetici. Quella stessa agenzia, nata soprattutto con lo scopo di coordinare il mercato del petrolio, oggi promuove con decisione la necessità di una transizione energetica imperniata sulle fonti rinnovabili, soprattutto solare ed eolico.

I prezzi dell’energia, impazziti dopo la guerra in Ucraina ma già in forte crescita nel 2021, sono anche al centro del dibattito politico e, di conseguenza, della campagna elettorale italiana che dopo il 25 settembre porterà alla composizione di un nuovo Parlamento.

La riduzione di forniture di gas russo ha fatto crescere la domanda di forniture alternative di gas e di GNL (gas naturale liquefatto), ha aumentato l’attività delle centrali a carbone, in Italia e in Germania ad esempio, mentre gli Stati Uniti non hanno mai esportato così tanto petrolio come adesso. Tutti questi sono segnali che vanno nella direzione opposta a quella di una urgente riduzione delle emissioni di cui c’è disperato bisogno per anche solo avvicinarsi a rispettare gli accordi di Parigi sul contenimento del riscaldamento globale a meno di 2°C.

Allo stesso tempo però le rinnovabili stanno stabilmente crescendo nel mondo e per la prima volta nel 2021 sono stati superati i 3000 GW di capacità di generazione di energia elettrica da rinnovabili. Allo stesso modo, nel settore dei trasporti il mercato delle auto elettriche è in netta crescita.

Secondo Alberto Bertucco, professore del dipartimento di ingegneria industriale e direttore del Centro Levi Cases dell’università di Padova (centro studi interdipartimentale di economia e tecnica dell’energia), si può ancora sperare che la transizione energetica possa subire un’accelerazione, anche in Italia: “Il processo di transizione energetica è in corso e non si potrà arrestare, perché una parte sempre maggiore dei cittadini sta prendendo coscienza dei pericoli causati dal cambiamento climatico a cui stiamo assistendo (frequenza degli eventi metereologici estremi, innalzamento del livello dei mari), e diventa consapevole del fatto che esso dipende principalmente dall’impiego dei combustibili fossili (carbone, petrolio e gas metano) come fonti di energia primaria per sostenere l’economia e la vita di tutti”.

“Da questo punto di vista credo che la caduta del governo italiano e le imminenti elezioni possano al massimo ritardare, ma non di molto, questo processo" sostiene Bertucco. "La scadenza che i Paesi Occidentali si sono dati per una produzione di energia “carbon-free”, cioè che non emette CO2 fossile in atmosfera, è il 2050, ma secondo me assisteremo ad un’accelerazione del processo di transizione".

Cosa glielo fa pensare?

Innanzitutto le tecnologie di produzione di energia elettrica “carbon-free” da fonti rinnovabili (pannelli fotovoltaici, pale eoliche e impianti idroelettrici) sono non solo già disponibili sul mercato ma sono anche convenienti perché assicurano costi di produzione più bassi di qualunque altra opzione (centrali termoelettriche a carbone, centrali termoelettriche a gas, centrali termonucleari a fissione). L’indice LCOE medio (Levelized Cost of Energy), che tiene conto dei costi sia di impianto sia di funzionamento, e si esprime in dollari per kWh prodotto, vale 0,048 USD/kWh per il fotovoltaico, 0,048 USD/kWh per l’idroelettrico e 0,033 USD/kWh per l’eolico on-shore (i dati sono del rapporto IRENA: Renewable Power Generation Costs in 2021). Per le centrali termoelettriche, a gas o a carbone e per quelle termonucleari questi valori cadono nell’intervallo fra 0,070 e 0,100 USD/kWh.

Inoltre le tensioni e le paure innescate dalle mancate forniture di gas naturale di provenienza russa hanno notevolmente accentuato il vantaggio economico delle rinnovabili. Per i Paesi che, come l’Italia, godono di una situazione molto favorevole di irraggiamento solare, il fotovoltaico è una strada pronta e obbligata che va seguita con convinzione e senza tentennamenti.

Un solo dato: per installare 1 GW di potenza con pannelli fotovoltaici occorre investire circa 900 milioni di euro, un’inezia se si pensa che da settembre 2021 a luglio 2022 il governo italiano ha già destinato circa 50 miliardi di euro per sostenere il rincaro dei prezzi delle bollette.

L’Italia pesa per non più del 2% sulle emissioni globali di gas ad effetto serra, ma arrivare prima degli altri a un Paese 100% rinnovabile sviluppando le tecnologie di contorno allo sviluppo del fotovoltaico (microreti, isole energetiche, sistemi di accumulo) può costituire un formidabile punto di forza sul mercato internazionale della transizione energetica.

La classe politica italiana è pronta a rispondere all’appello delle rinnovabili?

