SOCIETÀ

La scienza delle previsioni per combattere le epidemie: intervista a Vespignani

Giovedì 25 giugno l’Organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato che per la prima volta dopo mesi il numero settimanale di nuovi infetti da CoVid-19 in Europa è tornato a crescere. 20.000 i nuovi casi e 700 i decessi, 11 i Paesi più colpiti, tra cui la Germania che però ha reagito prontamente ai focolai del macello nella Nord-Westfalia e di Berlino.

Nel mondo i contagi hanno superato i 10 milioni e i decessi 500.000, ma soprattutto il numero di nuovi casi giornalieri non è mai stato così alto come nelle ultime settimane. Il 19 giugno sono stati più di 182.000 i nuovi casi, il 26 giugno si è stabilito un nuovo record: 194.000. I Paesi più colpiti restano gli Stati Uniti e il Brasile, con una conta quotidiana di circa 40.000 nuovi contagi. Preoccupa tutta l’America Latina, ma l’epidemia ha raggiunto anche grandi polmoni di popolazione come l’India, con una crescita di più di 15.000 nuovi infetti al giorno, e il Pakistan (+4000). Critica anche la situazione in Messico (+6000) e in Russia (+7500).

“Nel mondo purtroppo l’epidemia è in fase espansiva” spiega a Il Bo Live Alessandro Vespignani, professore di informatica e fisica alla Northeastern University di Boston, tra i massimi esperti mondiali di modelli epidemiologici. Vespignani di recente è stato ospite del ciclo di 5 conferenzeViaggio al centro della scienza” organizzato dalla Fondazione città della speranza e condotto da Antonella Viola, immunologa dell’università di Padova e direttrice dell’Istituto di Ricerca Pediatrica della Fondazione.

“Nella zona europea che è stata tra le prime ad essere colpite ci sono stati interventi molto aggressivi contro il virus che hanno abbattuto il numero di casi. Adesso vediamo un’asincronia nelle varie zone del mondo e addirittura all’interno degli Stati Uniti c’è una situazione asincrona: la costa est è in una fase di recupero mentre alcuni stati del sud assistono a una crescita dei casi. Una pandemia va sempre valutata su scala internazionale, l’abbattimento dei rischi avviene solo quando l’epidemia tende a scendere ovunque”.

Intervista a Alessandro Vespignani, professore di informatica e fisica alla Northeastern University di Boston. Montaggio di Elisa Speronello

Cosa sono i modelli epidemiologici

L’epidemiologia di oggi è una scienza che ha fortemente beneficiato della rivoluzione dei big data. Con i dati della mobilità delle persone, presi ad esempio dalle celle telefoniche, e con la teoria delle reti si riesce a disegnare una mappa molto dettagliata degli spostamenti degli individui e dei loro contatti. L’epidemiologia computazionale studia i sistemi sociali nei termini dei sistemi complessi: significa che a partire dalle medesime condizioni iniziali piccole perturbazioni possono fare evolvere il sistema verso traiettorie imprevedibili sul lungo termine. In questi casi si parla di caos deterministico, come per le previsioni del tempo che possono essere precise solo sul breve termine, una settimana al più.

“Se dobbiamo fare una semplice analogia i modelli epidemiologici sono come i modelli meteorologici” spiega Vespignani. “Incamerano una grande quantità di dati che invece di riferirsi all’atmosfera, alla temperatura e alle precipitazioni si riferiscono da una parte alle popolazioni e a come si muovono, dall’altra a quali sono le caratteristiche del virus che si sta diffondendo, e cercano di simulare al computer quale può essere la traiettoria dell’epidemia”.

Ci sono tre fasi di lavoro, sottolinea Vespignani. La prima viene chiamata consapevolezza situazionale che tenta di stabilire quanto è grande l’epidemia al suo insorgere, in assenza di informazioni precise e dettagliate. La seconda tenta di definire possibili futuri scenari della diffusione epidemica, con diversi tassi di rischio per la popolazione, per stabilire quali politiche si possono mettere in campo contro l’infezione. La terza è quella delle previsioni vere e proprie, che come per le previsioni meteorologiche si possono fare solo sul breve termine, su una scala compresa tra le 2 e le 4 settimane. Alcuni dei modelli computazionali utilizzati in epidemiologia usano tecniche di intelligenza artificiale, che fanno apprendere una grande quantità di dati a una macchina, la quale studiando il passato restituirà previsioni su quello che potrà accadere in futuro. Altri metodi invece sfruttano le simulazioni al computer: fissando alcuni parametri (come il numero di contatti o l'indice di riproduzione del virus Rt) si simula l'evoluzione dell'epidemia o la risposta del sistema sanitario. Ma la cosa migliore da fare spiega Vespignani è un ensemble di modelli “cioè prendere molti modelli e combinarli insieme per vedere qual è il consenso che questi ci danno rispetto alle varie possibili evoluzioni dell’epidemia”.

