SCIENZA E RICERCA

Seaspiracy e i problemi del mare raccontati in modo parziale o errato

Il 24 marzo 2021 è uscito su Netflix il documentario “Seaspiracy”, diretto da Ali Tabrizi. Il documentario, evocando all’inizio il problema della plastica in mare, si propone poi di raccontare, attraverso immagini e interviste, le problematiche relative all’uccisione di cetacei, alla pesca e all’acquacoltura in diverse aree del pianeta, puntando il dito sulla loro insostenibilità e sull’illegalità legata a molte attività di prelievo. Il quadro che emerge dal documentario è particolarmente desolante, con immagini molto forti e crude soprattutto di specie carismatiche quali cetacei e tartarughe e di schiavitù dei lavoratori della pesca in alcune aree del pianeta. L’intento di suscitare discussione e riflessione, soprattutto da parte del grande pubblico, è sicuramente utile (per esempio l’affrontare in maniera critica la questione dei marchi di sostenibilità). Va detto però che alcuni elementi, presentati come scoop, sono ben noti (il ricorrente massacro di delfini nella baia di Taiji, in Giappone), mentre altri sono effettivamente poco conosciuti, se non agli addetti ai lavori, come il problema della schiavitù nel mondo della pesca. Il messaggio del documentario fallisce, tuttavia, per almeno tre elementi fondamentali: 1) affronta e di conseguenza presenta il mondo della pesca in maniera incompleta e parziale; 2) propone in maniera approssimativa, se non errata, alcuni punti concettuali fondamentali per la comprensione dei problemi trattati e per permettere al cittadino/consumatore di operare scelte consapevoli; 3) dà poche speranze o meglio nessuna via d’uscita, al mondo della pesca così come al cittadino consumatore, indicando come unica soluzione la rinuncia al consumo di pesce. 

Il documentario presenta unicamente la grande pesca industriale, quella che si basa su navi gigantesche (che possono spostarsi ovunque) e che è esercitata da grandi compagnie (che un domani possono investire in settori diversi dalla pesca se le risorse verranno a mancare). Il problema della sostenibilità ecologica della pesca industriale è un problema molto complesso in quanto include il prelievo delle specie commerciali e non commerciali, alcune delle quali possono essere addirittura protette e i cui individui pescati sono rigettati in mare spesso morti, fino all’impatto degli attrezzi da pesca sui fondali marini o delle reti perse in mare. 

La pesca, tuttavia, non è solo “industriale”. La pesca più locale, caratterizzata da imbarcazioni ben più piccole rispetto a quelle che appaiono nel documentario e la piccola pesca costiera (con la sua componente artigianale) sono attività importanti e spesso predominanti in tantissimi paesi. Sono attività che contano sulla sostenibilità degli stock locali per poter continuare a sussistere e sono esercitate spesso da imprese a carattere individuale o familiare. Anche queste attività di pesca possono presentare caratteri di insostenibilità (nel caso di una gestione o dell’uso di metodi non appropriati), ma rispetto alla pesca industriale possono essere ri-orientati verso logiche di maggiore sostenibilità. La pesca artigianale, inoltre, è caratterizzata da una forte valenza legata alle tradizioni, alla storia, alla cultura e all’identità di luoghi e genti, senza contare la sua importanza a scala locale, sia per il sostentamento (es. in molti paesi poveri), sia per l’economia legata al turismo. 

Parlare di sostenibilità, da questa prospettiva, implica la necessità di tenere conto anche della sua componente sociale ed economica oltre che di approvvigionamento di proteine animali per l’alimentazione umana. Gli ultimi dati della FAO, disponibili nel report sulla pesca e l’acquacoltura del 2020, indicano come oggi siano impiegate nella pesca quasi 39 milioni di persone, di cui la maggior parte è impiegata nella piccola pesca artigianale. Circa 20,5 milioni di persone sono invece impiegate in acquacoltura. Sempre secondo i dati della FAO, la pesca garantisce globalmente il 17% dell’approvvigionamento proteico animale, ma questa percentuale è decisamente superiore per molte nazioni e popolazioni costiere. Considerando l’aumento della popolazione mondiale e il cambiamento delle abitudini alimentari in molti paesi, è facilmente comprensibile come la richiesta di pesce sia stata negli ultimi decenni e sia tutt’oggi in crescita.

