SCIENZA E RICERCA

Il punto sulla corsa al vaccino contro Sars-CoV-2

All’11 maggio, secondo un documento aggiornato dell’Organizzazione mondiale della sanità, sono 110 i vaccini contro Sars-CoV-2 al cui sviluppo stanno lavorando centri di ricerca universitari e compagnie private. Secondo Rino Rappuoli, direttore scientifico dell’area di ricerca e sviluppo della multinazionale farmaceutica GlaxoSmithKline, sarebbero anche di più, fino a 171. La stra grande maggioranza, sono ancora nella fase di studio pre-clinica: significa che sono ancora in corso analisi in vitro e su modelli animali per comprendere il meccanismo d’azione e il profilo tossicologico del futuro vaccino. Otto, secondo l’Oms, sono già stati ammessi al secondo stadio di sviluppo, ovvero alla sperimentazione clinica sull’uomo. Un numero che è destinato a crescere nelle prossime settimane.

La fase di sperimentazione clinica è a sua volta divisa in 4 fasi, come spiega l’Agenzia italiana del farmaco, in cui viene progressivamente aumentata la popolazione trattata con il vaccino: viene studiata la capacità del vaccino di stimolare la risposta immunitaria desiderata, vengono registrati i tipi di reazioni avverse e la loro frequenza, viene individuata la corretta posologia. Solo nell’ultima delle 4 fasi è prevista la commercializzazione e un ulteriore analisi dell'efficacia.

Le fasi di sviluppo del vaccino devono seguire rigorosamente i metodi di analisi scientifica che prevedono, specialmente nella fase 3 in cui sono coinvolti numerosi pazienti, studi controllati randomizzati. Questi ultimi servono ad eliminare i bias di allocazione, a bilanciare i fattori prognostici (sia quelli noti sia quelli sconosciuti) dei pazienti, e ad assicurarsi che i benefici riscontrati siano ascrivibili all’azione del vaccino e non ad altre variabili che non sono state adeguatamente considerate. Dalla correttezza dell’applicazione del metodo dipende la sicurezza e l’efficacia del vaccino. Bruciare le tappe pertanto non è una strada percorribile.

I più ottimisti, tra cui il consigliere scientifico dell’amministrazione statunitense Anthony Fauci, dicono che già ad autunno potrebbero essere disponibili le prime iniezioni per proteggersi da Sars-CoV-2. I più realisti, tra cui Rino Rappuoli, ritengono che non si potrà parlare di vaccinazioni contro il coronavirus prima di 12 o 18 mesi.

È vero che la comunità scientifica si sta coordinando come mai prima era accaduto nella corsa alle soluzioni per l’emergenza pandemica ed è anche vero che le tecnologie di cui oggi disponiamo permettono di individuare e isolare molto velocemente il meccanismo d’azione dell’agente patogeno. Ciononostante un anno e mezzo sarebbe un record assoluto per lo sviluppo di un vaccino contro un virus che fino a pochi mesi fa era sconosciuto. Inoltre ad oggi non abbiamo ancora compreso a pieno come il nostro sistema immunitario risponda all’attacco del virus. Il primo vaccino contro Ebola fabbricato dalla casa farmaceutica statunitense Merck è stato approvato a novembre 2019, più di 5 anni dopo l’esplosione dell’epidemia in centro Africa. E già in quel caso si era parlato di una notevole accelerazione.

La logica di funzionamento di un vaccino consiste nel mettere l’organismo a contatto con dosi basse o poco pericolose di un agente patogeno, insufficienti per provocare la malattia ma sufficienti a suscitare la risposta immunitaria, come la produzione di anticorpi. L'organismo si troverà così preparato ad affrontare nuovi attacchi.

I vaccini contro Sars-CoV-2 che i ricercatori stanno cercando di sviluppare sono basati su diverse biotecnologie, ciascuna delle quali reca con sé vantaggi e svantaggi: alcune sono più rodate ma richiedono tempi lunghi, altre sono più innovative ma difficili da produrre su larga scala. Ne esistono di 4 tipi fondamentali secondo la ricostruzione offerta da Nature.

