MONDO SALUTE

In Salute. Epatite C: obiettivo eliminazione

Nell’ambito del ciclo In Salute, sulle pagine di questo giornale, si è già discusso di epatite, patologia definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) come «un’infiammazione del fegato, causata da una varietà di virus o da altri agenti non infettivi, che può creare diversi problemi di salute e può, in alcuni casi, risultare mortale».

Sono cinque le forme di epatite virale ad oggi note (A, B, C, D, E), e tra queste la B e la C sono forse le più temute: insieme, queste due patologie virali rappresentano la causa più diffusa di cirrosi epatica, di cancro al fegato, e sono le prime cause di morte per epatiti di origine infettiva; come riporta ancora l’OMS, più di 354 milioni di persone nel mondo convivono, ad oggi, con una diagnosi di epatite B o C, e la percentuale di contagi ‘sommersi’ è ancora ampia.


LEGGI ANCHE:


 

A causare l’epatite C è un agente virale, l’HCV (Hepatitis C Virus), un virus a RNA appartenente alla famiglia dei Flaviviridae, che rimane attivo all’interno dell’organismo contagiato per molto tempo (le infezioni da epatite C sono infatti croniche), anche se può non causare sintomi addirittura per decenni. È per questo motivo che la diagnosi e le cure arrivano spesso troppo tardi, quando la salute del paziente è ormai largamente compromessa.

In occasione della Giornata Mondiale delle Epatiti, patrocinata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, abbiamo approfondito questa malattia con due esperte: Maria Elena Tosti, responsabile del SEIEVA (Sistema Epidemiologico Integrato dell’Epatite Virale Acuta), gestito dall’Istituto Superiore di Sanità, e Loreta Kondili, membro del SEIEVA.

L'intervista completa a Loreta Kondili. Servizio di Sofia Belardinelli, montaggio di Barbara Paknazar

Un’infezione a lungo silente

Come spiega Kondili, medico e ricercatrice, una delle principali criticità di questa patologia consiste nell’identificazione dell’infezione: infatti, nella fase di infezione acuta – cioè il periodo immediatamente successivo all’infezione – solo il 30% della popolazione contagiata risulta sintomatica. «Spesso, invece – approfondisce Kondili – il virus dell’epatite C non causa sintomi per un lungo periodo di tempo; in tal modo l’infezione progredisce, causando all’inizio danni minimi, che tuttavia si aggravano progressivamente fino a trasformarsi, a distanza di 20-30 anni dall’infezione, in una patologia avanzata del fegato. Tutto questo può avvenire senza che il soggetto si renda conto in tempo dell’aggravarsi delle proprie condizioni di salute».

Rispetto ad altre forme di epatite, dunque, questo virus non provoca un rischio immediato, ma, se non trattato, può causare gravi lesioni al fegato e intaccare la funzionalità di altri organi. «Nei decenni successivi all’infezione, buona parte delle persone contagiate sviluppa un’epatite cronica che, soprattutto se accostata ad altri cofattori che possono determinare patologie del fegato (come il consumo di alcol o una condizione di obesità) o a coinfezioni, può determinare una condizione patologica aggravata in buona parte dei pazienti. Se non trattata, l’epatite C può condurre ad una cirrosi del fegato, che può poi sfociare in insufficienza epatica; può evolvere in cancro del fegato, eventualità che interessa il 70% circa dei casi di infezione cronica, essendo l’HCV un virus altamente oncogeno; può condurre persino alla necessità del trapianto di fegato, che diviene in alcuni casi l’unico mezzo per salvaguardare la vita del paziente».

Come si trasmette?

