SOCIETÀ

Portogallo, l'exploit della destra populista

Partiamo dalle certezze: la destra, nella sua accezione più ampia, ha vinto le ultime elezioni generali in Portogallo, innescate alla fine dello scorso anno dalle improvvise dimissioni del premier socialista di lunga data Antonio Costa, personalmente sfiorato (ma alcuni ministri e membri del suo staff sono stati direttamente coinvolti) in un’inchiesta per corruzione legata al business delle miniere di litio. Il maggior numero di voti (29,4%) è stato raccolto da una coalizione chiamata Alleanza Democratica, capitanata dal Partito Socialdemocratico (di centrodestra a dispetto del nome) con l’appoggio di altre formazioni minori: non un gran risultato, più o meno la stessa dote di voti ottenuta nel 2022. Appena sotto (con il 28,6%) c’è il Partito Socialista che ha dovuto fronteggiare le scorie di quello scandalo, oltre a un diffuso malcontento sociale (per via dell’inflazione, degli affitti alle stelle, soprattutto a Lisbona, e dei salari bassi), e che infatti alle urne ha perso tutto il vantaggio che appena due anni fa (con il 41,3%) gli aveva consentito di restare al governo. Ebbene, quell’enorme quantità di voti (degli scontenti, dei delusi, di coloro che negli ultimi anni sono scivolati verso un’inattesa povertà) è così finita verso l’unica formazione politica portoghese in grado di raccogliere quel “voto di protesta” che sta sconvolgendo gli equilibri politici in ogni angolo d’Europa: l’estrema destra populista di Chega, che dal 7% è passata al 18%. Seggi quadruplicati (da 12 a 48) e un imbarazzo evidente nell’intero establishment politico portoghese. Perché nessuno ora, soprattutto con quei numeri in Parlamento, vuole avere a che fare, e tantomeno scendere a patti, con gli estremisti. Non il centro-destra socialdemocratico (il suo leader Luis Montenegro l’ha detto in campagna elettorale e l’ha ribadito appena dopo lo scrutinio: «Non faremo mai accordi con Chega, che è un partito razzista e xenofobo»). Ma nemmeno il presidente della Repubblica Portoghese, Marcelo Rebero De Sousa: secondo un retroscena pubblicato dal settimanale Expresso, il presidente potrebbe “consentire” a Chega un appoggio esterno a un eventuale governo di destra, ma non permetterà agli estremisti di entrare a far parte del nuovo esecutivo. Nessuno li vuole. Ma la gente sì. E questo, in una democrazia compiuta, è un problema serio.

Cade dunque l’ultimo baluardo europeo, l’unica nazione che non aveva sperimentato, in tempi recenti, l’avanzata della destra estrema populista. Probabilmente perché erano ancora troppo fresche le ferite dei 41 anni di regime fascista, l’Estado Novo disegnato e tragicamente realizzato dal dittatore Antonio de Oliveira Salazar dal 1933 al 1974. Tra pochi giorni, proprio il 25 aprile, si celebrerà il 50° anniversario del “giorno della libertà”, quando un colpo di stato militare pacifico (la Rivoluzione dei garofani), restituì ai portoghesi la libertà e la democrazia, oltre a decretare la fine della “guerra d’oltremare”, nelle colonie portoghesi in Africa. E oggi, per la prima volta dal 1974, un partito marcatamente nazionalista si accredita come forza “trainante” in grado di svolgere un ruolo decisivo nel futuro politico del Portogallo. Come riassume Joana Ramiro, editorialista del Guardian: «È una delle grandi ironie della storia: poco meno di 50 giorni prima del 50° anniversario della rivoluzione portoghese, che ha rovesciato una dittatura durata quasi 50 anni, la nazione si è svegliata con quasi 50 legislatori di estrema destra appena eletti in parlamento».

Chega (che in portoghese vuol dire “Basta”) ha un programma piuttosto semplice da comprendere, sul quale campeggia la triade, tanto in voga tra le destre europee, “Deus, Patria, Familia” (concetto che in realtà risale al 1860, quando Giuseppe Mazzini scrisse “I doveri dell’uomo”, e solo successivamente adottato, e manipolato, dalla dottrina fascista). Il suo leader è André Ventura, 41 anni, ex membro del Partito Socialdemocratico, ex giornalista sportivo, laurea in giurisprudenza, sacerdote mancato e, a suo dire, fervente cattolico («Sento che Dio mi ha dato questa missione»). Il suo “modello” politico è l’ex presidente brasiliano Luis Bolsonaro. La sua principale “bandiera” è il razzismo, che sventola con violenza contro gli immigrati islamici («la riduzione delle comunità islamiche non è solo una questione di sicurezza, ma di sopravvivenza della nostra democrazia») e soprattutto contro la comunità Rom, accusata di essere «una minaccia per la salute pubblica»: durante la pandemia di Covid-19 era arrivato perfino a proporre per loro la creazione di “un piano di confinamento specifico”. È un convinto nazionalista, sovranista, sostiene la castrazione chimica per i pedofili (proposta già dichiarata incostituzionale dal Consiglio Superiore della Magistratura), vorrebbe limitare i diritti dei reclusi, impedendo agli immigrati clandestini la possibilità di accedere all’assistenza sanitaria. A livello fiscale, propone una sola aliquota “piatta”, a prescindere dai livelli di reddito. Vuole privatizzare la sanità e l’istruzione. È contro l’aborto. E ha sostenuto con convinzione che «non sarebbe male tagliare la mano a qualche ladro», così, per dare l’esempio. In Europa può contare su diversi “amici” che condividono i suoi stessi capisaldi ideologici: dai vicini spagnoli di Vox, guidati da Santiago Abascal, ai tedeschi di Alternative für Deutschland, ai francesi del Rassemblement National, fino al leader della Lega Matteo Salvini (con questi ultimi partiti Ventura condivide anche l’appartenenza al gruppo europeo di Identità e Democrazia). Alle elezioni di domenica scorsa Chega ha ottenuto più di un milione di voti: di protesta, marcatamente “antisistema”, non più soltanto spia, ma segnale evidente che la pazienza degli elettori portoghesi è finita. «Mi sembra relativamente ragionevole pensare che le persone si siano mobilitate per votare per Chega, non per convinzione, ma semplicemente per mostrare il loro profondo disappunto», ha spiegato l’economista Luís Serra Coelho. Anche se tra le fila dei suoi più accesi sostenitori c’è di certo una discreta quota di nostalgici dell’Estado Novo, la dittatura salazarista.