La situazione in Italia

In Italia sono comparsi alcuni focolai nelle ultime settimane (in un ospedale del Lazio, in un azienda a Bologna, a Mondragone in Campania) ma sono stati individuati e isolati tempestivamente. Il lockdown e le politiche di contenimento hanno dato i frutti sperati e i nuovi casi giornalieri si assestano intorno ai 200. Il contagio in Italia non è sparito ma può dirsi sotto controllo. “Attraverso le misure di distanziamento sociale l’Italia ha abbattuto drasticamente il numero di casi. Quando il numero di nuovi casi è basso e si fanno test si genera un ciclo virtuoso che permette di arginare i nuovi focolai ed è un lavoro che dà ottimismo per il ritorno alla normalità. I casi che si registrano per lo più o sono pregressi, cioè in uscita dalla malattia, o sono asintomatici o con sintomatologia più lieve” commenta Vespignani.

La reale diffusione dell’epidemia

Una questione destinata a rimare irrisolta ancora a lungo è la comprensione della reale diffusione dell’epidemia. Il Center for Disease Control and Prevention negli Stati Uniti ha dichiarato che probabilmente negli Usa le reali dimensioni del contagio sono 10 volte maggiori rispetto a quella identificata dai dati ufficiali, circa 2,5 milioni di persone contagiate. In Italia l’Istat ha fatto partire un’indagine sierologica anche per capire la reale diffusione dell’epidemia. Diversi modelli hanno proposto scenari diversi. “Nel caso di malattie con una grande incidenza di asintomatici e pauci-sintomatici sapere realmente il numero di contagi è una delle cose più difficili in epidemiologia, perché si generano un numero di casi che non viene mai identificato” spiega Vespignani. Per stimare il numero reale dei contagi secondo Vespignani “per questo tipo di infezioni una buona regola è quella di moltiplicare il numero delle osservazioni per 10. Quello che si osserva è la punta dell’iceberg”. E questo vale per Paesi che hanno sistemi sanitari e di sorveglianza evoluti. Per altri Paesi, come l’India, il fattore di moltiplicazione può essere anche più grande, “perché il numero di casi e la letalità riportata in questi giorni sono quasi sicuramente notevoli sottostime”.

Per questo tipo di infezioni una buona regola è quella di moltiplicare il numero delle osservazioni per 10. Quello che si osserva è la punta dell’iceberg Alessandro Vespignani

Il ruolo degli asintomatici nella trasmissione

Uno degli argomenti più dibattuti di questa pandemia è stato il ruolo che gli asintomatici svolgono nella trasmissione del contagio, un’informazione di cui anche i modelli epidemiologici a cui lavora Vespignani devono tenere conto. “Gli asintomatici hanno un’importanza nel momento in cui noi dobbiamo ad esempio immaginare le capacità di importazioni di casi internazionali. Naturalmente il ruolo degli asintomatici e dei pauci-sintomatici nell’accendere l’epidemia nelle varie zone del mondo a partire dalla Cina ha avuto una sua importanza. C’era un controllo per le persone che si ammalavano e che avevano una storia di viaggio, ma le persone che non manifestano sintomi o sono pauci-sintomatici sono difficilmente intercettabili”. Secondo Vespignani è importante capire che ruolo gioca la trasmissione invisibile dell’epidemia. “In Italia i primi casi sono arrivati a gennaio se non addirittura prima e per molto tempo i casi asintomatici hanno contribuito alla diffusione dell’epidemia. Nei modelli quello che si fa sempre in mancanza di informazioni più dettagliate è di assumere che gli asintomatici e i pauci-sintomatici trasmettano la malattia in una maniera inferiore, da un fattore 2 a un fattore 10. Avere valori più puntuali permetterebbe di avere meno incertezza. Per quanto riguarda i pre-sintomatici invece, cioè coloro che manifesteranno i sintomi più tardi ma che trasmettono la malattia prima di sviluppare i sintomi, sembra che svolgano un ruolo più importante nella trasmissione di questa malattia. Anche qui si aspettano maggiori dati, ma per lo studio di alcune politiche di intervento è molto importante capire se bisogna isolare le persone positive almeno un paio di giorni prima della comparsa dei sintomi o se si può aspettare la comparsa dei sintomi”.

