SOCIETÀ

La “scandalosa disuguaglianza” nella distribuzione dei vaccini

I primi casi di Covid-19 sono stati resi noti al mondo il 31 dicembre del 2019, il giorno in cui la Cina informa ufficialmente l’Organizzazione mondiale della sanità di una serie di casi anomali di polmonite acuta nella città di Wuhan. Meno di un anno dopo, l’8 dicembre 2020 Margaret Keenan, una novantenne inglese, è la prima persona al mondo a ricevere un vaccino contro Sars-Cov-2, il coronavirus responsabile della pandemia che ha inceppato gli ingranaggi delle economie globali nell’ultimo anno.

Secondo i dati raccolti da Our World in Data ad oggi il virus ha infettato più di 170 milioni di persone e ne ha uccise 3,75 milioni. E probabilmente si tratta ancora di notevoli sottostime: si pensi che in Paesi come l’India, duramente colpita dalla pandemia, sono state ufficialmente registrate quasi 30 milioni di infezioni e più di 350.000 decessi, tuttavia le infezioni potrebbero essere state, a fine maggio 2021, 20 volte di più (tra i 500 e i 700 milioni) e i decessi anche 10 volte tanti (tra 1,6 e 4,2 milioni), secondo il New York Times.

Nel frattempo a inizio giungo 2021, circa un anno e mezzo dopo la scoperta del virus, sono stati raggiunti i 2 miliardi di dosi di vaccino somministrate. Contando però che i vaccini richiedono spesso due dosi per dare la protezione immunitaria desiderata, significa che di quasi 8 miliardi di persone che abitano la Terra, solo il 12% circa ha ricevuto almeno una dose e solo il 6% circa risulta pienamente protetta.

La distribuzione delle vaccinazioni poi è tutt’altro che uniforme. Nel discorso di apertura dell’Assemblea dell’Oms il 24 maggio, il suo direttore generale Tedros Adhanom Ghebreyesus ha parlato di una scandalosa disuguaglianza che si sta perpetuando nella pandemia. Già a gennaio i Paesi più benestanti avevano fatto incetta di dosi vaccinali lasciando le briciole ai Paesi più poveri. Oggi circa l’85% delle vaccinazioni sono state somministrate a Paesi a reddito alto o medio-alto, mentre solo lo 0,3% è giunto ai Paesi a basso reddito, riporta Science.

Criticata da alcuni esperti è stata anche la scelta, da parte dei Paesi ricchi, di investire sui vaccini per i minorenni (a basso rischio di contrarre il Covid e di trasmetterlo a famigliari più anziani ormai già vaccinati) invece che sulle persone fragili che vivono in Paesi più svantaggiati in cui Sars-CoV-2 e le sue varianti circolano ancora in quantità preoccupanti.

Tuttavia, mano a mano che le vaccinazioni procedono nei Paesi ricchi, ci si aspetta che questi ultimi arriveranno presto ad avere disponibilità di dosi in eccesso che potranno far arrivare ai Paesi più bisognosi attraverso il circuito di Covax. Al G7 che si è svolto in Cornovaglia i Paesi membri si sono impegnati a donare 1 miliardo di vaccini ai Paesi più poveri.

Covax è un’iniziativa promossa da Oms, Cepi (Coalition for Epidemic Preparedness Innovations) e Gavi - the Vaccine Alliance che mira a fornire vaccini contro Covid-19 a circa un centinaio di Paesi a basso reddito che non sarebbero in grado di procurarseli autonomamente. L’India, uno dei più grandi produttori di vaccini al mondo, avrebbe dovuto produrre e distribuire il vaccino di AstraZeneca ai Paesi più bisognosi, ma la drammatica crisi sanitaria che ha messo in ginocchio il Paese ha interrotto l’esportazione di dosi che potrebbe riprendere solo a fine 2021.

Covax fa molto affidamento sul vaccino di AstraZeneca, economico e facile da gestire da un punto di vista logistico poiché non necessita di refrigerazione straordinaria. Gli Stati Uniti di Biden hanno messo a disposizione 60 milioni di dosi del vaccino della casa anglo-svedese. Ma alla vigilia del suo primo viaggio in Europa e del G7, Joe Biden ha alzato ancora di più l’asticella degli sforzi da mettere in campo per combattere il fenomeno globale della pandemia: gli Stati Uniti doneranno 500 milioni di dosi del vaccino Pfizer-BioNTech a quasi 100 Paesi in difficoltà.

Spesso si è parlato di una diplomazia vaccinale e la mossa degli Stati Uniti giunge poco dopo che l’Oms, a inizio giugno, per proteggere le popolazioni dei Paesi meno abbienti, ha autorizzato la distribuzione globale per uso emergenziale di un altro vaccino cinese, il CoronaVac prodotto dalla casa farmaceutica di Pechino Sinovac.

