SOCIETÀ

Saper leggere, oggi

In questi giorni la scuola è al centro del dibattito politico: dopo la lunga chiusura, la riapertura appare subordinata a una complessa organizzazione, che include orari diversi d’ingresso e d’uscita per scaglionare l’afflusso, classi scomposte e ricomposte in piccoli nuclei, banchi monoposto a distanza di sicurezza, e varie complicate modalità operative. Lo Stato è impegnato a garantire un bene collettivo — l’istruzione — e insieme la tutela individuale dell’integrità fisica di ognuno: un equilibrio complicato, mentre la pandemia radicalizza le condizioni in cui questo duplice impegno deve compiersi, esasperando i problemi e le contraddizioni.

Mi sembra che oggi nel discorso pubblico sulla scuola manchino del tutto i riferimenti ai contenuti dell’insegnamento, ai principi, alle questioni che l’insegnamento scolastico non potrà eludere in questa difficile situazione di prova - individuale  e collettiva - che il Covid 19 ha determinato. Eppure, è urgente interrogarsi su cosa dovremmo insegnare per formare uomini e donne all’altezza dei problemi del loro tempo.

In un mondo nel quale l’incertezza non è un errore del sistema, ma la sua caratteristica saliente, di quali competenze abbiamo bisogno? 

Tra le questioni che appaiono imprescindibili occupa un posto rilevante la problematica relativa alla corretta interpretazione di messaggi e dati: occorre insegnare a elaborare strumenti critici per interpretare le informazioni, per distinguere ciò che è importante da ciò che è irrilevante, ciò che è vero, o almeno plausibile, da ciò che è falso, e per inquadrare tutte le informazioni in uno scenario dotato di senso.

Questo impegno, reso più urgente dalla situazione creata dalla pandemia, deriva  in realtà da una caratteristica che in misura crescente sta da tempo connotando la cultura moderna: la nostra ignoranza. Oggi la conoscenza deriva in minima parte dall'esperienza diretta di ognuno: in larghissima misura ciò che sappiamo è determinato da quello che altri dicono, e soprattutto scrivono, e dalla fiducia che noi riponiamo in loro. È importante prendere atto dei limiti e dell’approssimazione che noi come singoli individui abbiamo della conoscenza del mondo: alcuni studiosi hanno parlato a questo proposito della “illusione della conoscenza”. Pensiamo di sapere moltissime cose, perché consideriamo la conoscenza degli altri come se fosse la nostra, grazie alla straordinaria capacità che contraddistingue l’Homo sapiens di pensare collettivamente in gruppi estesi.

Ma questa capacità corre il rischio di trasformarsi in un errore, se le persone si affidano esclusivamente e ciecamente al “pensiero di gruppo”: in un mondo sommerso da informazioni, spesso irrilevanti, prima ancora che infondate, contraddittorie o menzognere, sembra non esserci modo per poterle assorbire e analizzare.

Il problema - come molti altri - è stato amplificato dalla pandemia: la ricerca scientifica non ha ancora raggiunto una visione largamente condivisa di problemi e procedure, e le questioni - come la cura e l’evoluzione della malattia - sono ancora oggetto di vasto e articolato dibattito. In questi casi, le persone rivolgono domande e attendono risposte da una vastissima area di comunicazione (la televisione, i giornali, la rete, i social network), un’area di comunicazione che però espone al rischio di accogliere e diffondere notizie false o parziali e informazione scorretta. 

Contro questo rischio, non c’è, a mio parere, che una strada: mettere in atto, e insegnare, un atteggiamento di verifica se non nella sostanza di quanto si legge (spesso è impossibile), almeno nelle procedure del testo, nelle operazioni che lo organizzano e lo strutturano in quanto tale.

Le pratiche del leggere assumono in questa prospettiva una rilevanza di grande portata, perché solo una sicura competenza testuale  permette la partecipazione attiva al dialogo sociale, e garantisce il possesso di una consapevolezza matura.