L’instabilità politica italiana e la scarsa sensibilità di una buona parte dei nostri politici ad imboccare la strada delle rinnovabili viene superata grazie a decisioni imposte a livello europeo. In tal senso pare emblematica la vicenda del bando alla vendita di automobili con motore a combustione interna, che è stato imposto al 2035 con la delibera UE del 8 luglio 2022, nonostante fino all’ultimo i politici italiani ostentassero sicurezza in uno slittamento dei tempi.

Il Centro Levi Cases, che lei ha diretto per quasi 9 anni, ha prodotto nel 2019 lo studio Veneto 100% rinnovabile. Cosa sta facendo la regione Veneto sul fronte delle rinnovabili?

Lo studio svolto dal Centro Levi Cases ha evidenziato in maniera dettagliata e puntuale come il Veneto potrebbe ragionevolmente completare il processo di transizione energetica verso le rinnovabili entro il 2050, ma ha anche dimostrato la necessità di muoversi da subito e senza indugi (dal 2019 si sono già persi 3 anni). Per chi fosse interessato, questo studio è disponibile e scaricabile dal sito del Centro Levi Cases. Purtroppo i segnali che giungono dai nostri amministratori, forse perché non sono bene informati, sono tutt’altro che positivi: ad esempio, il 15 luglio 2022, l’assessore regionale all’energia si è pubblicamente espresso contro la produzione di biometano e contro l’installazione del fotovoltaico nella nostra Regione, portando a sostegno delle sue tesi motivazioni prive di fondamento, come quella che il biometano verrebbe prodotto utilizzando coltivazioni ad uso alimentare, o che il fotovoltaico toglierebbe suolo all’agricoltura.

In ambito di ricerca lei si è occupato, tra le altre cose, di biometano. Che ruolo può avere questo biogas nella transizione energetica?

Il ruolo del biometano nel processo di transizione energetica non è il più rilevante, ma rimane essenziale nel garantire dei trasporti stradali e marittimi sostenibili. Per il nostro Paese è stata calcolata una potenzialità annua di produzione pari a circa 6 miliardi di metri cubi (il 9% circa dell’attuale fabbisogno complessivo di metano). Ma il biometano, che viene ottenuto dal biogas attraverso la fermentazione anaerobica (un processo condotto all’interno di recipienti chiusi dove oltre al metano si produce anche un solido utilizzabile come ammendante agricolo), è un ottimo sistema di recupero di energia e di materia da scarti di natura organica (come ad esempio deiezioni animali, scarti vegetali, residui delle produzioni dell’industria alimentare, rifiuti urbani): un modo intelligente di promuovere l’economia circolare e di costruire una filiera con ricadute importanti sul territorio. Purtroppo l’installazione di impianti di biometano spesso si scontra con l’opposizione di molti cittadini, per cui dobbiamo lavorare anche sull’accettazione di questi impianti da parte delle comunità locali.

Le aziende che lavorano col gas stanno puntando molto sull’idrogeno. Secondo lei quale dovrebbe essere il ruolo dell’idrogeno?

Per sua natura, l’idrogeno presenta almeno due problemi tecnici fondamentali.

Purtroppo non è un composto disponibile in natura. Dato che non esistono miniere di idrogeno, bisogna fabbricarlo (quindi, come l’elettricità, l’idrogeno non è una fonte, ma piuttosto un vettore di energia e un modo di immagazzinarla). Il processo di produzione richiede elevate quantità di energia che, nell’ottica della transizione energetica, non devono essere ricavate dai combustibili fossili, pena l’emissione di enormi quantità di CO2 (si noti che una tonnellata di carbone bruciando produce circa 3,5 ton di CO2, un valore che scende a 3,1 per il petrolio ed a 2,8 per il metano). L’unico idrogeno ecosostenibile è l’idrogeno “verde”, ottenuto dall’elettrolisi (scissione) dell’acqua provocata da energia elettrica, che però deve essere ottenuta da fonti rinnovabili.

L’idrogeno poi è un gas molto volatile (ha una densità bassissima, a meno che non si usino serbatoi a 700-800 atmosfere, e riesce a diffondere anche attraverso il ferro), è infiammabile, ed ha intervalli di esplosività in aria assai ampi: basta una piccola perdita da una tubazione perché, in presenza di innesco anche accidentale, si verifichi un disastro.

Il trasporto di idrogeno mediante reti di tubazioni, come si fa per il metano, non è tecnologia disponibile e presenta rischi incidentali molto elevati. Ciò che spesso si sente dichiarare anche ad alto livello (ma da fonti in chiaro conflitto di interesse come Snam) è che buona parte della rete nazionale del metano potrebbe trasportare anche idrogeno: questa, dal punto di vista tecnologico, è una stupidaggine. Come ingegnere chimico, pienamente competente della materia, non temo di sostenere ad oltranza la tesi che l’impiego dell’idrogeno deve restare confinato in siti ben controllati ed isolati dal territorio circostante, come gli impianti dell’industria petrolchimica (dove si sa come maneggiarlo, e lo si fa da cent’anni).

