CULTURA

Lo scrittore americano di Shanghai Qiu Xialong e la Cina della pandemia

La città cinese di Wuhan è entrata nell’immaginario collettivo della maggioranza dei sapiens di quasi tutti i paesi del mondo. Come è noto, si tratta del capoluogo della provincia dello Hubei, alla confluenza del Fiume Azzurro e del Fiume Han; antichissima e di grande importanza storica, politica e culturale, fiorente già nel periodo dei Tre Regni nel Primo secolo; oggi la più popolosa città della Cina centrale (insieme a tante altre in forte crescita) dagli oltre sei milioni di abitanti nel 2010 ai circa 11 milioni del 2019 (densità 757,48 ab per km²). Nel dicembre 2019 è lì che sono comparsi i primi casi della malattia Covid-19 a causa del virus SAR-CoV2 e dal gennaio 2020 in pochi giorni il suo nome è stato temuto, evocato, ripetuto e scritto ovunque per lo scoppio e la diffusione della pandemia.

Ormai Wuhan fa parte della storia mondiale, non solo della medicina, e si stanno ancora studiando o approfondendo origini e caratteri di quanto è successo. Ora ritorna sulle risposte politiche alla prima fase della crisi sanitaria un gran bel romanzo giallo noir (appena uscito) del grande scrittore bilingue settantenne di origini, formazione e studi cinesi, americano per scelta da quasi 35 anni (metà della sua vita): Qiu Xiaolong, Il dossier Wuhan, traduzione di Fabio Zucchella, Marsilio Venezia, settembre 2023, pag. 254 euro 18.

Siamo appunto nel febbraio 2020 a Shanghai, trapelano notizie da Wuhan, si cominciano a usare i vari tipi di mascherine. Lì vive e opera il protagonista seriale delle opere di Qiu: Chen Cao, ex ispettore capo del dipartimento di polizia della città, da qualche anno rimosso dall’incarico e promosso direttore di un ente praticamente inutile, l’Ufficio per la Riforma del sistema giudiziario della municipalità, poi pure messo in licenza di convalescenza. Le alte sfere non si fidano più di lui, è caduto in disgrazia, da almeno due anni la Sicurezza interna lo sorveglia assiduamente. Fa una passeggiata in centro, nel Vicolo della Polvere Rossa e al Parco Bund, cui si associano tanti ricordi, diretto alla vicina Libreria internazionale, alla ricerca di una serie di libri per alcune traduzioni. Su richiesta dell’Ufficio del turismo di Wuhan, una casa editrice gli ha offerto un consistente anticipo e proposto di pubblicare la traduzione in inglese delle poesie classiche dell’antica dinastia T’ang, abbinando ai testi un dipinto coevo.

Chen torna stanco di pomeriggio nel suo appartamento, la pandemia si sta diffondendo, gli altoparlanti consigliano di restare a casa e di praticare rigoroso distanziamento sociale, una donna lo chiama imponendogli di sottoporsi a un testo per il Covid dato che è stato visto vicino all’ospedale dove circolavano tanti positivi, sul cellulare usato per le comunicazioni confidenziali riesce a parlare col suo amico Pang che gli racconta la drammatica situazione di Wuhan (tutti gli abitanti rinchiusi, senza vie di fuga e senza canali di comunicazione) e la scelta fatta di lavorare a una (pericolosa) serie di post su WeChat per raccontare i secretati casi ed eventi della vita reale. Poi riceve due visite in successione: la giovane e snella segretaria del suo ufficio Jin, che lo adora e lo mette in guardia, l’alto e slanciato 40enne Hou Guohua, vicecapo di gabinetto della giunta municipale, che gli chiede di fare da consulente (con relativi previlegi) per un caso di tre omicidi in pochi giorni nei pressi dell’Ospedale Renji, un serial killer presumono. Dovrà risolverlo e ben presto deciderà anche di anteporre a tutto un altro progetto di traduzione, meglio narrare la Cina di oggi.