Non dobbiamo dimenticare che noi viviamo in un’epoca di diffusa e complessa testualità. Leggiamo meno libri, ma molti più testi. Il libro è una delle incarnazioni più specializzate ed efficienti della dimensione testuale, ma questa dimensione imbeve tutta l’esperienza umana. Noi siamo immersi - se non sommersi - in un mondo connotato da una forte dimensione testuale: basti pensare ai programmi televisivi in cui è sempre più frequente la comparsa di strisce testuali spesso totalmente avulse dal messaggio riportato nella finestra più ampia, alle pagine dei social network affastellate di testi spesso non coerenti tra loro, e ai messaggi scritti che spesso prendono il posto di conversazioni telefoniche. Per quanto semplificata, talvolta perfino alterata e codificata in forme quasi irriconoscibili, la testualità è oggi largamente diffusa e ha invaso spazi originariamente destinati alla sola fruizione orale.

Leggiamo meno libri, ma molti più testi

A fronte di questa massiccia presenza della testualità, appare sempre più ridotto il numero di coloro che sanno “cosa è un testo”. Eppure, il testo è un elemento centrale nel processo di conoscenza, perché a esso è affidata la continuità tra lettura e conoscenza. Questa continuità si spezza se io dimentico di trovarmi davanti a un testo (un documento, un argomento, un enunciato), e lo considero come un “evento comunicativo”, un messaggio fluido e veloce che scorre davanti agli occhi, e con il quale io entro solo in una relazione emotiva, una relazione che mi impegna appena nel mettere un like o nell’inoltrarlo ai miei contatti.

È importante capire di trovarsi davanti a un testo, in qualunque formato esso sia, cartaceo o digitale, perché acquisire la consapevolezza di avere davanti agli occhi un testo - un articolo di giornale, la voce di un’enciclopedia, il resoconto di una partita di calcio - significa porsi subito e automaticamente una costellazione di domande: Chi lo ha scritto? Quando? Perché? Dove? Per chi? Come? Quali fonti ha usato? In quali modi è stato accolto e ripreso nella tradizione successiva? e così via. 

Molte di queste domande non trovano una facile e immediata risposta, ma, anche se  restano solo tali, bastano a creare una ‘distanza’ tra lettore e messaggio, una distanza che permette l’adozione di un importante filtro critico e interpretativo. 

Questo approccio vigile e critico è oggi quasi del tutto disatteso, anche a causa dello statuto della comunicazione moderna, che si basa su una modalità di lettura che io credo sia stata indotta dal web. 

La rete è il grande testo che sottende larghissima parte della comunicazione contemporanea, ed è organizzata in modo che questa distanza critica tra messaggio e lettore sia del tutto annullata. 

In primo luogo, i testi che circolano sulla rete, come ad esempio quelli pubblicati nei blog e sui social network, spesso non hanno autore, o meglio non ne viene specificato l’autore. Quindi alla prima domanda - chi ha scritto questo testo, la cui risposta potrebbe anche aiutarci a capire quando lo ha fatto, dove, e per chi, e perché - non è facile, talvolta impossibile, trovare una risposta. 

Ma, oltre ai social network, larghissima parte della comunicazione presente sulla rete è strutturalmente lacunosa, e rende difficile un approccio critico a quanto si legge. 

Le pratiche del leggere appaiono oggi caratterizzate da perdita della comprensione dei significati, velocità, superficialità, frammentarietà, tempi accelerati, funzionali ad attivare pensieri veloci e decisioni immediate. La sequenza delle informazioni che ci fornisce la rete (basti pensare a Wikipedia) è piatta, orizzontale; tutte le informazioni sono connesse tra loro orizzontalmente; viene ignorata la dimensione della profondità, che è esattamente la dimensione che permette il passaggio da un’informazione a un dato culturale. 

