Foto: Marco Delogu
Quando ci apprestiamo a leggere il seguito di un bel romanzo, è possibile che per quanta buona disposizione d’animo si abbia, il presentimento che ci aspetti una delusione prenda il sopravvento. Ci facciamo forti di un pregiudizio sull’autore, come se il fatto che ritorni sugli stessi personaggi, perfezioni vecchie storie, riapra ferite sepolte nella memoria del lettore e di coloro che vivono sulla carta, costituisca - in fin dei conti - una specie di truffa. Il sospetto ci attanaglia tanto più il primo romanzo ha avuto successo.
Nella fattispecie, Caos calmo di Sandro Veronesi, l’antefatto di Terre rare (Bompiani, 410 pagine, dal 15 ottobre in libreria), ha venduto moltissime copie, vinto lo Strega e il Prix Méditerranée ed è stato persino trasposto sul grande schermo: pessime premesse, dunque, per questo ritorno. Invece l’autore, a distanza di otto anni (e un piccolo gioiello pubblicato nel frattempo: XY) con Terre rare non solo non delude, ma porta quel suo antieroe – chi ha amato Caos calmo non può non riconoscerlo sin dai primi pensieri formulati sulla carta – a “chiudere il cerchio”, parafrasando Jonathan Coe, romanziere britannico che si è cimentato nella stessa impresa: consegnare alla letteratura due romanzi appaiati a distanza di pochi anni, La banda dei brocchi e Il circolo chiuso.
Ritroviamo un Pietro Paladini oramai cinquantenne che ha lasciato la sua Milano per andare a vivere a Roma e concretizzare, pur senza intenzione, la sua metamorfosi, dopo che l’improvvisa morte della moglie lo aveva paralizzato in un “caos calmo” che gli aveva permesso di sentire, finalmente, nel silenzio di chi “sta”, l’assordante rumore di chi “s’affanna”. Ora tocca però di nuovo a lui correre, non più come dirigente ma come venditore d’auto non pagate, non più accompagnato da una moglie a modo ma da una “coatta” – com’egli stesso la definisce – con vent’anni di meno, non più totalmente sicuro di sé ma consapevole di quanto ciò ch’è suo sia inestricabilmente legato a ciò che è d’altri. Quello che ancora resta, del passato, è un tarlo che gli lavora sottile nel cervello senza che se ne renda conto, fino a quando, dopo rocambolesche avventure, farà brillare in lui la “terra rara”, quel metallo prezioso che per venire alla luce ha bisogno di distruggere l’involucro che lo imprigiona.
Di questo happy end, che resta invero sospeso, perché il narrare di Veronesi è fatto di una dicotomia di dati oggettivi (dialoghi) e di ragionamenti interiori su cui nulla possiamo inferire (mimetici stream of consciousness di cui ci facciamo voyeristicamente spettatori), ne ha più bisogno il lettore di quanto ne abbia il protagonista: l’oggi della storia è infatti il nostro presente, al caos calmo del 2006 è sopraggiunta “la crisi”, l’invasione della Rete, il rovesciarsi delle “magnifiche sorti e progressive”.
Il particolare (il Paladini, la sua compagna dal nome puntato, il losco socio in affari, la vecchia segretaria “riattata”) è universalizzato nel modo più inaspettato: calandosi cioè quanto più possibile nell’individuale dei personaggi. Dettagli privati, ragionamenti personali, inflessioni verbali, si accompagnano a spazi, tempi e linguaggi che sono i nostri: quel modo di parlare, di telefonare, di dormire e – perché no – di soffrire ci è incredibilmente familiare. Dove inizia il romanzo e finisce la vita?
“Il mondo dipende dai suoi relatori e anche da quelli che ascoltano il racconto e a volte lo condizionano” è la citazione di Javier Marías che apre il romanzo – ad ogni capitolo una – e il romanzo stesso, per contro, è la risposta alla domanda. Stupisce che Ammaniti non sia chiamato in causa in questa fila di citazioni che anticipano gli eventi, perché nella storia del don Chisciotte ch’è Pietro Paladini, c’è in fondo qualcosa di sottilmente cannibale, di inverosimile e di eccessivo, a dimostrare ancora una volta che vita e letteratura non sono mimesi l’una dell’altra, ma si chiamano ad eco.
Non importa quindi che sia il primo, il secondo o il terzo romanzo che ha come protagonista Pietro Paladini, in cui la sua voce scandaglia la sua (e le nostre) esistenze: quando ci alziamo dal letto la mattina non ci domandiamo quante volte già l’abbiamo fatto e quante volte lo faremo ancora, così scrivere altro non è che permettere alla mano di segnare sulla carta il pensiero, con le sue interruzioni e riprese, alla ricerca della “terra rara”.