Tredicesimo decisivo episodio fiction della magnifica serie ambientata in Cina e scritta in inglese negli Usa dal docente universitario di letteratura in Missouri Xiaolong (“piccolo drago”) Qiu (Shanghai, 1953). Come sempre, fra poesie, detti, adagi, proverbi, versi, la narrazione è in terza quasi fissa sul leggendario protagonista e talora sulla sua nuova preziosa conturbante assistente, reciprocamente ancora molto attratti da pulsioni e sentimenti, nonostante la differenza d’età. I primi episodi erano stati ambientati subito dopo i fatti di Tienanmen (1989), che suggerirono, invece, a Qiu di fermarsi negli Stati Uniti. Ora siamo giunti ai giorni nostri, il romanzo è dedicato “a tutte le persone che sono morte e hanno sofferto… per colpa dell’inumana politica zero-Covid imposta dal Partito comunista cinese e di un sistema di sorveglianza e di repressione peggiore di quello descritto da… Orwell”. Sappiamo che Chen esprime, in qualche modo, la vita eventuale e parallela dell’autore se fosse rimasto in patria.

Cao è un poeta stufo: lungo vari decenni ha risolto brillanti casi (tutti glielo ricordano miticamente), ha impersonato il ruolo del poliziotto, gli sta bene. Eppure, risolvere il mistero dei tre feroci delitti dei dipendenti dell’ospedale nel lockdown (un dirigente della propaganda, un’infermiera, un cardiochirurgo) non è più la stessa cosa di impegnarsi per mantenere la stabilità del sistema guidato dal partito. Il sistema a pervasivo partito unico gli appare sbagliato e inefficiente, troppo gerarchico e corrotto. Pensa che tante persone si siano ormai rese conto che amare il proprio paese non può significare sempre e comunque essere costretti a sostenere il governo, qualunque scelta compia. Non si presterà ad agire ancora come “simbolo dorato della spada dell’Imperatore”. Durante le accorte conversazioni all’interno dell’affiatata circospetta coppia, continui sono i riferimenti a George Orwell: La fattoria degli animali (1944) e 1984 (1948). Lui inizia a tradurre di nascosto in inglese i post dell’amico Pang da Wuhan (i tragici eventi riportati sono veri, diffusi dalla scrittrice Fang Fang e da tanti netizens cinesi, no fiction), raccogliendoli come Il Dossier Wuhan (da cui il titolo del romanzo) e chiama a raccolta tutti i vecchi fidati amici, Jin pure gli resta vicina, sarà quel che sarà.

In una nota finale l’autore spiega la genesi del suo ultimo interessante romanzo. Nel 2019 aveva visitato Wuhan per un convegno e a inizio 2020 le notizie sull’epidemia di Covid in Cina e sul disperato insabbiamento messo in atto dal governo di Pechino avevano inondato anche gli Stati Uniti. Si sentiva uno scrittore americano di Shanghai, considerata ancora come la propria città, sconvolto e disgustato dalla sorveglianza e dalla repressione imposte dalla politicizzazione della pandemia in Cina. Poi nell’aprile 2022 anche Shanghai venne trasformata in una terra desolata, imposto un lockdown asfissiante e repressivo: sistemi di riconoscimento facciali e biometrici, onnipresenti telecamere di sorveglianza, onnipotenti intercettazioni telefoniche, nuove tecnologie da Grande Fratello, organizzazioni finanziate dal governo per controllare e bloccare. “I cittadini erano ormai diventati dei topi inermi che zampettavano frenetici dentro una gigantesca gabbia di vetro, sotto la continua presenza di una lente d’ingrandimento, costantemente sorvegliati ed esaminati, ovunque si trovassero”. Qiu ritiene “incalcolabili” i danni collaterali causati dalla politica zero-Covid, in termini di vite e sofferenze. Il suo mentore all’Università morì in modo orribile, come altri conoscenti e amici: “ho dovuto prendere in mano la penna, e se sarò costretto a correre dei rischi ne affronterò le conseguenze”. Forse sarà così anche per il suo personaggio Chen Cao.