Sono ben consapevole che molte aziende stanno puntando sull’idrogeno, ma questo succede perché l’Italia e anche l’Europa hanno destinato cospicui finanziamenti (miliardi di euro) allo sviluppo di ricerche in questo settore. Gli studi finanziati dal Levi Cases, invece, hanno chiaramente dimostrato l’inopportunità, oltre che la mancata convenienza economica, di promuovere su larga scala tecnologie legate all’idrogeno come le auto a idrogeno per il trasporto privato o le caldaie ad idrogeno per il riscaldamento domestico.

In questa campagna elettorale più che in quelle precedenti si parla molto di energia, inclusa quella nucleare. Lei cosa ne pensa?

L’energia nucleare può essere ottenuta in due modi diversi: da fissione (uranio) o da fusione (il processo che avviene dentro le stelle).

L’energia da fusione non è realtà, anche se ricerche in tal senso sono state condotte a partire dal 1950. Gli esperti in materia (quelli più ottimisti) prevedono che prima di 60 o 70 anni non avremo centrali a fusione nucleare. Ma la transizione energetica deve essere completata entro 28 anni! Nonostante ciò anche nel nostro Paese si investono ogni anno svariate centinaia di milioni di euro per rincorrere questo obiettivo. La mia opinione è che promuovere la fusione nucleare è una questione di ricerca di base ma non può risolvere i problemi del caro energia perché la fusione nucleare ha un orizzonte di tempo incompatibile con il processo di transizione energetica.

Al contrario, l’energia da fissione è realtà a partire dagli anni 60 del secolo scorso, e sono circa 450 le centrali di questo tipo nel mondo. A parte i gravi problemi di sicurezza e i ben noti catastrofici effetti degli incidenti che si sono verificati, il decadimento dell’uranio produce grandi quantità di specie radioattive che rimangono tali anche per centinaia di migliaia di anni. Un indubbio vantaggio è che le centrali termonucleari non emettono CO2 fossile, ma a quale prezzo, economico e ambientale, si raggiunge questo risultato?

D’altra parte in questi giorni si sente molto parlare, specialmente dai politici in campagna elettorale, di “reattori nucleari di quarta generazione”, che vengono invocati come la soluzione finale ai problemi energetici del globo. Va chiarito subito che, ad oggi, questi reattori non esistono, e che sono in corso ricerche per capire se possono funzionare e in che modo realizzarli. Secondo gli esperti forse fra 10 anni saremo in grado di avere un prototipo, ma certamente nessuna centrale nucleare di quarta generazione potrà essere operativa prima di 25 anni.

Nel dibattito in corso, inoltre, nessuno parla dei costi di produzione del kWh (chilowattora) ottenuto con i “reattori di quarta generazione”, che saranno molto più alti di quelli col fotovoltaico, l’eolico o l’idroelettrico. E le scorie, pur ridotte in quantità, resteranno un’ignobile eredità per le generazioni future. Mi pare davvero inconcepibile che i politici invochino questa come la soluzione al gravissimo problema energetico di fronte a noi, e terribile che i cittadini non si accorgano che i “reattori nucleari di quarta generazione” sono soltanto uno specchietto per le allodole messo in campo per acquisire facili consensi elettorali.

Le fonti rinnovabili possono dare risposte concrete al problema del fabbisogno energetico? Che cosa è cambiato negli ultimi anni?

L’evoluzione, il perfezionamento e la forte diffusione delle tecnologie per il fotovoltaico e per l’eolico hanno modificato radicalmente la situazione rispetto a dieci anni fa. Ad esempio, dal 2011 al 2021 il costo dei pannelli fotovoltaici (installazione inclusa) ha avuto una diminuzione molto significativa (da 7000 euro/kW a 900 euro/kW), e le macchine eoliche vengono attualmente realizzate con contratti a mercato (finanziati da privati) per 20 euro/kWh, cioè cinque volte inferiori rispetto al 2011!

È anche da ricordare il fatto che i bacini idroelettrici italiani non vengono utilizzati per lo stoccaggio di energia (cosa che si potrebbe fare con investimenti molto bassi sui sistemi di pompaggio) per motivi di convenienza economica dei produttori di energia elettrica! Ed ancora, esiste una tecnologia, quella della Linea di trasmissione isolata a gas (GIL), in grado di trasportare l’elettricità su grandi distanze con perdite minime, di non difficile installazione e a un costo relativamente basso, che consentirebbe di produrre l’energia al Sud e trasportarla in tutto il Paese senza dover rifare da zero l’attuale rete di distribuzione. Ma anche questo, forse, non è di interesse degli attuali gestori della rete elettrica.

In Italia si dovrebbe investire immediatamente e con convinzione nel fotovoltaico, nell’eolico e nell’idroelettrico, come si sta facendo in altri Paesi mediterranei (Portogallo, Spagna). Il ritorno economico sarebbe enorme e nel giro di pochissimi anni si riuscirebbe probabilmente a svincolarsi dai ricatti delle fonti fossili.

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