SOCIETÀ
Un’analisi retrospettiva sulla risposta globale alla prima fase della pandemia
La sede dell'Oms a Ginevra
A circa un anno dallo scoppio della pandemia è giunto il momento di guardarsi indietro e fare un bilancio, per quanto provvisorio, di come la comunità internazionale e i singoli Paesi si siano comportati di fronte al nuovo coronavirus.
Nel mese di gennaio sono stati stilati due rapporti, da altrettante commissioni, una interna all’Oms stessa (The Review Committee on the Functioning of the International Health Regulations (2005) during the COVID-19 Response) e una indipendente (Independent Panel for Pandemic Preparedness and Response - IPPPR). I risultati dei lavori verranno approfonditi e presentati alla prossima Assemblea Mondiale della Sanità (la 74ma) prevista a maggio 2021, ma intanto è possibile anticipare alcuni messaggi chiave che emergono dall’analisi retrospettiva. Su tutti, che il mondo non si è fatto trovare pronto di fronte all’epidemia da CoVid-19.
I rapporti si soffermano in particolare sulla prima risposta alla comparsa della minaccia epidemica, non occupandosi invece dell’origine del virus, su cui sta indagando un altro team dell’Oms giunto a Wuhan qualche settimana fa.
Le passate esperienze epidemiche hanno insegnato che un virus con potenziale pandemico va frenato sul nascere. È essenziale quindi agire presto e con decisione. Questo però non è stato fatto con CoVid-19.
“È chiaro che il reale volume delle infezioni nella prima fase dell’epidemia in tutti i Paesi era più alto di quello che veniva riportato” si legge nel rapporto dell’IPPPR. “Se il principio di precauzione fosse stato applicato in relazione alle prime seppur non confermate evidenze di trasmissione asintomatica da uomo a uomo, avvertimenti più puntuali e forti sulla possibilità di trasmissione da uomo a uomo sarebbero potuti venire emanati sia dall’OMS sia dalle autorità nazionali e locali”.
Da uno sguardo alla cronologia della prima fase emerge che si sono perse opportunità di applicare misure di salute pubblica basilari. La Cina, sostengono gli autori del rapporto, avrebbe potuto applicarle già a gennaio 2020. La prima conferma ufficiale da parte delle autorità cinesi della presenza del virus Sars-CoV-2 a Wuhan era arrivata infatti il 31 dicembre 2019, il primo decesso risale al 11 gennaio, mentre Wuhan è stata isolata il 23 gennaio. A fine gennaio 2020 erano già disponibili evidenze della presenza del virus in altri Paesi, che però non hanno adottato misure significative.
Gli autori del rapporto si chiedono se a questa scarsa prontezza possa aver contribuito il fatto che l’OMS abbia dichiarato il PHEIC (Public health emergency of international concern – l’emergenza sanitaria pubblica di interesse internazionale) solo il 30 gennaio e che abbia usato la parola pandemia solo molto più tardi, ufficializzandola l’11 marzo.
Non è facile capire in quali punti la macchina decisionale non abbia funzionato. L’OMS dal 1 gennaio al 14 novembre 2020 ha diffuso circa 900 raccomandazioni ai singoli Paesi membri, senza contare i consigli rivolti al pubblico generalista. Come già detto le analisi dei rapporti sono provvisorie e verranno approfondite e completate nei mesi a seguire: dovranno essere compresi quali meccanismi sia della comunicazione tra istituzioni sia della risposta epidemiologica e sanitaria (capacità di test e tracciamento) non abbiano funzionato al meglio.
Risulta chiaro tuttavia che "le scelte compiute sia a livello nazionale sia sub-nazionale (regionale, ndr) riguardo a quali politiche mettere in atto, da chi e quando, abbiano determinato la severità dell'epidemia in ciascun Paese". Nonostante ciò è difficile stabilire un'unica "formula per il successo" perché le complessità in gioco in ciascuna circostanza sono molte.