Per comprendere le dinamiche di diffusione di questa malattia, è necessario conoscere le modalità di trasmissione: gran parte delle infezioni, infatti, è avvenuta prima della scoperta del virus, che risale al 1991. Come spiega Maria Elena Tosti, «la via di trasmissione più importante prima della scoperta del virus era la trasfusione di sangue o di emoderivati. Successivamente all’isolamento del patogeno, e grazie al miglioramento dei controlli nei centri trasfusionali, tale via oggi non rappresenta più un fattore di rischio per l’acquisizione dell’’infezione da epatite C. Altre importanti vie di trasmissione comprendono la cosiddetta trasmissione parenterale o microparenterale, ossia l’inoculazione di sangue infetto da aghi, siringhe, strumenti chirurgici contaminati, oppure la penetrazione del virus proveniente da materiali biologici infetti attraverso lesioni della cute o delle mucose. La trasmissione per via sessuale, sicuramente possibile, sembra invece essere meno efficiente rispetto a quanto avviene per altre infezioni parenterali quali l’epatite B e l’HIV».

Per quanto riguarda l’Italia, «i dati provenienti dalla sorveglianza dell’epatite virale acuta SEIEVA mostrano come, negli ultimi anni, sia diminuito il ruolo svolto dal consumo di sostanze stupefacenti per via endovenosa nella trasmissione dell’infezione (plausibilmente a causa dell’utilizzo di nuove sostanze non iniettive), mentre è aumentato il tasso di trasmissione attraverso esposizione nosocomiale (fattore di rischio riportato nel 2021 dal 45,5% dei casi). Inoltre, un ruolo importante hanno avuto, negli ultimi anni, alcuni trattamenti estetici, quali piercing e tatuaggi». I dati epidemiologici ci informano anche sull’età media dei pazienti, ed è interessante notare come vi siano state – afferma Kondili – «due diverse ondate epidemiche: la prima ha riguardato chi ha oggi un’età superiore ai 60 anni, e che con ogni probabilità ha contratto l’infezione per via ematica; la seconda, più recente, ha interessato la coorte compresa tra i 30 e i 60, che può essere entrata in contatto con il virus per via nosocomiale inapparente, oppure tramite l’assunzione di droghe, in occasione di un esame diagnostico, nel corso di un trattamento estetico».

Come evidenziato dai dati epidemiologici a nostra disposizione, l’infezione scompare spontaneamente solo in poche occasioni, mentre, prosegue Tosti, «circa nell’85% dei casi si va incontro ad una cronicità dell’infezione». Kondili, inoltre, specifica che «il virus dell’epatite C è riconosciuto come un virus che colpisce soprattutto il fegato, ma durante l’infezione cronica da epatite C sono coinvolti molti altri organi e sistemi quali il sistema endocrino, cardiovascolare, neurologico, psichiatrico, linfatico, nefrologico; inoltre, l’infezione causa, o aggrava, diverse condizioni patologiche, come il diabete, le malattie cardiovascolari, il danno renale, i linfomi, vasculiti di vario grado».

La situazione italiana

In seguito alla scoperta del virus che è all’origine dell’infezione, il tasso di infezione in Italia ha registrato un dato in costante diminuzione. È Tosti a fare il punto della situazione: «Negli ultimi dieci anni, il tasso è rimasto costantemente al di sotto del valore di 0,4 contagiati per 100.000 persone. Va però sottolineato che i casi di nuove infezioni colti dagli organi di sorveglianza, come il SEIEVA, rappresentano solo la punta di un iceberg, in quanto bisogna ricordare che le infezioni sono asintomatiche all’esordio in oltre il 70% dei casi. Negli ultimi due anni, in particolare, si è assistito ad una ulteriore diminuzione dei casi notificati al SEIEVA rispetto agli anni precedenti. Molto probabilmente, le misure di contenimento adottate per la pandemia da SARS-CoV-2 hanno contribuito a diminuire anche il rischio di contrarre altre malattie infettive, tra cui l’epatite C; è però indubbio che l’interesse massimo sulla pandemia possa aver ridotto l’attenzione su altre patologie, anche per ciò che riguarda la diagnostica e la conseguente notifica».

Dunque, nota Kondili, dobbiamo tenere a mente che il tasso di infezioni “sommerse” è probabilmente ancora molto alto: «In seguito al periodo pandemico, ci aspettiamo, a livello nazionale, un ‘sommerso’ di circa 300.000 persone del tutto asintomatiche, a cui si dovranno aggiungere altre 100.000 a cui l’infezione è stata diagnosticata ma che, a volte anche per scelte poco informate, non si sono sottoposte ad alcuna cura».

