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In Salute. Farmaci: stessi effetti su uomini e donne?

Stando ai dati riferiti nel volume pubblicato dall’Agenzia italiana del farmaco pochi mesi fa, L’uso dei farmaci in Italia. Rapporto nazionale anno 2020, lo scorso anno circa sei cittadini su dieci hanno ricevuto una prescrizione di farmaci, con una differenza tra uomini (57,4%) e donne (65,5%). Le donne in particolare, specie nella fascia d’età compresa tra i 20 e i 64 anni, hanno dimostrato una prevalenza d’uso superiore agli uomini. Eppure, sebbene la popolazione femminile consumi più farmaci rispetto a quella maschile, la ricerca scientifica per lungo tempo non ha tenuto conto delle differenze fisiologiche tra uomo e donna, e i farmaci sono stati pensati principalmente per pazienti di sesso maschile. Con conseguenze in termini di efficacia e tossicità per le donne. 

La sfera della salute è stata declinata per lungo tempo quasi esclusivamente al maschile. Ad affrontare la questione nel 1991, sul New England Journal of Medicine, fu Bernardine Healy nell’articolo dal titolo The Yentl Syndrome. La cardiologa sottolineava in quell’occasione che le donne hanno una maggiore morbilità rispetto agli uomini e sono colpite da più malattie croniche debilitanti. Anche se vivono più a lungo degli uomini, la qualità di vita di quegli anni in più è gravata da patologie come il cancro, in particolare al seno, ai polmoni e al colon, da malattie cardiache e dall'ictus, dall'osteoporosi, dal morbo di Alzheimer, dalla depressione. Queste condizioni, tuttavia, in molti casi sono altamente prevenibili e curabili. “Dobbiamo renderci pienamente conto di questi fatti - scrive Bernardine Healy nell'articolo - e affrontare le malattie delle donne come diverse da quelle degli uomini ma di uguale importanza, anche quando colpiscono pure il sesso maschile”. 

Sono serviti più di vent’anni, tuttavia, perché si cominciasse a discutere di medicina genere-specifica e, in questo contesto, di farmacologia genere-specifica. Dell’argomento abbiamo parlato con Silvia De Francia, docente di farmacologia all’università di Torino, giornalista e autrice del volume La medicina delle differenze. Storie di donne uomini e discriminazioni (Neos Edizioni 2020): “La farmacologia genere-specifica (che al momento però non è pratica attiva all'interno della routine ospedaliera) è la branca della farmacologia che deve definire ed evidenziare le differenze di sesso e di genere, atte a variare la risposta al trattamento farmacologico nella popolazione maschile e nella popolazione femminile. Sembra strano ma ad oggi ancora assumiamo determinati farmaci per i quali l'effetto non è stato assolutamente studiato sulla popolazione femminile, ovviamente si tratta di farmaci datati per i quali però sarebbe necessario ridefinire gli studi, visto che l’arruolamento del campione femminile è stato pressoché inesistente”.


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Donne escluse dalle sperimentazioni cliniche

Per lungo tempo le donne sono state escluse dalle sperimentazioni scientifiche necessarie a introdurre nuovi farmaci in commercio. “Fino al 1993 il campione femminile, quindi parlo sia delle donne sia del modello femminile dal punto di vista preclinico, in vitro e in vivo, è stato assolutamente escluso per vari motivi”. Innanzitutto si pensava che qualsiasi molecola potesse avere un effetto teratogeno nel caso in cui il farmaco fosse stato assunto da donne in gravidanza. In secondo luogo, la donna è un sistema molto più complesso da studiare: “Esistono molte donne, in tanti periodi diversi della loro vita: le sperimentazioni cliniche dovrebbero arruolare pari numero di donne e di uomini, ma le donne dovrebbero essere arruolate anche in modo preciso per classe anagrafica. Alcuni degli eventi avversi che abbiamo riscontrato anche nella pratica vaccinale sono stati proprio dovuti al fatto che il campione femminile arruolato rientrava in un'unica fascia d'età e quindi la sperimentazione fino agli anni 2000 non ha prodotto risultati spendibili per la popolazione femminile. Ad oggi siamo ad un parziale arruolamento del campione femminile sia in ambito pre-clinico, che clinico”.