Gli eventi di superdiffusione

Recenti studi hanno suggerito che CoVid-19 sia una malattia la cui diffusione sia in buona parte alimentata da eventi di superdiffusione. Significa che il virus tende ad attaccare gruppi di individui strettamente interconnessi tra loro, piuttosto che distribuirsi omogeneamente nella popolazione. L’indice che misura questa caratteristica si chiama fattore di distribuzione k e più è basso (da 0 a 1) più il virus tende a muoversi per singoli cluster, raggruppamenti. È stato stimato che per Sars-CoV-2 il fattore k si aggira tra 0,1 e 0,2. A marzo a Mount Vernon negli Stati Uniti 53 su 61 membri di un coro sono stati infettati da una persona che aveva avuto sintomi simili a quelli del raffreddore ma che invece era CoVid-19. A Singapore hanno fatto risalire 800 casi a un singolo evento infettivo avvenuto in un dormitorio. Il primo focolaio in Corea del Sud si è generato a Daegu durante una funzione religiosa. Altri 65 casi in Sud Corea sono stati attribuiti a una lezione di Zumba e un’ottantina a Osaka in Giappone a un evento di musica dal vivo. Non è però ancora chiaro se gli eventi di superdiffusione siano favoriti più da asintomatici o da sintomatici.

“La superdiffusione è un fenomeno complesso, perché ha due facce” spiega Vespignani. “Una è la biologia: un individuo per qualche motivo può avere una maggiore capacità di diffusione del virus. L’altra molto importante è quella ambientale: gli eventi di superdiffusione spesso avvengono in luoghi chiusi e affollati. È una combinazione di questi due fattori. L’introduzione di questo elemento nei nostri modelli dipende da quale domanda vogliamo andare a rispondere. Se l’epidemia è già molto diffusa questi effetti sono meno importanti nella descrizione del percorso dell’epidemia. Se invece l’epidemia è ridotta ai minimi termini come vediamo oggi in alcune zone dell’Europa e in Italia, questi effetti possono essere molto importanti, perché possono generare un gran numero di casi. La cosa importante è capire in quali condizioni questi eventi di superdiffusione avvengono, perché così si possono fare politiche di prevenzione adeguate. Ad esempio adesso sta emergendo che ci sono dei problemi negli apparati di macellazione industriale, dovuti a temperature basse, tassi di umidità alti, stretto contatto tra lavoratori, difficoltà a tenere le mascherine per periodi lunghi. Ne abbiamo visto di recente uno in Germania, ma ce ne sono stati altri”.

Una pandemia va sempre valutata su scala internazionale, l’abbattimento dei rischi avviene solo quando l’epidemia tende a scendere ovunque Alessandro Vespignani

La seconda ondata

La settimana scorsa il direttore regionale per l'Europa dell'Oms Hans Kluge ha dichiarato che “dobbiamo prepararci per l'autunno, quando Covid-19 incontrerà influenza stagionale e polmoniti”. In che modo le previsioni dei modelli epidemiologici possono aiutarci a capire se questa fatidica seconda ondata arriverà oppure no lo abbiamo chiesto a Vespignani: “In realtà sappiamo poco sulla possibilità di una seconda ondata. Prima di tutto ci tengo a dire che ad oggi molti Paesi sono ancora all’interno della prima ondata quindi dobbiamo stare attenti a questa definizione. In ogni caso la seconda ondata dipende da un numero di fattori enorme. L’Oms giustamente dice di stare attenti perché c’è una probabilità di insorgenza del virus in autunno. Tempo fa ho detto che in questa guerra al virus noi avremmo avuto bisogno del supporto di quello che ho chiamato il generale estate, ma ho anche sempre detto che dovevamo capire quante truppe ha questo generale. In alcuni Paesi dove il numero di casi è molto basso questo è un aiuto importante, in altri Paesi dove il numero di casi è molto alto quest’aiuto non è sufficiente. Ne è prova quello che stiamo osservando in Iran o in Stati del sud degli Usa. Dobbiamo quindi vedere dove saremo ad agosto. Quello che accadrà in autunno poi dipende dalle scelte dei singoli Paesi e dalle politiche che sapranno mettere in campo. Quindi fare previsioni adesso è impossibile, come le dicevo prima le previsioni reali si fanno sulla scala di 2 o 4 settimane. Per quanto riguarda gli scenari possibili bisogna mettere in conto che ci possono essere delle ricadute.

Bisogna però anche dare degli elementi di realismo: ogni giorno che passa diventiamo più forti rispetto al virus nel senso che la nostra conoscenza medica e di prevenzione aumenta. La nostra capacità di combattere il virus è cambiata enormemente da marzo a giugno e cambierà anche da qui a settembre. E probabilmente cambierà ancora da settembre a dicembre, quando inizieremo a vedere la luce dei risultati dei test sui vaccini. Bisognerà riguardare alla situazione autunnale alla fine dell’estate cercando di capire dove si è in quel momento prima di fare previsioni reali. Intanto proveremo a goderci l’estate, con attenzione, ma anche senza allarmismi. Soprattutto in Italia il sistema sanitario si è mosso con ottime tempistiche contro i nuovi focolai”.

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