SOCIETÀ

Il Programma ambientale dell’ONU dovrebbe avere più poteri

L’anno prossimo il Programma sull’Ambiente delle Nazioni Unite (UNEPUnited Nation Environment Program) compirà 50 anni. Un editoriale pubblicato su Nature ricorda a cosa è servito fino ad oggi, i traguardi che ha raggiunto, ma sostiene anche che i tempi sono maturi per aumentare i suoi poteri e renderlo più incisivo nel far rispettare agli Stati nazionali gli impegni presi in tema ambientale. La questione è quanto mai urgente, visto che a novembre di quest’anno si terrà a Glasgow la 26ma Conferenza delle Parti sul cambiamento climatico, la Cop26, e i singoli Stati dovranno coordinare i piani nazionali d’azione per far fronte alla crisi ambientale e climatica.

L’UNEP è la massima autorità mondiale in tema di ambiente, il suo quartier generale ha sede a Nairobi, in Kenya, ed è diretta da Inger Andersen, al contempo sotto segretaria generale dell’Onu. La sua attività è organizzata in 7 aree: cambiamento climatico, disastri e conflitti, gestione degli ecosistemi, governance ambientale, prodotti chimici e rifiuti, ambiente sotto scrutinio. Per il 95% del proprio budget dipende da donazioni volontarie. A fine febbraio di quest’anno si è tenuta la 5a Assemblea dell’UNEP: il suo scopo era quello di rafforzare le azioni per la tutela della natura e per il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile. All’interno dell’assemblea si è discusso del rapporto UNEP Making peace with nature.

Il rapporto analizza lo stesso genere di letteratura scientifica di cui si occupano altri rapporti internazionali sull’ambiente, sulle acque o sull’utilizzo del suolo. Ma la sua forza, sottolinea l’editoriale di Nature, è il modo in cui tiene insieme ricerche diverse in tema di scienze ambientali: “nel fare questo, l’UNEP sta aiutando ad accelerare un modo di lavorare che dovrebbe essere lo standard. Se ad esempio si dovesse produrre una valutazione a riguardo di come il cambiamento climatico influisca sulla biodiversità, avrebbe senso che questa venisse fatta da un team congiunto dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) e dell’IPBES (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services), piuttosto che da ricercatori in una sola di queste organizzazioni”.

Sia l’IPCC sia l’IPBES sono organismi delle Nazioni Unite. L’UNEP infatti nel 1988 ha co-fondato l’IPCC assieme alla World Meteorological Organization. I rapporti prodotti dagli scienziati dell’IPCC hanno permesso di informare i governi degli impatti allarmanti del cambiamento climatico e di quelli ancora più devastanti che sono attesi nei prossimi decenni.

Nel rapporto IPCC del 2018 sul riscaldamento globale infatti si riteneva che le temperature globali aumenteranno stabilmente di 1,5°C (soglia ritenuta critica per la stabilità del clima del pianeta) rispetto ai livelli della società pre-industriale tra il 2030 e il 2050, con effetti la cui gravità varierà da regione a regione, come riportato sotto in figura. Oggi quelle stime sono ritenute ottimistiche e l’aumento di temperatura potrebbe essere addirittura maggiore. Un grado (almeno) ce lo siamo già giocato, l’altro mezzo (almeno) arriverà nei prossimi due o tre decenni, a meno che non saremo in grado di ridurre drasticamente e rapidamente le emissioni di gas climalteranti responsabili del riscaldamento globale che causa il cambiamento climatico.

L’IPBES invece è nato più di recente, nel 2012, sempre grazie all’Onu e all’UNEP. Il suo rapporto pubblicato nel 2019 fotografa la crisi in cui versa la biodiversità del pianeta e suggerisce politiche di intervento ai governi nazionali.

Oltre ad aver messo in piedi due delle più importanti organizzazioni internazionali per la lotta al cambiamento climatico e per la tutela dell’ambiente, l’UNEP può appuntarsi altri meriti, a partire dalla sua stessa fondazione, nel 1972, che fu di per sé una vittoria nei confronti di alcuni Paesi avanzati che ritenevano dovessero essere gli Stati nazionali a combattere sfide come l’inquinamento e non l’ONU. In quell’occasione fu decisivo l’apporto dell’India di Indira Gandhi nel prevalere sulle resistenze di Paesi come il Regno Unito.

