SOCIETÀ

Razzismo: "Sistemico se mediatico e istituzionalizzato"

Il razzismo ha assunto forme e manifestazioni diverse nel corso del tempo: a partire dal Novecento, prima e dopo la seconda guerra mondiale, fino ai giorni d’oggi caratterizzati da una forma meno evidente di razzismo rispetto a 80 anni fa, ma che presenta la stessa essenza: una discriminazione verso “l’altro” che trova giustificazione della propria ostilità nell’utilizzo, come metro di paragone, delle differenze culturali di un popolo come i suoi costumi, la sua lingua e la sua religione. Un razzismo nuovo, chiamato appunto “neorazzismo”, che si sta espandendo in tutta Europa, colpendo anche il nostro paese. 

Abbiamo rivolto qualche domanda in merito a Annamaria Rivera, professoressa di Etnologia e Antropologia sociale all’università di Bari e antropologa, saggista, scrittrice, attivista, collaboratrice di testate quali Il Manifesto e MicroMega.

1) Nel 20° secolo la scienza ha seppellito l’idea di razza umana che aveva creato secoli prima. Secondo lei, oggi, ci siamo liberati da questa pesante eredità?

Sciaguratamente no. Eppure, per citare solo l'ambito delle scienze sociali, è almeno a partire dagli anni '30 del Novecento che la "razza" inizia a essere confutata da illustri studiosi, soprattutto da antropologi culturali statunitensi quali Franz Boas e Ashley Montagu, e più tardi dal cubano Fernando Ortiz (El engaño de las razas, 1946): quest'ultimo, purtroppo, mai tradotto, quasi sconosciuto, quindi raramente citato. 

Ciò che è più paradossale è l'attuale ri-legittimazione della "razza" da parte di studiosi/e, anche italiani/e, che si rifanno alla corrente della “Critica postcoloniale”. A mio avviso, al di là dei loro intenti scientifici, finiscono di fatto per ri-legittimare o rafforzare l'idea di "razza" già ben diffusa al livello del senso comune, anche se  talvolta mascherata dietro equivalenti eufemistici quale il dilagante “etnia”: su un illustre quotidiano italiano mi è capitato di leggere espressioni quali "individui di etnia latinoamericana" e "individui di etnia cinese".     

2) L’art. 3, comma 1, della Costituzione italiana afferma che: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Secondo lei, l’uso della parola “razza” nella Costituzione consente indirettamente l’uso di tale termine nel dibattito pubblico?

Temo che oggi non siano la maggioranza i cittadini e le cittadine che conoscono la Costituzione italiana. Nondimeno, io ritengo sacrosanta la battaglia per abolire il termine "razza", condotta da non pochi anni da un gruppo di antropologi culturali e antropologi-biologi. 

Infatti,per quanto si tenti di  sociologizzarla, “razza” manterrà sempre il significato biologico-deterministico che le è stato attribuito nel XIX secolo. Conservare nella Carta questa"metafora naturalistica" (per citare Colette Guillaumin), del tutto obsoleta nonché pericolosa potrebbe contribuire a legittimarne l'uso e il senso nel dibattito pubblico. Come ho scritto altrove, la presenza nella Costituzione di un tale termine lessicale appare oggi così infondata e abusiva come a suo tempo sembrò la nozione di “sangue reale” presente nello Statuto albertino.     

3) Le forme di razzismo presenti oggi nella popolazione italiana, come testimoniano i numerosi fatti di cronaca, secondo lei sono alimentate dalle istituzioni politiche?

Ho affermato più volte che il razzismo diventa sistemico quando è anche istituzionale e mediatico. Quando l’intolleranza verso determinati gruppi o minoranze, già diffusa nella società, è sollecitata e incoraggiata dalle istituzioni e dagli apparati dello Stato, nonché dalla propaganda e dal sistema dell’informazione, è allora che s’innesca il classico circolo vizioso del razzismo. 

A me sembra che oggi, più che mai, siamo in questa fase. Le continue esternazioni da parte di esponenti del governo in carica, in particolare del ministro dell'Interno, all'insegna dell'intolleranza, del disprezzo, della discriminazione e de-umanizzazione di migranti, rifugiati/e, rom e sinti non fanno che alimentare quella che Hans Magnus Enzensbergerha definito socializzazione del rancore. Tra le classi popolari, in particolare, il risentimento per le condizioni economico-sociali che si vivono sempre più viene indirizzato verso capri espiatori, i più vulnerabili: come ho detto, migranti, rifugiati/e, rom e sinti, insomma chiunque possa essere alterizzato/a ede-umanizzato/a.

Non è certo la prima volta che ciò accade in Italia, ma oggi questo processo appare privo di freni, sempre più incalzante e volto al peggio.     

4) Si può parlare di “allarme razzismo” in Italia?

Nonostante vi sia, anche fra intellettuali di sinistra, chi tende a denegare la specificità della fase attuale quanto al dispiegarsi del razzismo, io trovo, sì, che essa sia allarmante. Rappresenta, quanto meno, un salto di qualità nell'escalation del razzismo il fatto che, dal giorno in cui si è insediato il nuovo governo, siano ormai quotidiane le aggressioni di stampo razzista, perlopiù armate, perfino letali, anche ai danni di una bambina rom. 

Per non dire che il governo attuale, mettendo a frutto ed esasperando l'operato di quello precedente, non fa che praticare una sorta di tanatopolitica nei confronti di coloro che tentano o aspirano a raggiungere le nostre coste, spinti/e o costretti/e da cause di forza maggiore, spesso assai drammatiche. Tant'è che oggi il Canale di Sicilia ha "guadagnato" il sinistro primato di confine più letale al mondo.

Rispetto a tutto ciò finora non v'è stata, da parte della società civile democratica e antirazzista, alcuna risposta adeguata alla gravità di una tale escalation. C'è da augurarsi che ciò accada quanto prima. V'è il rischio, altrimenti, che l'attuale fase politico-sociale finisca per somigliare, almeno per alcuni versi, agli ultimi anni della Repubblica di Weimar.   

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