Virus indeboliti o inattivati

Molti vaccini già esistenti, come quello contro il morbillo o la poliomielite, si basano su questo principio: nell’organismo viene iniettata una forma indebolita o inattivata del virus. Di quelli già passati alla fase clinica registrati dall’Oms (tra cui quello sviluppato dalla Sinovac di Pechino), 3 si basano su questa tecnologia, che però richiede molto tempo per essere applicata. Per indebolire un virus infatti occorre farlo riprodurre in laboratorio e selezionarne le varianti meno aggressive. Per renderlo inattivo invece occorre sottoporre una notevole quantità di particelle virali a stress indotto da calore o da sostanze chimiche come la formaldeide.

Vettori virali

Il vaccino contro Ebola approvato l’anno scorso è basato su questa biotecnologia e ad oggi diversi gruppi stanno provando ad applicarla ai vaccini contro Sars-CoV-2. L’Istituto di biotecnologia di Pechino, assieme all’azienda CanSino, e l’università di Oxford, tra gli altri, hanno scelto di imboccare questa strada e sono già passati alla sperimentazione clinica. In estate dovrebbe arrivarci anche l’italiana ReiThera Srl. L’idea è quella di montare un gene di Sars-CoV-2 su un altro tipo di virus, il vettore virale, e iniettarlo nell’organismo. Il gene candidato è quello che codifica per la proteina virale Spike che funge da chiave d’accesso ai recettori Ace2 del nostro organismo. Di vettori virali invece ne esistono di due tipi: capaci di auto-replicarsi (come nel caso del vaccino contro Ebola) e non capaci di auto-replicarsi. La Johnson & Johnson statunitense ad esempio sta lavorando su quelli del secondo tipo, sfruttando un adenovirus. Di solito il sistema dei vettori virali permette di ottenere una solida risposta immunitaria, ma talvolta il vettore può smorzare l’efficacia del vaccino.

Acidi nucleici: Rna o Dna

È la frontiera dei vaccini, la metodologia più innovativa ma al contempo meno matura: ancora nessun vaccino basato su questa biotecnologia è stato approvato. Ciononostante diversi centri di ricerca e case farmaceutiche hanno deciso di adottare questa strategia. Invece di inserire nell’organismo tutto il virus viene inserito solo qualche gene virale, quelli più rappresentativi, nel caso di Sars-CoV-2 quello che codifica per la proteina Spike, sufficiente a scatenare la risposta immunitaria. Il gene, fatto di Dna o Rna (Sars-CoV-2 è un virus a Rna), viene isolato in laboratorio e prodotto in quantità sufficienti per l’inoculazione. La procedura ormai è resa agevole dalle avanzate tecniche a disposizione e ciò consente di ridurre notevolmente i tempi di sviluppo. Ma ancora non sono mai stati prodotti vaccini a Rna su ampia scala e la battaglia contro CoVid-19 probabilmente avrà bisogno di miliardi di dosi.

Proteine e adiuvanti

Anche in questo caso non viene iniettato tutto il virus nell’organismo ma solo una sua piccola parte, una proteina, sempre Spike nel caso di Sars-CoV-2. Assieme a questa vengono associate altre sostanze adiuvanti che aiutino il sistema immunitario a riconoscere l’intruso. Possono essere altre proteine o involucri simili a quelli del coronavirus ma non infettanti. Lo svantaggio di questa strategia è che occorrono fino a 7 mesi per passare alla sperimentazione clinica, perché prima bisogna ottenere e purificare le proteine in laboratorio. Ciononostante questa è la strada scelta dall’azienda di Rino Rappuoli, perché una volta ottenuto il vaccino sarà più facile implementare la sua produzione su larghissima scala: esistono già impianti industriali attrezzati per raggiungere i grandi numeri di cui ci sarà bisogno, a differenza della tecnologia a Rna.

Ancora non possiamo sapere chi vincerà la corsa allo sviluppo del vaccino. Non è da escludere che ne verranno approvate tipologie diverse a cui corrisponderanno diverse capacità di distribuzione. Solo l’accesso di tutta la popolazione mondiale al vaccino sancirà la definitiva vittoria contro il virus, ma affinché ciò avvenga in tempi e modi che evitino disuguaglianze è necessario un piano d’azione globale a cui sarebbe opportuno pensare sin da ora.

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