I frutti della scelta si rivelarono vincenti e si raccolsero presto. Nel 1987 si rispose all’appello degli scienziati a riguardo del buco nell’ozono con il Protocollo di Montreal, una storia di successo delle politiche globali per il clima: vennero individuati i prodotti responsabili del deterioramento dell’ozono in atmosfera e fu costruita una legislazione internazionale, recepita dagli Stati, con cui vennero eliminati progressivamente dalla filiera produttiva.

Nel 1992 a Rio de Janeiro, al primo Summit della Terra presieduto dal primo direttore esecutivo dell’UNEP il canadese Maurice Strong, vennero poste le basi su cui si è costruito nei decenni successivi, passando per il Protocollo di Kyoto del 1997 sui limiti alle emissioni, fino agli Accordi di Parigi del 2015.

In tutti questi anni l’UNEP ha svolto un’importante funzione diplomatica sia sull’asse atlantico, lavorando con le industrie responsabili di grandi emissioni di gas climalteranti, sia sull’asse orientale, per rendere ad esempio sostenibili le infrastrutture della Nuova Via della Seta cinese (la Belt and Road Initiative).

I meriti sono indubbi. Ma ora, tornando al rapporto 2021 dell’UNEP appena pubblicato, è il momento di fare qualcosa di più, secondo l’editoriale di Nature. Il modello di una collaborazione congiunta e ad ampio raggio tra scienziati dell’ambiente proposta nel rapporto è vincente, ma nel rapporto stesso mancano raccomandazioni che vadano nella direzione di allargare questo modello ad altre organizzazioni dell’ONU.

Soprattutto però, manca una discussione su come vincolare maggiormente i singoli Stati al rispetto degli impegni che prenderanno in tema di clima, ambiente e sviluppo sostenibile, specialmente in vista della Cop26 di Glasgow che si terrà a novembre di quest’anno. “Questa è un’opportunità persa” scrive Nature.

Di recente l’ONU ha prodotto un rapporto in cui i Paesi hanno riportato i progressi fatti nel disegnare i piani d’azione previsti dagli accordi di Parigi sul clima: in gergo si chiamano NDC (Nationally Determined Contributes). “L’accordo è tra quasi 200 Paesi, ma solo 75 hanno riportato i propri dati” scrive Nature, che rimarca con durezza: “Ci sono pochi incentivi per il successo e nessuna penalità per il fallimento. Senza queste misure, è difficile vedere come un reale cambiamento possa davvero avvenire”.

L’auspicio è che l’UNEP possa diventare per l’ambiente qualcosa di simile all’Organizzazione Mondiale per il Commercio (WTO – World Trade Organization) “che ha il potere di condannare i Paesi che non si attengono agli accordi”. Finora tuttavia un simile stravolgimento delle funzioni dell’UNEP è sempre stato visto dagli Stati Nazionali come un passo troppo radicale.

“L’UNEP ha aiutato a gettare le fondamenta del consenso scientifico sul declino ambientale e deve essere fiero del corpo di leggi che ha contribuito a promulgare a livello globale. Ahimè, queste misure rischiano di essere troppo poche e troppo tardive (too little, too late). Mentre si avvia verso un anno di riflessioni intorno al suo anniversario, gli Stati membri devono considerare cosa è in loro potere fare per dare poteri all’UNEP affinché possa affrontare l’emergenza planetaria”.

Così come la pandemia ci ha messo di fronte alla necessità di rafforzare le competenze di un organo mondiale per la sanità, la crisi ambientale ci sta dicendo che occorre un’organizzazione globale capace di guidare la transizione ecologica e sostenibile che i singoli governi stanno affrontando. Pietro Greco avrebbe tenuto insieme le due cose e avrebbe optato per un governo mondiale per la salute e il clima.

Il rischio è che le organizzazioni umane, con le loro lungaggini burocratiche, non riescano a stare dietro alle trasformazioni del pianeta e delle società che lo abitano. Purtroppo anche l’esito dell’ultima Conferenza delle Parti sul clima, la Cop25 di Madrid tenutasi a dicembre 2019, si è conclusa con esiti del tutto interlocutori, mentre fuori dal palazzo le strade venivano affollate da giovani che a volte sembrano più consapevoli della portata della sfida rispetto a coloro che dovrebbero rappresentarli nelle sedi decisionali.

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