L’altro giorno, come ogni anno da più di trenta, veniva annunciata la terzina finalista del premio letterario internazionale “Latisana per il Nord-Est”. A giocarsi il titolo sono Cristina Battocletti (Epigenetica, La nave di Teseo), Emanuela Canepa (Resta con me, sorella, Einaudi) ed Esther Kinsky (Rombo, Iperborea), tre scrittici. Quasi tutti i giornali hanno immediatamente titolato così, come facciamo noi oggi provocatoriamente. E questo ci fa per forza riflettere.
È così strano che in finale a un premio letterario arrivino solo donne? Sì, lo è. Forse è addirittura un unicum.
Dobbiamo esserne felici? La domanda è volutamente mal posta.
Sono in giuria proprio al premio Latisana da qualche anno, e, fin da subito, mi sono trovata a discutere con i colleghi – nei nostri consessi virtuali o in presenza per stabilire finalisti e vincitori – per sostenere, anche con passione, questo o quell’autore (questa o quell’autrice), uscendone più o meno soddisfatta, ma davvero mai il sesso di chi scrive è stato un discrimine. Semmai mi sono trovata a scontrarmi con gli altri a proposito della difficoltà di mettere a confronto romanzi di provenienza così diversa, soprattutto i balcanici verso gli italiani: il contesto geopolitico, sociale, economico è chiaro che incide, e profondamente, sulla scrittura. Le ferite appena rimarginate, o non ancora, si riflettono sul modo di narrare che molto spesso è tagliente, sincopato, in sottrazione, pulsante. Forse più vivo e prolifico, in questo momento storico, rispetto alla narrativa italiana. Ma su quest’ultima affermazione in parte dissento, come dissentivo di fronte ai colleghi: la scrittura (e la valutazione della) non può prescindere dal contesto, e al contempo lo deve fare. Lo scrittore e la scrittrice sono figli del loro tempo e la loro bravura risiede (anche) nell’intercettare una sensibilità, nel dar voce all’universale che si particolarizza. La narrativa italiana contemporanea non è ombelicale, come si usa dire, anche se, è vero, spesso non racconta grandi eventi o grandi turbamenti. Tuttavia non lo è. Non c’è nulla di male nel partire dal proprio universo e trasfigurarlo.
Il romanzo che avrei voluto vincitore del Latisana quest’anno è Il bene che ti voglio di Sandro Frizziero (Mondadori), capace di raccontare una generazione (la mia – sono nata negli anni Ottanta) alle prese con un mondo che può sembrare impazzito agli occhi di chi di anni ne ha tanti, tanti di più. E che alle volte sembra incomprensibile anche a noi che lo popoliamo e che ci condanniamo, per esempio, ad amare attraverso un cellulare. È un romanzo “precursore dei tempi”, hai detto niente.
Evidentemente Frizziero non vincerà il Latisana. La sua penna – di un uomo (lo sottolineo provocatoriamente) – ha colpito la mia di sensibilità e il mio di immaginario, e non abbastanza quello degli altri giurati. Perché, come mi ha detto Antonio Franchini qualche sera fa mentre lo intervistavo sul suo ultimo libro, “la letteratura è ciò che, attraverso una serie di finzioni, ci dice le cose che sono più vicine all’essenza della nostra vita così come la nostra vita è”. Quindi, in qualche misura, anzi, di più, in modo assoluto, la letteratura dice di noi. Franchini alludeva all’universale, ma vale anche per il particolare. Questo per dire che c’è un grande margine di soggettività nella sua percezione (oltre che, ovviamente, nella sua produzione), anche se, evidentemente, per fortuna conserviamo dei canoni oggettivi nel parlarne, o nel valutarla: ricordiamo però che di recente in Giappone il più importante premio letterario per esordienti è stato vinto da una scrittrice che ha scritto il romanzo con ChatGpt o che Il Gattopardo prima di essere pubblicato ha fatto il giro degli editori (analogamente a molti romanzi recenti, poi magari in finale allo Strega, come Nina sull’argine di Veronica Galletta, per citarne uno).
