I luoghi comuni sugli italiani e il loro amore per il cibo si sprecano. Si sprecano anche quelli sull’amore per lo stesso cibo da parte degli stranieri, che si tratti del mercato europeo, di quello turistico interno o di quello al di fuori dell’Ue.
E proprio di mercato parliamo, del valore economico che sottende a questo sviscerato amore per il cibo made in Italy. Un amore a rischio, almeno a livello economico se gli Stati Uniti porteranno avanti la guerra dei dazi contro l’Ue.
Sono i dati a parlare di questo primato italiano: il fatturato totale dell’industria alimentare italiana ha raggiunto – secondo gli studi di settore pubblicati da Federalimentare su dati Istat e riferiti al 2018 – i 140 miliardi di euro. Una cifra ingente e in crescita rispetto al 2017 (+2%), quando il dato si era fermato a 137 miliardi di euro. Un settore decisamente trainante, pari a circa l’8% del Prodotto interno lordo italiano.
E se il mercato interno non risente particolarmente della crisi economica, è quello estero a rappresentare un punto di forza nelle esportazioni totali italiane. Il settore agroalimentare pesa per il 12,2% delle esportazioni totali e si posiziona al quarto posto, appena dietro a quello metalmeccanico, chimico e della moda. Sempre secondo Federalimentare il valore è di 32,9 miliardi (dati 2018), in crescita del 3% rispetto al 2017. Spacchettando il dato totale, è il settore vitivinicolo a guidare con il 15% del totale, seguito da quello dolciario, da quello delle conserve vegetali, il lattiero-caseario e le carni lavorate e conservate.
Interessante è anche la geografia delle esportazioni: i principali paesi europei di destinazione sono la Germania (17%), la Francia (11%) e il Regno Unito (8%). Gli Stati Uniti importano il 10% dei prodotti italiani, mentre sono molto interessanti i valori di altri paesi extra-Ue che apprezzano sempre di più i nostri prodotti: l’Egitto ha aumentato le importazioni del 48,8%, l’Ucraina del 43,6%, la Lettonia del 31,3%, la Nigeria del 22,6%, seguiti poi dalle Filippine (+24,5%), la Bulgaria (+31,1%), Nuova Zelanda (+22%) e Vietnam (+19%).
Il mercato estero è, insomma, florido e in salute o – perlomeno – lo sarà fino a che non si definiranno nel concreto i rischi prodotti dallo spauracchio dei nuovi dazi doganali che il governo americano vuole imporre all’intera Unione europea. Per ora si possono fare solo supposizioni, basate su indiscrezioni: i dazi americani dovrebbero colpire l’Europa per un valore pari a circa 8 miliardi di euro, circa la metà investirà quote di mercato italiane. Non tutte, ovviamente, sul mercato alimentare, ma che certo non sarà salvato, tutt’altro. La quota di export verso gli USA si aggira sui 5 miliardi di euro (dati Ice su elaborazione Istat 2018) e i prodotti colpiti dai dazi andrebbero dai vini, passando per i prodotti caseari (formaggi DOP come il grana, il parmigiano reggiano e la mozzarella) e arriverebbero fino all’olio d’oliva, la pasta, il caffè e gli insaccati. Le preoccupazioni ci sono tutte e numerosi voci, contenenti accorati appelli al governo italiano, si sono sollevate in questi giorni, soprattutto visto l’arrivo, oggi, di Mike Pompeo, segretario di Stato americano. “Il sistema grana padano – spiega, in una lettera inviata ai ministeri delle Politiche agricole e dello Sviluppo economico, Nicola Cesare Baldrighi, presidente del Consorzio grana padano – se venissero applicati i dazi annunciati dall’Organizzazione mondiale del commercio, subirebbe un danno quantificabile in circa 270 milioni di euro”. Attualmente il grana padano viene venduto, negli Stati Uniti, a circa 30-45 dollari al chilogrammo, con i dazi imposti si potrebbe arrivare, nelle peggiori delle ipotesi, anche a 60 dollari al chilogrammo. Il danno – conclude Baldrighi – “si spalmerebbe a cascata anche sul settore di produzione del latte, il cui prezzo è influenzato dall’andamento di quello del grana padano”.
Gli esempi sarebbero numerosi: il prosecco, uno dei vini veneti più amati all’estero e negli USA, potrebbe arrivare a costare 20-30 dollari alla bottiglia e colpire un mercato in cui le esportazioni verso gli Stati Uniti sono aumentate del 10%.
Infine c’è un’allerta anche sul pericolo delle cosiddette falsificazioni alimentari: un aumento dei dazi comporterebbe a una diminuzione delle esportazioni e, allo stesso tempo, i mercati esteri interessati potrebbero rimanere affascinati dalle alternative “low cost”. Certamente l’Italia non vorrebbe far trovare nelle tavole degli americani prodotti come il famigerato parmesan, che nulla ha di che spartire con il formaggio originale.