SCIENZA E RICERCA

Quando l’immaginazione è spenta: il fenomeno dell’afantasia

Immagina di essere in spiaggia. Le onde del mare che si infrangono sulla battigia, la sabbia sotto i piedi, il profumo della salsedine, i vicini di ombrellone o magari qualche barca in lontananza. Ci riesci? Molto probabilmente sì, ma per l’1% della popolazione mondiale è impossibile: sono gli afantasici, persone che non riescono a creare immagini mentali, a visualizzare oggetti o scene. Non ‘vedono’ nulla oltre alla parete posteriore delle loro palpebre. E questo non ha nulla a che vedere con la loro fantasia, e spesso neanche con la loro capacità di sognare.

Gli afantasici però, proprio per questa difficoltà nel generare immagini mentali, avrebbero più difficoltà a ricordare i dettagli di eventi che hanno vissuto in passato, a riconoscere i volti o in alcuni casi a richiamare - stavolta all’orecchio - melodie. È quanto emerge sulle pagine di Trends in Cognitive Sciences dalla prima review sulla materia: un’analisi di oltre 50 studi pubblicati negli ultimi 10 anni, a firma di Adam Zenam, neurologo britannico dell’Università di Exeter e di Edinburgo, che è anche colui che ha dato nel 2015 un nome all’afantasia. Ecco quanto ne sappiamo ad oggi.

Lo strano caso del ‘paziente MX’

Agli inizi degli anni 2000, un geometra di 65 anni dopo aver subito un intervento chirurgico di angioplastica coronarica si accorge di aver perso la sua capacità di visualizzare luoghi, persone, volti amici e persino i palazzi da lui stesso disegnati. A visitarlo per la prima volta è appunto Adam Zeman, che scopre per la prima volta quella condizione che di lì a pochi anni avrebbe battezzato ‘afantasia’.

Lo strano caso del paziente ‘MX’ e della sua ‘blind imagination', nel 2010 diventa un paper, firmato da Zeman con il neuroscienziato Sergio Della Sala e altri, che grazie al giornalista statunitense Carl Zimmer fa il giro del mondo. Da allora, migliaia di persone si sono identificate con la storia del paziente MX, con una sola - grossa - differenza: il loro ‘occhio della mente’ è cieco da sempre, dalla nascita. Afantasici, per lo più, ci si nasce.

Afantasici e iperfantasici

Il caso del paziente MX (le iniziali sono fittizie) spalanca così un nuovo filone di ricerca: Zeman e Dalla Sala cominciano a studiare la capacità di visualizzare immagini nella mente attraverso un nuovo test: il Vividness of Visual Imagery Questionnaire sviluppato da David Marks (ci si può cimentare qui).

E scoprono (o forse sarebbe meglio dire riscoprono) che il potere immaginifico della mente umana è solo uno dei molti modi in cui le nostre menti differiscono l’una dall’altra. L’afantasia si guadagna un nome e ben presto si capisce che gli afantasici sono solo il punto di partenza di un ampio spettro lungo il quale si distribuiscono le persone in base alla precisione con cui la loro mente è in grado di costruire immagini. All’estremo opposto degli afantasici ci sono infatti gli iperfantasici, la cui mente crea immagini - e persino scene da film - vivide e ricche di dettagli.

A dirla tutta, a conclusioni simili, era arrivato già nel 1880 Francis Galton: cugino di Charles Darwin e intellettuale vittoriano dagli interessi più vari, dalla climatologia alla statistica. Galton aveva progettato un test più semplice: chiedeva ai gentiluomini che frequentava di ricordare la scena della loro colazione, mettendo assieme quanti più dettagli riuscivano a rievocare in mente. Raccolse per lo più risposte piccate, ma gli fu presto chiaro che esisteva un ampio spettro di immaginazione visiva.

I suoi studi, però, caddero nel dimenticatoio per un secolo e mezzo, fino all’uscita del lavoro di Zeman.

10 anni di ricerche sull’afantasia

Cosa si prova a essere un afantasico? O un iperfantasico? Parafrasando il filosofo Thomas Nagel, potremmo non essere mai in grado di capirlo per davvero, vista la soggettività dell’esperienza, ma qualche passo in avanti è stato fatto.

Negli ultimi anni la scienza ha indagato sempre più a fondo il potere immaginifico della mente e le neurodiversità, scoprendo per esempio che “nonostante il profondo contrasto nell'esperienza soggettiva tra afantasia e iperfantasia, gli effetti sul funzionamento quotidiano sono sottili, che la mancanza di immagini non implica la mancanza di immaginazione e che i compiti risolti ‘visivamente’ dai più, vengono risolti da afantasici e iperfantasici prendendo altre strade” come afferma lo stesso Adam Zeman nella review di Trends in Cognitive Sciences.