Ancora, va considerato che durante la gravidanza le donne cambiano molto la loro fisiologia e quindi l'assunzione di farmaci in determinati periodi, importanti e di estrema variabilità come questo, o come la menopausa, devono essere studiati proprio perché altrimenti il vuoto conoscitivo che oggi esiste sul campione femminile non fa che aumentare. 

Intervista completa a Silvia De Francia, farmacologa dell'università di Torino. Servizio di Monica Panetto, montaggio di Barbara Paknazar

La risposta ai farmaci nelle donne

Esistono ragioni precise che determinano una diversa risposta ai farmaci nella donna e nell’uomo, da ricondurre a specifiche differenze biologiche. La farmacologia, in generale, si suddivide in due branche, la farmacocinetica, cioè il percorso che un farmaco compie all’interno del corpo umano dalla sua assunzione fino alla sua eliminazione, e la farmacodinamica, che studia gli effetti del farmaco a livello di efficacia e tossicità. Ebbene, queste due branche hanno grandi differenze in ambito biologico. “Esistono molte differenze biologiche che caratterizzano e definiscono l'organismo femminile e quello maschile. Intanto la velocità di svuotamento gastrico, per esempio, nelle donne è decisamente più lenta, rispetto a quella maschile”. Dunque la capacità di svuotare lo stomaco è diversa nella popolazione maschile e in quella femminile, e di questo si deve tener conto in considerazione del fatto che molti farmaci devono essere somministrati a stomaco pieno e altri a digiuno. “Il ph stesso dello stomaco, dal punto di vista fisiologico, gastrico, è differente e l'interazione con l'ambiente acido, l'ambiente basico diverso fra lo stomaco femminile e quello maschile può indurre un diverso effetto idrolizzante sui farmaci, cioè di scomposizione del farmaco”. 

Silvia De Francia pone in evidenza poi differenze dal punto di vista costitutivo: “Le donne hanno una maggior componente di massa grassa, gli uomini invece di massa magra, quindi i muscoli sono più presenti e sviluppati nella popolazione maschile. Questo è dovuto a questioni di genere, perché lo sport è più praticato nella popolazione maschile, le donne sono molto più sedentarie e ciò induce uno sviluppo di massa muscolare diverso nell'uomo e nella donna. In queste ultime, c’è più tessuto adiposo, distribuito in zone diverse, mentre nell'uomo c’è più tessuto magro, più muscoli. I farmaci, dunque, soprattutto quelli lipofilici, vanno a distribuirsi in modo diverso, perché si trovano di fronte a un organismo costituito in modo diverso”. 

Ma le differenze di cui tener conto sono anche altre. “Molte proteine che regolano la distribuzione dei farmaci, dalle glicoproteine alle albumine, sono espresse in modo diverso nella popolazione maschile e nella popolazione femminile, perché tutte le proteine vengono prodotte a partire dalle informazioni contenute a livello genetico”. Ma non è solo la genetica a fare la differenza. “Molte proteine vengono espresse anche a seguito dell'interazione ormonale e quindi se si considerano le proteine espresse a livello di informazione genetica, utili per il trasporto e per la distribuzione dei farmaci, e di interazione ormonale, si ottiene un quadro definitivo molto diverso fra la popolazione femminile e quella maschile. Ancora, la velocità di filtrazione glomerulare, e cioè il modo in cui i nostri reni svuotano, ripuliscono in modo concreto il sangue da tutte le sostanze che vi si trovano all'interno, è diversa tra l'uomo e la donna. Di conseguenza, la velocità di eliminazione dei farmaci sarà assolutamente differente, andando a impattare sull'uomo e sulla donna, e dunque sulla durata, sull'efficacia e sulla eventuale tossicità di un trattamento farmacologico”. 