Il vaccino di Sinovac, basato sulla classica tecnologia del virus inattivato, darebbe una protezione del 51% contro la malattia sintomatica e del 100% contro forme gravi e morte. È il secondo vaccino cinese approvato dall’Oms dopo quello di Sinopharm, efficace al 79% a prevenire i sintomi di Covid-19. L’Oms aveva invece già approvato quelli prodotti da Pfizer-BioNTech, Moderna, Johnson & Johnson e AstraZeneca.

La Cina ad oggi è già il maggior esportatore di vaccini anti-Covid del mondo, con 350 milioni di dosi in più di 75 Paesi, inclusi Sud America e Africa. In patria invece oggi vaccina più di 20 milioni di persone ogni giorno, ovvero il 60% dei vaccini somministrati nel mondo quotidianamente. Più della metà della popolazione cinese è già stata vaccinata e nel giro di tre mesi la Cina potrebbe aver vaccinato tutti i suoi abitanti (1,4 miliardi).

L’autorizzazione del secondo vaccino cinese probabilmente rafforzerà la posizione della Cina come leader nell'esportazione mondiale di vaccini anti-Covid-19. La sua autorizzazione in ogni caso è stata accolta molto positivamente dai membri di Covax, riporta Nature. Anche il CoronaVac di Sinovac infatti può essere facilmente trasportato e il suo prezzo rimane contenuto.

La questione dei brevetti sui vaccini

Tuttavia una questione irrisolta che rimane sul tavolo della World Trade Orgaization (Wto, l’organizzazione mondiale del commercio) è quella relativa alla liberalizzazione dei brevetti sui vaccini delle case farmaceutiche.

Consentire la fabbricazione del vaccino in case produttrici locali potrebbe infatti garantire la copertura immunitaria meglio di qualsiasi altro piano di distribuzione centralizzato. AstraZeneca ad esempio ha già concesso una licenza al Serum Institute di Pune in India per la produzione della versione locale (Covishield) del vaccino anglo-svedese, che avrebbe dovuto essere una colonna portante del programma Covax prima della crisi sanitaria indiana.

Già a maggio 2020 l’Oms ha lanciato l’iniziativa C-Tap (COVID-19 Technology Access Pool) attraverso cui le aziende avrebbero potuto condividere volontariamente la proprietà intellettuale e le competenze tecnologiche per prodotti di provata utilità sanitaria e globale. La maggior parte delle case farmaceutiche tuttavia non ha al momento aderito a questo genere di accordi.

A ottobre 2020 India e Sud Africa hanno avanzato una proposta più drastica alla Wto, quella di sospendere la proprietà intellettuale sui prodotti funzionali alla lotta a Covid-19 (dunque non solo i vaccini). Sebbene l’accoglienza da parte degli altri Paesi sia stata inizialmente fredda, lo scorso maggio Joe Biden ha annunciato di voler appoggiare la richiesta per quanto riguarda i brevetti sui vaccini.

Secondo i dirigenti delle case farmaceutiche però la liberalizzazione dei brevetti non risolverebbe da solo il problema: occorrerebbe mettere in piedi impianti produttivi, formare il personale e compiere un trasferimento tecnologico e di competenze tutt’altro che banale. “Il brevetto è una ricetta, ma averlo non ti rende uno chef” spiega Martin Friede che aiuta a coordinare le ricerche sui vaccini all’Oms.

Tuttavia senza la liberalizzazione dei brevetti la macchina della produzione distribuita non si può nemmeno accendere “Chi è che investirebbe per sviluppare qualcosa che è considerato illegale?” si chiede James Love direttore dell’organizzazione non governativa Knowledge Ecology International.

Finora la produzione globale di vaccini è stata concentrata tra Stati Uniti, Cina, India, Europa, e proprio lì sono state somministrate la maggior parte delle dosi nel mondo. L’investimento su una produzione distribuita di vaccini tuttavia potrebbe avere un’importanza strategica non solo per uscire da questa pandemia, ma anche per il futuro. Per garantire la protezione contro Covid-19 potremmo aver bisogno di aggiornare il vaccino all’emergere di nuove varianti e somministrarlo nuovamente nei prossimi anni. Si dice poi che oggi siamo entrati nell’era delle pandemie e oltre a Sars-Cov-2 nei prossimi anni e decenni potremmo disturbare altri virus potenzialmente pandemici, specialmente se non ridurremo l’erosione degli ecosistemi, della biodiversità, la deforestazione e il commercio di fauna selvatica. In queste pratiche del resto andrebbe ricercata la vera origine della pandemia.

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