SOCIETÀ

Alle radici del terrore

No, il terrorismo non è nato l’11 settembre 2001: venuto al mondo in ambito anarchico, irredentista e repubblicano tra l’Otto e il Novecento, cresciuto all’ombra dei totalitarismi, soprattutto dopo il secondo conflitto mondiale ha giocato un ruolo importante anche e soprattutto sul piano internazionale. In particolare in Europa occidentale, quando alla fine degli anni Sessanta inizia a esaurirsi la tumultuosa crescita postbellica e in concomitanza inizia la fase della distensione, che spinge verso il consolidamento del sistema uscito dalla guerra fredda. Nello stesso periodo però, tra il Mediterraneo orientale e il Giordano, le formazioni palestinesi mirano a internazionalizzare il conflitto arabo-israeliano, divenendo in breve tempo archetipo e paradigma di tutte quelle che dopo di loro cercheranno di utilizzare il terrorismo come strumento di pressione sui governi.

Intervista di Daniele Mont D'Arpizio, montaggio di Barbara Paknazar

È questo il punto di partenza dell’analisi che Valentine Lomellini svolge acutamente nel suo ultimo volume La diplomazia del terrore. 1967-1989 (Laterza 2023). Dopo aver affrontato nel libro precedente, con particolari e documenti inediti, il tema dell’atteggiamento dei governi italiani, stavolta la storica delle relazioni internazionali allarga lo sguardo all’Europa, che nel ventennio considerato è crocevia e campo di battaglia nella guerra coperta tra fazioni e servizi segreti da entrambe le parti della cortina di ferro. Un tema, quello del terrorismo internazionale prima dell’attacco al World Trade Center, centrale quanto rimosso nel discorso pubblico, a meno di non considerare fiction come il film Munich di Steven Spielberg, tratto a sua volta da un libro del giornalista e scrittore George Jonas.


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Fino ad anni recenti il terrorismo è stato studiato soprattutto in chiave interna, mentre molto meno indagato è quello internazionale, in particolare quello arabo-palestinese – spiega nell’intervista a Il Bo Live la stessa Lomellini, che insegna Terrorism and security in international history presso l’università di Padova –. Quest’ultimo nasce come una delle conseguenze della ‘guerra dei sei giorni’ del 1967, come tentativo di dare sfogo all’ambizione della resistenza palestinese di giocare un ruolo all'interno del conflitto mediorientale, nel momento in cui invece i negoziati si svolgono soprattutto a livello di Stati. Questo tentativo di avere voce nel conflitto mediorientale induce una parte dell'Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), un organismo ombrello che contiene al suo interno diverse formazioni, a utilizzare il terrorismo come mezzo di coercizione a livello internazionale”.

L'Unione Sovietica in parte favorì il terrorismo, ma non ne fu il grande burattinaio

Il contesto è quello di un mondo bipolare, diviso tra blocco socialista e quello occidentale, nel quale però le formazioni terroristiche riescono poco a poco a ricavare uno spazio per giocare la loro partita. “Il terrorismo internazionale ci offre un angolo visuale diverso sulla guerra fredda – continua la storica –. Quello arabo-palestinese ad esempio si insinua nel conflitto Est-Ovest ma risponde piuttosto alla logica della contrapposizione tra Nord del Sud del mondo, anticipando quelli che per molti versi saranno i tratti distintivi del nuovo ordine internazionale dopo il crollo del muro di Berlino”. Qual è allora il ruolo dei servizi segreti dell’Est, in particolare quelli tedesco-orientali, ma anche cecoslovacchi e ovviamente sovietici? “Probabilmente un coinvolgimento ci fu, ma credo vada in parte ridimensionato. È vero che alcuni obiettivi perseguiti dal terrorismo arabo-palestinese andavano nella medesima direzione rispetto a quelli dell'Unione Sovietica, che ovviamente voleva un Occidente in affanno, ma non vi fu mai una completa sovrapposizione. Soprattutto mancò una regia unitaria: oggi sappiamo che l'Unione Sovietica in parte favorì, ma non fu il grande burattinaio del terrorismo internazionale”.

A risaltare, nei documenti trovati e pubblicati da Lomellini, è anzi il ruolo spesso ambiguo dei governi dell’Europa occidentale, che a lungo ignorarono la minaccia per poi cercare un modus vivendi con i miliziani e i loro sponsor. Troppo grandi erano gli interessi sul piatto, a cominciare dall’esigenza di veder garantite le forniture di petrolio, mentre dall’altra soprattutto Libia, Iraq e Siria usavano l’appoggio alle fazioni palestinesi per accrescere il loro ruolo. Emblematico è il caso dell’attentato contro la squadra olimpica israeliana alle Olimpiadi di Monaco del 1972: “Tutti i servizi segreti europei avevano indizi che qualcosa sarebbe avvenuto, ma non vennero prese misure adeguate perché non si comprese che il pericolo maggiore veniva proprio da Settembre Nero”. Anche in questo caso, come in quello del dirottamento dell’Achille Lauro, i terroristi verranno liberati dagli stessi Paesi nei quali sono avvenuti gli attacchi: segno evidente della strategia di appeasement (il termine è usato dalla stessa Lomellini) messa in atto dai governi europei nei confronti dei terroristi. Le cose iniziano a cambiare solo con l’esplosione del volo Pan Am 103 sopra la cittadina di Lockerbie il 21 dicembre 1988, costato la vita a 270 persone, e soprattutto con la fine della guerra fredda.

Da allora il testimone passa sempre più al nuovo terrorismo di matrice islamista, anche attraverso vere e proprie figure di raccordo come Abdullah Azzam, che dopo aver militato per anni nelle formazioni palestinesi diventa un teorico del Jihad islamico e influenza profondamente personaggi come Osama Bin Laden e Ayman al-Ẓawāhirī, e per certi versi Ilich Ramírez Sánchez, il celebre Sciacallo, che nel suo percorso politico e di lotta passa dal marxismo-leninismo a una sorta di Islam rivoluzionario. Persino parte delle fazioni palestinesi con il tempo si radicalizza dal punto di vista religioso, come vediamo con Hamas. “Ci sono delle differenze significative tra le due tipologie di terrorismo: quello arabo-palestinese è in origine laico e nazionalista e ha come obiettivo la costituzione di un proprio Stato, mentre quello di matrice islamista ha ovviamente una connotazione religiosa ed è internazionale per vocazione. I jihadisti però apprendono la lezione dai loro predecessori, soprattutto per quanto riguarda le mancate reazioni dei governi europei”. In altre parole il terrorismo in alcune condizioni ha funzionato, sia per accreditarsi che per influenzare le azioni dei governi democratici. Una lezione da tenere a mente mentre gli attentati, dopo quelli del 2016 a Nizza e del 2017 a Barcellona, sembrano essersi fermati in Europa, ma allo stesso tempo si stanno diffondendo sempre più in territori come l’Africa subsahariana, secondo una vera e propria strategia di delocalizzazione. Ragione in più per abbassare la guardia, e soprattutto per continuare a studiare un fenomeno complesso e importante per comprendere il presente in cui viviamo.

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