Dal 2016, da quando Donald Trump è entrato alla Casa Bianca, le richieste di ricercatori e studenti – tecnicamente di chi chiede di entrare negli Stati Uniti con il visto speciale H-1B – sono diminuite del 19%.
Un dato che per gli USA non parla solo di un’opportunità perduta, ma anticipa un vero e proprio disastro.
Questo è almeno quanto sostiene sulla rivista scientifica Nature uno che se ne intende: William Kerr, condirettore del progetto Managing the Future of Work, docente presso la Harvard Business School di Boston e autore di un libro uscito di recente, The Gift of Global Talent, sulla circolazione mondiale dei “cervelli”.
Nel suo editoriale su Nature, Kerr fornisce altri dati importanti. La domanda di giovani laureati stranieri presso le scuole di economia americane sono diminuite dell’11%in questi ultimi due anni (contro una diminuzione del 2% delle domande di giovani laureati statunitensi). Ma è il numero complessivo di studenti che chiedono di andare negli Stati Uniti per continuare ad apprendere a essere in decisa caduta, mentre aumentano le domande rivolte ad altri paesi, come l’Australia e il Canada. I flussi dei “cervelli” si stanno spostando, anche all’interno del medesimo mondo anglo-sassone.
Il motivo di tutto questo? William Kerr non ha dubbi: la politica contro l’immigrazione dell’amministrazione Trump. La medesima, dice il docente americano, che viene propugnata da Recep Tayyip Erdoğan in Turchia; da Viktor Orbán in Ungheria; da Jair Bolsonaro, neo presidente eletto del Brasile; da Marine Le Pen, leader della destra nazionalista in Francia.
Kerr ricorda il contributo che i ricercatori e gli studenti stranieri hanno dato e danno alla ricchezza – culturale, ma anche economica – degli Stati Uniti: Sergey Brin, co-fondatore di Google, era nato in Russia; Dara Khosrowshahi, direttore esecutivo di Uber, è nato in Iran; Rafael Reif, presidente del Massachusetts Institute of Technology di Boston, è nato in Venezuela.
“ Un premio Nobel su tre attribuito a uno scienziato USA è un immigrato
Un premio Nobel su tre attribuito a uno scienziato USA, ricorda ancora Kerr, è un immigrato. Il 25% circa dei 110.000 brevetti ottenuti ogni anno da americani è opera di immigrati. Le università degli Stati Uniti sono frequentate da 1.000.000 di studenti immigrati: il 5% del totale degli iscritti: solo loro costituiscono uno stimolo all’economia americana quantificato da Kerr in 39 miliardi di dollari.
Ma, al di là di questi dati, quello che teme giustamente Kerr è il rischio che una politica tesa ad attrarre “cervelli” stranieri antica, ormai, di quasi novant’anni, possa essere ribaltata.
Aveva avuto, questa politica, una clamorosa accelerazione quando, negli anni ’30 del secolo scorso, gli Stati Uniti accolsero a Princeton, presso l’Institute for Advanced Study (IAS), due figure emblematiche della scienza europea: Albert Einstein e Kurt Gödel. L’uno è considerato il più grande fisico di tutti i tempi; l’altro il più grande logico, insieme ad Aristotele, di ogni tempo. Entrambi ebrei. Entrambi migrantia causa delle politiche di persecuzione razziale in atto in Europa e, segnatamente in Germania.
Non furono i soli, a migrare in America già prima della Seconda guerra mondiale. Nel dicembre 1938, ottant’anni fa, sbarcò a New York l’italiano Enrico Fermi. E furono quasi tutti fisici europei quelli che diedero vita a quel Progetto Manhattan con cui gli Stati Uniti realizzarono la bomba atomica. Jean Medawar e David Pyke hanno raccontato di queste migrazioni anteguerra in un libro intitolato non a caso Hitler's Gift: The True Story of the Scientists Expelled By the Nazi Regime. Il regalo di Hitler: la vera storia degli scienziati espulsi dal regime nazista.
Ma l’immigrazione di “cervelli” dall’estero è diventata uno dei fondamenti della politica della ricerca – e, quindi, della politica economica – degli Stati Uniti mentre la Seconda guerra mondiale stava per finire, quando a inizio dell’estate 1945 Vannevar Bush, il consigliere del presidente appena scomparso, Franklin Delano Roosevelt, consegno al nuovo presidente, Harry Truman, il rapporto Science, the Endless Frontier.
In breve, il documento che indirizzerà la politica scientifica (ed economica, insistiamo) degli Stati Uniti, si fondava su alcuni presupposti. Per guadagnarsi la leadership mondiale economica, appunto, nel dopoguerra, gli Stati Uniti devono puntare sulla produzione di nuova conoscenza. La scienza – quella di base – è il motore primo dell’innovazione. Quindi il governo federale deve rompere un antico tabù e investire fondi pubblici in gran quantità nella ricerca. I fondi serviranno a soddisfare la domanda di una comunità scientifica che dovrà crescere. Attualmente l’universo in cui pescare i “cervelli” di cui abbiamo bisogno e, dunque, dobbiamo allargarlo. In due modi: favorendo l’accesso all’università anche dei ragazzi meritevoli delle fasce sociali meno ricche;reclutando “cervelli” stranieri.
Truman e tutti i presidenti che gli sono succeduti hanno seguito le indicazioni di Vannevar Bush. In termini monetari, si potrebbe quantificare il contributo dei migranti ad “alta qualificazione” non in termini di decine, ma forse in termini di decine di migliaia di miliardi di dollari. Sia come sia, un fatto è certo: l’immigrazione di cervelli ha fatto la fortuna degli Stati Uniti, che dopo la Seconda guerra mondiale sono diventati leader al mondo sia nella ricerca scientifica sia nell’economia fondata sulla conoscenza. Sarebbe più di un peccato, sostiene William Kerr, sarebbe un autentico disastro rinunciare al “regalo dei talenti”che il mondo fa agli Stati Uniti a causa di grette politiche anti migranti.
L’ammonimento, a ben vedere, non riguarda solo gli Stati Uniti.