Veniamo così al capitolo delle incertezze, delle profonde incognite che il voto del 10 marzo scorso ha determinato nel futuro politico del Portogallo. L’attribuzione dei seggi non è ancora ultimata (deve ancora terminare il conteggio dei voti dei residenti all’estero: l’esito sarà pubblicato il 20 marzo), ma l’unica maggioranza possibile sembrerebbe poter venire dall’alleanza di destra tra Alleanza Democratica e Chega. Luis Montenegro, che con ogni probabilità riceverà dal presidente l’incarico esplorativo (salvo improbabili “sorpassi” dell’ultimo secondo da parte dei socialisti), almeno per ora, esclude l’ipotesi, ma la politica ha già insegnato che qualsiasi intransigenza, all’atto pratico, può trasformarsi in possibilità. Il leader del centrodestra, forte di quel pugno di voti di vantaggio sui socialisti, ha già messo le mani avanti ipotizzando la nascita di un governo di minoranza. «E mi aspetto - ha dichiarato Montenegro - che PS e Chega non si mettano di traverso per impedire la nascita del governo che i portoghesi hanno dichiarato di volere». Anche a sinistra sono in corso colloqui per raccogliere le forze (oltre al Partito Socialista c’è il Bloco de Esquerda, i verdi di Livre e il partito animalista Pan), con la prospettiva non di formare un governo (la somma dei seggi, 91, è troppo distante dai 116 della quota di maggioranza), ma una più solida opposizione. Se non dovesse passare il governo di minoranza, l’unica alternativa sarebbe il ritorno alle urne: un nuovo voto, con nuove incognite.

André Ventura a questo punto non ha fretta. Si limita a rimarcare il successo di Chega e si gode l’inedito ruolo di terzo incomodo: «Questa è la fine del sistema bipartitico», ha esultato. «La volontà dei portoghesi è stata chiara: da stasera in molti dovranno occuparsi della nostra vittoria. C'è un enorme marciume che si sta diffondendo in tutto il paese. E soltanto noi possiamo fare qualcosa al riguardo». Peraltro, in campagna elettorale aveva promesso che avrebbe “ripulito il Portogallo da socialisti e socialdemocratici”. Se corteggiato, ascolterà. Ma l’ipotesi di tornare al voto non gli dispiace affatto, certo com’è di aver preso il vento giusto per crescere ancora nei consensi. Scrive ancora il Guardian: «Il successo di Chega è il risultato di aver lasciato crescere la bestia del malcontento sociale, nutrendosi del rapido deterioramento delle condizioni di vita e di lavoro. In un Portogallo in cui i redditi sono i sesti più bassi dell’UE, ma i “residenti non abituali” godono di varie esenzioni fiscali, i più vulnerabili sono facile preda di un progetto politico ultranazionalista che promette salari più alti e tasse più basse. Il cambiamento paradigmatico non è tanto la fine del sistema bipartitico, ma la fine della fiducia dell’elettorato in un modello socioeconomico che per molti decenni non è riuscito a produrre risultati sostenibili per il lavoratore medio». Dunque la domanda è: quali rischi corre davvero il Portogallo (e con lui la gran parte delle nazioni europee) con la crescita esponenziale dell’estrema destra populista? Quando ancora l’allarme non suonava così forte  (poco più di tre anni fa) il sito web Open Democracy pubblicava questa analisi: «Ventura sta seguendo da vicino il copione dell’estrema destra. Le sue osservazioni contro le minoranze rom e i suoi attacchi alla credibilità della stampa assomigliano molto agli strumenti impiegati da Bolsonaro, Orban e Trump per dividere la società in “noi” e “loro”. Con il pretesto della libertà di parola, fomenta il razzismo e incita i suoi sostenitori contro le minoranze rom e nere portoghesi, approfittando delle divisioni esistenti per spianare la strada al potere al suo partito. Se ci riuscisse, non c’è dubbio che continuerebbe a seguire le orme dei suoi omologhi di estrema destra all’estero». Oggi, a tre anni di distanza, sappiamo che quel solco è ormai tracciato.

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