L’intelligenza artificiale quando scrive romanzi è maschio o femmina? Il Gattopardo l’avrebbe potuto scrivere una donna? Sono domande inutili. Forse non totalmente prive di senso, perché la scienza ci assicura che le differenze tra i generi esistono (e forse non solo dal punto di vista meramente biologico), e per esempio Antonella Viola ne Il sesso è (quasi) tutto (Feltrinelli) ci spiega che la medicina deve assolutamente tenerne conto nei protocolli di cura, ma certamente non mettono a fuoco il punto.
La scrittura delle donne è diversa da quella degli uomini? Mi sento di dire che sostanzialmente questo possa essere asserito, così come la scrittura di uno scrittore (o di una scrittrice) americana è diversa da quella di un’inglese, e quella di un trentenne da quella di un settantenne. Ma sono generalizzazioni, astrazioni, semplificazioni. La scrittura femminile invece non esiste, se con questa locuzione vogliamo intendere un modo di scrivere svenevole, su temi romantici che fanno “battere il cuore”. O una scrittura troppo intimista. Le sorelle Brontë hanno pubblicato tutte con pseudonimo maschile romanzi che, un secolo e mezzo dopo, potrebbero correre il rischio di finire nel comparto di “letteratura femminile”. (Un inciso: in Italia a leggere sono soprattutto le donne, cosa sarebbe la “letteratura maschile” quindi?)
Googlando ho scoperto che esiste un test, il test di Bechdel, che valuta l’impatto delle figure femminili nelle opere di finzione. Consiste nel valutare se ci sono almeno due donne che parlano tra loro e se lo facciano di qualcosa che non riguarda un uomo. Pare che i film che superano il test ottengano al botteghino incassi maggiori.
Perché ci ostiniamo a guardare il genere? mi chiedo. Perché c’è un bias. Anzi. Ce ne sono molti.
Se potessi esprimere un desiderio vorrei che non se ne parlasse più. Che non ce ne fosse bisogno, certo. Ma, pur essendocene, che provassimo a tacere la questione. Un romanzo è buono indipendentemente se l’ha scritto un uomo o una donna. Può piacere a un lettore o a una lettrice in ambedue i casi. Alle donne piacciono (generalmente) i romanzi d’amore e agli uomini (generalmente) quelli di fantascienza o i saggi di storia? Può essere vero. Ci sarà un motivo, o forse più d’uno. Succede qui? O dove? Adesso? Il secolo scorso? In che contesto?
Ho volutamente tralasciato di dirvi che i giurati del premio Latisana sono sette, e di questi cinque sono donne e due uomini. Questa proporzione ha inciso sull’esito della terzina? L’anno scorso una giuria con gli stessi “rapporti tra i generi” ha prodotto una terna finale di soli uomini (Melchiorre, Malaguti e Jančar, sloveno, che poi ha vinto).
Quello che vi dico è che ce ne siamo accorti solo a posteriori, che fossero tre scrittrici, e la presidente di giuria, Maria Cristina Benussi, ha riassunto così la scelta finale: “La terna presenta romanzi molto interessanti dal punto di vista del linguaggio, diverso tra loro ma in tutti i splendidamente lavorato, costruiti a vario titolo e con diverse strategie narrative sulla memoria; Battocletti usa una memoria pseudo autobiografica per comprendere ciò che la scienza non può spiegare relativamente a una vita altrimenti condannata alla reiterazione passiva di una condizione di disagio; Canepa mette in azione una memoria storica, capace di ricostruire non solo una condizione sociologica della donna a cavallo della Grande guerra, sfatando il mito di una facile sorellanza, ma di ricostruire anche una Venezia inedita; Kinsky usa la scrittura come memoria collettiva, con tutto il suo carico di osservazioni sul paesaggio e le tradizioni orali, per cercare di ricostruire, sui tempi lunghi della natura, il legame che un evento traumatico come il terremoto aveva spezzato tra un prima e un dopo”.
Sono felice che siano tre donne? Inevitabilmente sì. Perché il soffitto di cristallo esiste davvero. Però per me doveva vincere Frizziero.