Fonte: Independent Panel for Pandemic Preparedness and Response
Tra i punti fermi sembra comunque emergere la necessità di ridiscutere i ruoli e i mandati dell’OMS stessa, inclusa la sua struttura di supporto finanziario, per far sì che le funzioni di governo della salute pubblica mondiale possano essere esercitate con puntualità e decisione.
Il concetto è stato ribadito lo scorso 21 gennaio anche dall’immunologo statunitense Anthony Fauci, in un recuperato confronto con i membri dell’OMS, dopo la pausa che gli USA si erano presi con Trump: “lavoreremo in modo costruttivo con tutti i partner per rafforzare e soprattutto riformare l’OMS”.
Lo stesso ha fatto il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel, proponendo un nuovo trattato internazionale sulle pandemie.
La questione della revisione e dell’eventuale rafforzamento dei ruoli dell’OMS si scontra però con la sovranità che i singoli Paesi non sono disposti a cedere, nemmeno in tema di prevenzione sanitaria. Il rischio è dunque che al di fuori di un’azione diplomatica di composti suggerimenti l’Oms non arrivi a disporre degli strumenti necessari a vincolare i singoli Paesi alle proprie responsabilità in tema di risposta alle emergenze sanitarie.
Il rapporto interno all’OMS si chiede allora se non sia il caso di rivedere e migliorare quegli strumenti, già a disposizione, dell’International Health Regulations del 2005 di cui anche la PHEIC fa parte. Tra le proposte migliorative c’è quella di associare un colore al tipo di emergenza internazionale proclamata, introducendo così livelli intermedi di allerta e di rischio, per suscitare un maggior coinvolgimento dei singoli Paesi, come del resto era già stato proposto in seguito alla valutazione compiuta sulla gestione dell’epidemia di Ebola nel 2016.
“Un’altra considerazione però riguarda il fatto che i singoli Paesi potrebbero non essere disposti a riportare tempestivamente segnalazioni se dovessero percepire il rischio di subire restrizioni, principalmente legate ai viaggi e al commercio” si legge nel rapporto. La questione non è di facile risoluzione.
Oltre a ragionare sulla gestione delle prime fasi della pandemia, i due rapporti si soffermano su altre questioni importanti. Ne riportiamo tre.
La prima è che sebbene molti Paesi abbiano fatto affidamento a un Piano pandemico basato sul modello del virus dell’influenza, “altri non l’hanno fatto” si legge nel rapporto indipendente.
La seconda riguarda la possibilità di introdurre in futuro “tecnologia digitale che permetta viaggi internazionali sicuri, che includa documentazione su entrata e uscita, la storia di viaggio, strumenti di test e tracciamento e possibilmente il requisito della vaccinazione. Cautela tuttavia è dovuta per assicurare che i diritti individuali sulla privacy vengano rispettati”, si legge nel rapporto interno all’OMS.
La terza osservazione riguarda il ruolo di altri organi internazionali. “La Commissione è rimasta colpita dalla limitata efficacia di importanti raggruppamenti internazionali nella loro azione contro la pandemia. Ad esempio sia il G7/8 sia il G20 hanno dato priorità nei loro incontri passati alla sicurezza sanitaria e alla preparazione pandemica, compiendo esercitazioni, ma la loro azione durante la pandemia da COVID-19 è stata principalmente reattiva” riporta l’IPPPR.
A livello locale invece diverse istituzioni si sono comportate in maniera diversa. I Paesi dell’area asiatico-pacifica hanno per lo più applicato misure rigorose e simili tra loro, mentre addirittura ravvisano una leadership esemplare fornita dall’Africa Center for Disease Control and Prevention, nel gestire una sfida dalla portata epocale.
Eppure, nonostante gli appelli contro le disuguaglianze, i Paesi più poveri sembrano destinati a essere gli ultimi a beneficiare della corsa al vaccino.