Studiare ‘la risoluzione’ con cui il cervello è in grado di generare immagini mentali però non è un compito semplice: c’è da fare i conti con la variabilità individuale e soprattutto bisogna capire come avere dati solidi che riguardino l’ampia gamma di occasioni quotidiane in cui la popolazione generale ricorre alle immagini mentali. Per esempio, per ricordare eventi passati o contemplare possibilità future, per ricordare dove sono stati lasciati alcuni oggetti o non perdersi in un percorso quotidiano, o ancora durante la lettura. Senza contare ovviamente, che le immagini mentali nutrono i sogni ad occhi chiusi e quelli ad occhi aperti (l’atto di ‘fantasticare’), e che hanno un ruolo principale anche in stati mentali patologici, come nel disturbo post-traumatico da stress o nelle allucinazioni.

Per studiare il potere di immaginazione delle mente, quindi, i neuroscienziati si avvalgono di diversi strumenti: vari questionari e test, ma anche misure fisiologiche e neuroimaging.

La potenza delle immagini

Una cosa curiosa emersa dalla review, per esempio, riguarda proprio le misure fisiologiche e la potenza evocativa delle immagini mentali.

Ascoltando storie estremamente spaventose, per esempio, gli afantasici non mostrano una risposta galvanica cutanea: in pratica, non sudano! Cosa che invece accade alle persone ‘normofantasiche’ se possiamo chiamarle così. Così come, suggerendo immagini con un forte contrasto luminoso (ad esempio, una stanza buia oppure un sole accecante) le pupille degli afantasici non si dilatano, né restringono: restano immobili. Mentre la popolazione di controllo mostra una risposta pupillare guidata dall'immaginazione.

In sostanza è come se gli afantasici non subissero - o subissero molto poco - ‘la potenza delle immagini’ mentali: le normali risposte fisiologiche involontarie, di brividi, sudorazione, contrazione delle pupille - collegate spesso anche alle emozioni generate dalle storie - sono inibite.

Riconoscimento dei volti e memoria biografica

Anche ricordare e riconoscere un volto è un compito che ha a che fare con l’immagine mentale che produciamo nel nostro cervello, e per gli afantasici non è sempre un compito facile: per molti è impossibile richiamare alla mente anche volti di familiari e amici più cari, senza vederli dal vivo o in foto.

Secondo gli studi fatti finora, infatti, circa il 40% delle persone con afantasia ha difficoltà di vario grado nel riconoscimento facciale. Una frequenza che è doppia rispetto alle persone ‘normofantasiche’ o iperfantasiche, e che fa raggiungere agli afantasici punteggi più alti nei test per diagnosticare la prosopagnosia: la totale incapacità di riconoscere un volto, dovuta però a un deficit percettivo acquisito o congenito del sistema nervoso centrale.

Inoltre, stando alla review, gli afantasici avrebbero una memoria biografica meno ricca: ricordano meno dettagli di eventi e momenti passati. Qualcuno allora si è anche chiesto se un afantasico potesse essere un testimone oculare affidabile: uno studio ha provato a rispondere alla domanda, sottoponendo afantasici e non a una serie di test, 48 ore dopo aver assistito a un crimine simulato. Ne è emerso che il ricordo episodico dei testimoni oculari con afantasia è meno completo, ma non meno accurato di quello di una persona ‘normofantasica’: gli afantasici hanno ricordato circa il 30% in meno di informazioni corrette, facendo quindi resoconti meno completi, ma non hanno commesso più errori degli altri.

Un solo occhio della mente, tante afantasie

In questi 10 anni di studi, inoltre, abbiamo capito che l’iperfantasia è più diffusa dell’afantasia: circa l’1% della popolazione è afantasico, mentre il 3% è iperfantasico. Cifre che salgono rispettivamente a circa il 5% e il 10%, considerando criteri di inclusione e parametri più generosi.

Soprattutto quello che è emerso è che non c’è un unico modo di essere afantasici: l’afantasia ha dei sottotipi potremmo dire. Ad esempio, non tutti gli afantasici hanno una scarsa memoria autobiografica o difficoltà nel riconoscere i volti (come per altro si evince dalle percentuali citate); alcuni sognano in modo vivido, altri invece non sognano affatto. E sebbene pare che la maggior parte degli afantasici svolga lavori che hanno a che fare con scienze, matematica e contabilità, ci sono afantasici che lavorano in campi creativi. Mentre per gli iperfantasici è il contrario: la maggioranza lavora in settori tradizionalmente ‘creativi’.

Infine, l’afantasia non è sempre e solo una questione meramente visiva, in moltissimi casi coinvolge anche gli altri sensi: c’è chi oltre a non visualizzare immagini mentali, non riesce a riascoltare una musica in testa (salvandosi dal classico tormentone che non si toglie più dalla testa per l’intera giornata), o non riesce a rievocare odori molto familiari o i sapori prediletti. Afantasia e iperfantasia spesso sono ereditarie, il che suggerisce che ci siano delle basi genetiche, ma resta ancora moltissimo da scoprire su una neurodiversità finora rimasta invisibile.

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