Infatti, quello che trasforma un dato informativo in cultura è esattamente la conoscenza di tutte le “circostanze accessorie” (Quando? Perché? Con quali esiti?). Se io mi muovo nella rete per cercare le risposte a queste domande, le trovo, ma appunto devo pormi queste domande, e andare alla ricerca delle risposte. Sono le stesse domande che sono sottese alla comprensione del testo. Conoscere le circostanze accessorie che hanno determinato un evento, un’opera d’arte, un testo letterario è importante perché sono queste circostanze che lo rendono unico e irripetibile. Un manufatto artistico, un avvenimento storico, un testo letterario si sono prodotti in un tempo e in un luogo definiti, ad opera di qualcuno, in condizioni ed esiti specifici: per dire di conoscere questi dati e queste opere io devo conoscere le circostanze apparentemente accessorie che li hanno definiti e permessi, devo possedere quello che è stato definito un “sapere situato”, consapevole delle articolazioni e dei nessi che esistono tra i singoli dati che definiscono un evento. 

Devo porre alla rete domande necessarie e profonde più che aspettarmi risposte smart.

Se non lo faccio, quella informazione, che la rete mi dà prontamente, resta alla superficie, e non diventa conoscenza.

Inoltre, il testo riportato sullo schermo di un PC è una cosa ‘inedita’, nuova, che vive di condizioni epistemologiche diverse da quelle finora associate alla lettura, sia in riferimento alla sua formattazione, sia dal punto di vista dell’organizzazione dei contenuti.

Infatti l’organizzazione del testo al computer si sviluppa nell’ambito della schermata, e, come tale, si sottopone a una visione ‘panottica’ che propone un istantaneo e sincronico sguardo d’insieme, sovrapponibile alla pagina del libro solo in parte e solo in senso metaforico. Se riflettiamo sul lessico intellettuale che definisce le nostre attitudini mentali, ci rendiamo conto che la “comprensione” di un testo passa attraverso operazioni diverse da quelle della pura ‘visione’. Comprendere un testo significa, infatti, in un senso profondo, interiorizzarlo, come vuole il valore semantico del verbo comprehendo che era “afferrare con la mano”, attraverso un processo che si snoda nel tempo: si comprende un punto, poi un altro, poi un terzo, un quarto… fino a che non si “afferra” il messaggio, l’oggetto della nostra lettura. Lungo questa linea, i Latini, per indicare l’atto del conoscere, usavano il verbo nosco, is, novi, notum, -ere (cfr. to know in inglese), che, al presente, essendo incoativo, significa “io comincio a conoscere, imparo a conoscere, prendo conoscenza”, poi, al perfetto, significa “io conosco, io so”, attraverso un processo che si snoda nel tempo come una progressiva interiorizzazione.

Per la creazione di un sistema della formazione meno dispersivo, capace di produrre e gestire complessità e profondità, non c’è bisogno di istituire dei corsi scolastici di educazione ai media; occore conoscere e rivisitare con strumenti nuovi le pratiche di costruzione di complessità del passato, a partire dalla nozione di testo: noi infatti abbiamo già un sapere e delle competenze consolidati da un’antica tradizione, che ci aiutano a costruire quel pensiero critico che è alla base di tutta la cultura e che deve animare la vita interiore dei singoli esseri umani.

Un poeta, Franco Arminio, ha detto recentemente che nell’esperienza del Covid 19 e del periodo che stiamo attraversando si impone un “anno di attenzione”, per provare a elaborare le emozioni che la pandemia sta lasciando in ognuno di noi e nella nostra società, tentando di portare a galla non un semplice commento o la cronaca di quanto sta avvenendo, ma le domande più profonde, le trasformazioni meno visibili e necessarie, capaci di parole e idee nuove. 

Io spero che l’anno che sta per iniziare per la scuola sia davvero un “anno di attenzione” per tutta la comunità, che alla scuola affida il proprio futuro. 

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