SOCIETÀ

Possiamo imparare dalla nostra sofferenza

Possiamo imparare dalla sofferenza, fare esperienza del dolore e trasformare traumi, perdite, ferite in una risorsa preziosa per la nostra esistenza? Gli anni di pandemia hanno segnato le nostre vite, hanno spezzato legami, all'improvviso, hanno ribaltato quotidianità che non sono mai più tornate le stesse, hanno costretto molti a percorrere nuove vie, sconosciute e meno sicure. Abbiamo parlato di tutto questo con Ines Testoni, docente di Psicologia sociale e direttrice scientifica del master Death studies & the end of life all'Università di Padova, tra gli organizzatori di un recente congresso internazionale dedicato proprio all'argomento.

"Ci chiediamo se per noi occidentali, che viviamo con agio e nell'opulenza, sia davvero possibile trarre un insegnamento dalla sofferenza. Nel passato il memento mori era esercitato come una abituazione: stare al mondo significava soffrire, la sfida consisteva proprio nel voler vivere nonostante la sofferenza. Invece, ora, in Occidente, siamo in grado di rispondere alle esigenze del 'non soffrire' mettendo in campo tutte le competenze tecno-scientifiche che ci permettono di consumare il mondo degli altri, in particolare quello dei poveri, per vivere bene noi e rispondere così alle nostre singole esigenze. Risulta dunque difficile per gli occidentali accettare che dalla sofferenza si possa apprendere qualcosa, se non cercando soluzioni per prevenirla o facendo in modo che non si ripresenti".

La pandemia, si diceva, ha stravolto piani, visioni, certezze, scuotendo abitudini dormienti e rimescolando le carte di tante esistenze. C’è chi ha perso i propri cari, vivendo l'esperienza di un addio improvviso e lacerante, chi ha vissuto sulla propria pelle gli effetti più duri del covid. Ma oltre questi eventi specifici e recenti, la verità è che sono tante e diverse le circostanze che potrebbero causare potenzialmente dei traumi e a cui l’essere umano viene esposto nel corso della sua intera esistenza. La perdita, ma anche aggressioni, incidenti, eventi più o meno improvvisi e violenti che mai vorremmo affrontare.

Oggi si è portati ad allontanare le esperienze di mortificazione e sofferenza, che invece incidono profondamente sul nostro percorso. "La cultura del benessere è un concetto ambivalente: lo critichiamo, perché ci rende poco umani e prevaricatori nei confronti degli altri, e al tempo stesso lo auspichiamo. Inoltre il benessere ci anestetizza: ci imponiamo di non ragionare sulla finitudine, ci diciamo che è meglio non pensarci, ma la prima cosa che ci ha insegnato il covid è di pensare proprio a questo".

La rimozione non è la soluzione perché è proprio dalle ferite che prendono avvio le metamorfosi di trasformazione profonda della propria visione del mondo. "Parliamo del post-traumatic growth - spiega Testoni -. Il cordoglio, il dolore per la perdita di qualcuno, diventa lutto se può essere elaborato nella relazione sociale con gli altri: in questo senso assumono importanza cruciale la ritualità e la vita di comunità. Se manca una vita di relazione il cordoglio diventa ingestibile, lasciando un segno spesso indelebile che modifica il modo di funzionare della vita. Entrando in relazione positiva con un mondo capace di dare senso a quanto accaduto e un significato alla sofferenza, anche il lutto più atroce potrà diventare una grandissima occasione di crescita". In che modo? "Prendendo consapevolezza del limite, imparando ad attraversare il dolore e l'inferno della perdita, per poi riuscire ad aiutare altre persone a compiere lo stesso percorso. Il post-traumatic growth è la capacità di diventare talmente maturi da mettersi a disposizione di chi soffre come te: mi vengono in mente le storie di Franca Benini ed Elisabetta Cipollone, entrambe nominate Cavaliere della Repubblica". 

Non tutti però sono in grado di elaborare una ferita traducendola in relazione di comunità. In questi casi una trasformazione è ugualmente possibile? "Si può scoprire di avere qualcosa da dire, può essere l'occasione per una svolta o per riprendere le fila di qualcosa di incompiuto. All'elaborazione dell'incompiuto, però, deve affiancarsi l'elaborazione di quel che è rimasto in sospeso con la persona che ci ha lasciato. In questo compito di elaborazione dei sospesi con noi stessi e con l'altro c'è il segreto del rinnovamento. L'ideale è socializzare questo rinnovamento, ma per qualcuno in effetti può essere un processo solo interiore".

"Dici che la sofferenza non serve a niente. Ma non è vero. La sofferenza serve a far urlare. Per farci avvedere dell’insensatezza. Per permetterci di notare il disordine. Per scorgere la frattura del mondo. Dici che la sofferenza non serve a niente. Ma non è vero. Serve a dare testimonianza del corpo spezzato”. Una citazione di Jeanne Hyvrard apre il libro di Michela Marzano Cosa fare delle nostre ferite? (Erikson): un volume che sposta il punto di vista rispetto alla nostra principale riflessione ma che ritrova un punto di incontro in alcuni passaggi fondamentali invitando, per esempio, a "restituire alle ferite la loro vera dimensione”. E ancora, “a trasformare le ferite che ci abitano nel nostro punto di forza", riconsegnando alla fiducia in noi stessi e negli altri il giusto ruolo.

"Le ferite - spiega l’autrice - mi hanno permesso di fare posto all'altro". Ecco un altro aspetto della questione: le conseguenze e gli effetti che l'elaborazione dei traumi hanno sulle relazioni, sul nostro rapporto con il mondo, oltre noi. Sul modo di vedere e ‘allestire’ lo spazio di un futuro possibile oltre le perdite e i dolori attraversati. 

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