Qiu Xialong è uno scrittore cinese appartenente alla letteratura americana, ulteriore conferma di come il genere noirconsenta di raccontare meglio quel che accade davvero in ogni paese del mondo. Ha scritto racconti, poesie e tredici bei gialli seriali “occidentali” ambientati in Cina, il cui noir (come in Francia dagli anni Settanta o in Italia dagli anni Ottanta) sta nello svelare anfratti e misteri dei sistemi politici, tanto di quelli più o meno democratici quanto di quelli più o meno totalitari: il noir sta nell’interpretazione e nella gestione politica successiva al delitto, al crimine, alla strage, ciò che rende fluida la soluzione del mistero. Solo che i cittadini nei sistemi totalitari (come nel regime fascista) tendono a poter leggere solo romanzi gialli a soluzione chiara, niente hard-boiled, tanto meno (più tardi) noir. Qiu ha a lungo insegnato letteratura comparata alla Washington University di Saint Louis e vive (emigrato) con moglie e figlia negli USA ormai da 34 anni. Tutti i suoi romanzi trattano del suo paese d’origine in termini contemporanei, vicende di potere e amore, liti e crimini nell’enorme popoloso antico ecosistema umano cinese, la sua letteratura, la sua storia, in particolare nella seconda metà del Novecento con il precario contraddittorio passaggio dalla Cina nerorossa integrazione alla Cina rossonera, l’arbitrio della democrazia di mercato che si somma al mercato dell’arbitrio di regime.

Qiu Xiaolong scrive gialli noir dal 2000 e li consegna in inglese, innanzitutto alla critica e al pubblico americano, dai quali molto è stato premiato (piace abbastanza anche in Europa e in Italia, sempre Marsilio). Ormai risultano un successo in tanti paesi e circolano (tradotti in ideogrammi) anche nell’amata patria d’origine, dove è sempre tornato almeno una volta l’anno per aggiornarsi. Sono ambientati a Shanghai e in Cina, quasi dieci nella prima metà degli anni novanta (dopo Tiananmen, nella riforma “capitalistica” di Deng Xiaoping), i più recenti ai giorni nostri, permeati di quella geografia umana storicamente determinatasi, condotti per mano attraverso continui lunghi versi o liriche, editi e inediti. Segnala più volte, per esempio, che la parola più difficile da tradurre nella vita sociale cinese è “privacy”, dall’alfabeto latino (o inglese?) del computer originale al non alfabeto di migliaia di caratteri cinesi, chi ha il garante e chi non la riconosce. Ancora (e forse per sempre?) non può esserci “privacy” in quella cultura, oggi governata da teorie istituzionali comuniste. E i meccanismi dell’indagine sono intrisi di politica. Il giallo scorre placido, corposo, totalizzante. Diventa noir perché la soluzione ha una trasmissione esterna gestita dal partito e dalle istituzioni, viene ufficializzata in modo fantasiosamente diverso dal reale svolgimento dei fatti, lasciando sul campo ferite e disagi.

I gialli noir di Qiu Xiaolong sono una chicca. Lenti, delicati, colti, a loro modo ossessionati dal sesso (né platonico né consumato) oltre che dalla poesia. Simili nello stile e nel procedimento; originali nella struttura e nel soggetto (almeno per noi occidentali); consci di un genere nato e vissuto altrove, ormai globale. Probabilmente non si tratta di singoli capolavori assoluti, piuttosto di piacevole quieta intelligente compagnia. La Cina è vicina. Il suo ambiente, i suoi crimini, la sua letteratura, la sua gente, i suoi consumi. Da salvare? Da cui essere salvati? Slow Book e slow Reading! Dovremo presto ripercorrere le trame dei dodici romanzi precedenti. Magari, se vi erano sfuggiti, leggeteli uno dietro l’altro, oppure partendo da quest’ultimo sulla pandemia. Vanno in ordine cronologico (con l’eccezione di un prequel). Sono tutti in terza persona, capitoli medi che seguono sempre gli indagatori, la precaria incerta squadra speciale (che non ha né tecniche né strumenti moderni) quando Chen era ispettore, lui e Jin ora, evidenziando l’incipiente progressiva “ambiguità ideologica” del capo e le permanenti subalternità ideologiche in cui il sistema irreggimenta i cittadini.

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