SCIENZA E RICERCA

Il “sé” senza confini si riconosce in gruppi etnici diversi

È possibile che il nostro senso di identità sia più flessibile di quanto immaginiamo? L’idea che il sé sia malleabile è ormai consolidata in letteratura: “Ciò che noi conosciamo di noi stessi, non è che una parte, forse una piccolissima parte di quello che noi siamo. E tante e tante cose, in certi momenti eccezionali, noi sorprendiamo in noi stessi, percezioni, ragionamenti, stati di coscienza che son veramente oltre i limiti relativi della nostra esistenza normale e coscientescriveva Luigi Pirandello già nel 1908.

Un recente studio condotto da un gruppo di ricerca italo-giapponese e coordinato da Mario Dalmaso del dipartimento di Psicologia dello sviluppo e della socializzazione dell’Università di Padova ha indagato se siamo in grado di riconoscere una parte di noi stessi nei volti di persone sconosciute appartenenti a culture e gruppi etnici diversi.

Tutti gli 80 partecipanti allo studio – 40 giapponesi asiatici e 40 italiani caucasici – erano studentesse e studenti iscritti nelle due università coinvolte (Waseda e Padova). La ricerca si è svolta in due fasi, ciascuna condotta su un gruppo etnico diverso: ogni partecipante ha completato due compiti principali, utilizzando un classico computer e un software specifico per la ricerca in ambito psicologico-comportamentale. In entrambe le fasi i partecipanti dovevano premere dei tasti in risposta a determinati stimoli visivi (volti e parole) nel modo più rapido e accurato possibile.

Inizialmente è stato chiesto a partecipanti giapponesi e italiani di associare la propria identità a un volto bianco o asiatico: ognuno doveva identificare sé stesso con uno dei due volti presentati, stabilendo così un legame arbitrario e momentaneo tra la propria identità e il volto scelto e permettendo ai ricercatori di misurare eventuali bias impliciti verso i gruppi etnici. Successivamente i partecipanti hanno completato un compito di corrispondenza al computer, in cui dovevano indicare se il volto presentato corrispondeva a quello precedentemente associato con sé stessi o a quello associato con un’altra persona. Infine, hanno eseguito un test per misurare i pregiudizi inconsci nei confronti di individui asiatici e bianchi. Attraverso le loro risposte è stato possibile misurare la tendenza dei partecipanti a identificarsi con volti di diverse etnie, osservando così la flessibilità del sé.

I risultati hanno rivelato un aspetto sorprendente e affascinante del nostro senso di identità: sia gli italiani che i giapponesi hanno dimostrato una significativa capacità di identificarsi con volti di altri gruppi etnici. Inoltre, questa capacità di vedere sé stessi negli altri non è stata influenzata dai pregiudizi verso l’altro gruppo sociale, suggerendo che la percezione di noi stessi è più adattabile di quanto pensiamo e può incorporare elementi sociali con caratteristiche diverse. Questo fenomeno offre uno sguardo profondo sulla psicologia umana, evidenziando come la flessibilità del sé possa essere una chiave per comprendere e accogliere l’altro” spiega il prof. Mario Dalmaso, primo autore dello studio.

E se i gruppi etnici a confronto fossero stati diversi?

“È possibile che i risultati possano variare se si confrontano gruppi etnici con una storia di tensioni o differenze culturali particolarmente marcate – spiega Dalmaso –. La nostra ricerca ha mostrato che il sé può associare volti sia dell’in-group (gruppo di appartenenza) che dell’out-group (gruppo degli “altri”) in maniera abbastanza flessibile; tuttavia, in contesti in cui i gruppi hanno vissuto conflitti o discriminazioni reciproche, questa capacità di associazione potrebbe essere influenzata da pregiudizi impliciti più forti, portando a una minore inclusività del sé. Studi futuri potrebbero esplorare questa possibilità per vedere se e come contesti culturali diversi influenzino l’associazione tra sé e volti di gruppi esterni”.

Tutti i volti presentati avevano un’espressione neutra, che non faceva trasparire alcuna emozione in particolare, anche per evitare che le espressioni facciali potessero influenzare le reazioni dei partecipanti e che una persona si riconoscesse più nello stato d’animo di chi aveva di fronte piuttosto che nei tratti fisici.

In un mondo sempre più multiculturale, questa ricerca suggerisce che la capacità di identificarsi in una persona sconosciuta, anche (e soprattutto) quando questa appartiene a un differente gruppo sociale, potrebbe dimostrarsi un’evidenza essenziale per promuovere società più inclusive e solidali in contesti multiculturali. Un esempio concreto potrebbe essere la promozione di programmi di educazione al rispetto e all’inclusione nelle scuole: insegnanti ed educatori potrebbero utilizzare attività che aiutano i giovani a “vedere sé stessi” anche in persone di culture o etnie diverse. Questo tipo di educazione potrebbe basarsi su esercizi di associazione simili a quelli utilizzati nello studio, in cui ragazzi e ragazze imparano a riconoscere e apprezzare caratteristiche comuni tra loro stessi e persone di origini differenti. Imparando fin da piccoli a identificarsi con persone di differenti gruppi sociali, i giovani potrebbero sviluppare una mentalità più aperta e rispettosa.

Dal punto di vista umano, “questo progetto mi ha permesso di vivere in prima persona la società giapponese, in cui è forte l’interesse verso l’altro, l’ospite, che viene accolto e trattato con molta sensibilità e gentilezza – spiega Dalmaso –. Importantissimo è stato il contributo del laboratorio del prof. Watanabe, che ha reso possibile la ricerca. Ricordo i lunghi momenti in cui, assieme a uno dei co-autori del lavoro, dovevamo decidere come tradurre dall’inglese le informazioni e le istruzioni da fornire ai partecipanti nipponici per svolgere il compito: la lingua giapponese richiede una certa formalità e una precisa ricerca del significato da comunicare, che si concretizza in bellissimi ideogrammi, quindi ogni singolo passaggio veniva pensato, valutato e riscritto più volte. La traduzione di poche righe di testo ha richiesto parecchie ore di lavoro, ma ogni volta che ci ripenso sorrido con tenerezza: è stato un piacevole momento di scambio culturale e umano”.

Questa ricerca apre nuove prospettive future su come questa flessibilità del sé possa aiutarci a superare le divisioni etniche e culturali, favorendo un dialogo più aperto tra comunità diverse. Forse scopriremo – o forse lo sappiamo già – che la nostra identità non è un’entità statica, ma un insieme dinamico, pronto a evolversi e arricchirsi attraverso l’interazione con ciò che è diverso da noi.

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