Molti, infatti, prendono la decisione di sottovalutare la malattia: e lo fanno, generalmente per due ordini di motivi. Il primo è il lungo decorso della patologia, che offre nella maggioranza dei casi una lunga aspettativa di vita; il secondo è la mancanza di adeguata conoscenza circa le terapie oggi disponibili, ambito nel quale sono stati raggiunti avanzamenti considerevoli. A differenza di altre patologie ‘cugine’, infatti, per l’epatite C non è disponibile un vaccino; tuttavia l’interferone, il primo farmaco dedicato alla cura della patologia, guardato con sospetto dai pazienti soprattutto per via dei pesanti effetti collaterali, è stato soppiantato da farmaci antivirali ben più efficaci, attraverso i quali è possibile eliminare totalmente l’infezione nella quasi totalità dei casi trattati.

Obiettivo eliminazione: parola dell’OMS

«L’Italia – sottolinea Kondili – è il primo paese europeo per numero di pazienti trattati con farmaci antivirali ad azione diretta (DAA, Direct-Acting Antivirals): dal 2015 ad ora, più di 230.000 pazienti sono stati sottoposti a questo trattamento». «Questo dato – aggiunge Tosti – rispecchia la più alta prevalenza di infezioni croniche, cirrosi e cancro del fegato in Europa, ma mostra anche l’utilità di politiche sanitarie che hanno consentito, dal 2017, l’accesso alla terapia universale con i DAA per tutti gli infetti, indipendentemente della severità del danno del fegato e senza restrizioni di alcun tipo».

Sotto questo profilo, dunque, l’Italia è pienamente in linea con gli obiettivi globali dettati dall’OMS, che punta ad eliminare l’epatite C come problema di salute pubblica entro il 2030, in diretto dialogo con gli obiettivi di sostenibilità dell’Agenda 2030. Le direttive emesse dall’Organizzazione Mondiale della Sanità sono le seguenti: l’epatite C potrà essere non più considerata problema di interesse pubblico quando sarà stata raggiunta una riduzione del 90% di nuove infezioni croniche e del 65% in termini di mortalità».

In Italia, portare alla luce le infezioni sommerse sarà essenziale per rimettersi sulla strada – dopo il parziale deragliamento verificatosi durante gli anni della pandemia – della drastica diminuzione della presenza di questa malattia. «Tra le azioni che vanno realizzate con più urgenza», conclude Kondili, «vi è in primo luogo la decisa riduzione della prevalenza della patologia – il che significa eliminare l’epatite in coloro che ne sono affetti, attraverso gli antivirali – per ridurre in maniera significativa il rischio oncogeno e prevenire l’insorgenza di molte altre patologie, migliorando così la qualità di vita della persona. Questo costituirà anche un’arma per la prevenzione, perché implementando le cure si ridurranno anche le occasioni di trasmissione».

A tal proposito, in linea con le direttive dell’OMS, il governo italiano ha approvato un decreto-legge e un fondo di 71,5 milioni di euro per effettuare screening gratuiti dell’infezione da HCV sia in popolazioni chiave, quali tossicodipendenti e residenti nelle carceri, sia nella popolazione nata tra 1969 e il 1989: si tratta di un progetto sperimentale, che sarà attuato tra il 2020 e il 2022. Come chiosa Maria Elena Tosti, «si auspica che la possibilità di effettuare lo screening gratuito per la diagnosi e la cura delle infezioni attive da HCV sia esteso anche alla popolazione nata tra il 1948 e il 1968, e a tutte le altre persone con fattori di rischio evidenti per l’acquisizione pregressa o attuale del virus dell’epatite C». Un simile sforzo pubblico di prevenzione sarà essenziale per raggiungere gli obiettivi dell’OMS entro i tempi stabiliti, garantendo cure a chi ha contratto l’infezione in passato ed evitando che questa continui a diffondersi in futuro.

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012