Le differenze che caratterizzano i corpi maschili e quelli femminili sono molte, sottolinea Silvia De Francia: “La farmacologia genere-specifica è ancora una branca abbastanza nuova e non praticata”. La docente osserva, peraltro, che si dovrebbe tener conto anche della popolazione transgender che ha un bagaglio ormonale di transizione: proprio per tale ragione, in queste persone lo studio della risposta al trattamento farmacologico dovrebbe ancora essere più ritarato e valutato in modo specifico.

Cardioaspirina, antipertensivi e statine: efficaci nelle donne come negli uomini?

Errori di sperimentazione clinica, mancanza di previsione, mancanza di arruolamento del campione femminile, argomenta Silvia De Francia, non hanno mancato di causare danni. È il caso per esempio della talidomide, un farmaco somministrato negli anni Cinquanta, nell'era pre-ecografica, alle donne in gravidanza per ridurre le nausee e il vomito nel primo trimestre: si trattava di un potente antiemetico, ma anche di un inibitore dell’angiogenesi, che bloccava lo sviluppo dei vasi sanguigni nei feti delle donne incinte. La conseguenza è stata la nascita di bambine e bambini affetti da amelia o da focomelia, dunque con braccia e gambe o entrambi poco sviluppati. 

“Anche l'aspirina con intento protettivo cardiovascolare, la cardioaspirina - spiega la docente -, è stata testata negli anni Ottanta con uno studio di sperimentazione clinica che ha coinvolto in tutto il mondo ventimila persone, ma solo uomini e quindi non esistono ancora ad oggi informazioni concrete e corrette sull'impiego di questo farmaco nella popolazione femminile. Qualcosa è stato fatto e si è acquisito nel tempo, però molte delle informazioni che derivano da questi studi, sono ad oggi ancora carenti. La cardioaspirina, per esempio, protegge dall'infarto, dall'ictus, dalla patologia cardiovascolare molto più gli uomini rispetto alle donne, funziona meno nella popolazione femminile, proprio perché non ci sono informazioni a riguardo, è stata testata e sviluppata su un modello prettamente maschile”. 

Ma sono molti altri i farmaci ad essere meno efficaci nelle donne, come gli antipertensivi di vecchia generazione, ma non solo. “Le statine, cioè i farmaci che servono a regolare i livelli di colesterolo, farmaci anche questi molto vecchi, sono stati testati, disegnati soltanto su un modello maschile e quindi nelle donne comportano eventi avversi anche importanti dal punto di vista dei disturbi muscolari”. 

Farmaci e reazioni avverse nelle donne

Silvia De Francia propone qualche ulteriore considerazione proprio su quest’ultimo aspetto, sottolineando che rispetto agli uomini le donne hanno molte più reazioni avverse, cioè eventi inattesi non indicati nei bugiardini dei farmaci (casi in cui serve rivolgersi al proprio medico di base o fare una segnalazione sul sito dell’Aifa).  Va detto che le donne sono molto più inclini ad autocontrollarsi, e quindi fanno molte più segnalazioni rispetto all'uomo, tuttavia vanno considerati anche dati di altro tipo. “La letteratura scientifica ci riferisce che le donne si rivolgono molto più frequentemente rispetto all'uomo al pronto soccorso, perché riferiscono della tossicità, di eventi avversi inattesi. Ciò avviene perché sui farmaci vecchi non si possiedono informazioni sulla popolazione femminile, le posologie sono state studiate sul campione maschile”. A farne le spese, dunque, oggi sono le donne principalmente, ma in realtà anche le fasce di popolazione meno rappresentate negli studi scientifici, come la popolazione pediatrica o gli anziani: nei più piccoli il fatto che lo sviluppo di determinati organi (come il fegato) non sia ancora completo fino al terzo anno di vita rende difficile l’arruolamento nelle sperimentazioni cliniche, come pure l’assunzione di più farmaci nella popolazione anziana.

Silvia De Francia conclude: “Penso che reiterare gli studi clinici soltanto su una fascia ideale e su un sesso ideale, che fino a pochi anni fa è stato quello maschile, sia scorretto proprio perché poco inclusivo”. 

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