Il secondo punto critico del documentario è relativo a come viene trattato il concetto di “sostenibilità” della pesca. Si confonde di fatto l’impatto con la sostenibilità. La pesca senza impatto non può esistere: qualsiasi attività di prelievo ha un impatto, è quasi tautologico, se non altro sulle specie prelevate. La ‘sostenibilità’, tuttavia, è proprio la ricerca di quel livello di impatto che permetta alla popolazione o stock sfruttati di rinnovarsi e mantenersi nel tempo e così facendo permette alla stessa attività di prelievo di persistere. La sostenibilità non è assenza di impatto, essa si basa sull’equilibrio tra prelievo e capacità di rinnovamento delle popolazioni di specie sfruttate. Proprio questo concetto è alla base di modelli di prelievo sostenibile sviluppati dai biologi della pesca a cui nei decenni recenti è stato integrato il cosiddetto ‘approccio ecosistemico’, per tener conto non solo degli stock sfruttati, ma anche degli interi ecosistemi e delle attività umane che su questi insistono e dai quali esse stesse dipendono. L’applicazione di questi modelli prevede da un lato la riduzione della capacità di pesca attraverso una seria implementazione di misure di gestione di questa attività e dall’altro la creazione di aree marine protette (sensu latu) ben sorvegliate e monitorate. Questi approcci hanno dimostrato in modo inequivocabile di funzionare efficacemente per la protezione della biodiversità marina e della biomassa delle risorse pescabili proprio a vantaggio della pesca, anche in ambienti oceanici e di mare aperto. Infatti, anche se siamo ancora lontani dal raggiungere la sostenibilità della pesca a livello globale, non sempre le azioni sono state sufficientemente forti. Le strategie di conservazione adottate, tuttavia, stanno in molti casi dando i loro frutti. Per esempio, in un articolo apparso nel 2020, è stato documentato come le popolazioni sovrasfruttate mostrino segni di recupero quando la pesca viene gestita correttamente, come avviene lungo le coste canadesi. Molteplici esempi di successo provengono dalle aree marine protette (che molto spesso includono zone di non-prelievo affiancate da zone a prelievo gestito), considerate non solo strumenti di conservazione della biodiversità, ma anche di gestione ecosistemica. È un peccato che questo tema venga presentato nel documentario solo mettendo in evidenza come tutt’oggi la percentuale di aree marine protette sia ben lontana da quel 30% auspicato dal mondo scientifico per fornire un’adeguata protezione e come molte siano le aree protette solo sulla carta. Questi aspetti, ancora una volta, sono ampiamente riportati da molte pubblicazioni scientifiche e materiali divulgativi che hanno evidenziato da una parte come la protezione degli oceani vada a rilento, dall’altra come spesso le aree marine protette funzionanti portino ad efficaci recuperi della biodiversità, della ricchezza di specie, dell’abbondanza e della taglia di molte specie (anche commerciali ed a beneficio della pesca locale). Sono crescenti, da questo punto di vista, gli esempi di convivenza e di reciproci benefici tra aree marine protette e piccola pesca, a dimostrazione di come si possa raggiungere una sostenibilità ambientale, sociale ed economica nello stesso tempo, non solo attraverso regolamentazioni, ma anche tramite condivisione della gestione da parte dei diversi portatori di interesse, primi fra tutti i pescatori e le comunità locali. 

Anche il tema dell’illegalità nel mondo della pesca è stato molto studiato, così come il suo importante impatto sulle risorse ittiche, sulle specie minacciate di estinzione o sugli ecosistemi marini, ma anche sulla pesca legale e sui diritti dei lavoratori della pesca. Come evidenziato anche dal documentario, il problema della pesca illegale, dello sfruttamento da parte di multinazionali di acque in aree del mondo ad economia meno sviluppata e della schiavitù dei lavoratori imbarcati sui pescherecci di diversi paesi, rimangono senza dubbio uno dei grandi problemi per raggiungere una pesca sostenibile sia da un punto di vista ambientale, sia sociale ed economico. Va tuttavia ricordato come la pesca non sia solo questo, ma anche e soprattutto un mestiere nel quale esperienza, conoscenza e cultura del mare sono elementi fondamentali, soprattutto nella piccola pesca che include la maggior parte dei pescatori a livello globale. È soprattutto nell’ambito della pesca locale che la collaborazione fra ricercatori e pescatori (insieme a gestori e decisori politici, e con il coinvolgimento dei molteplici portatori di interesse e delle comunità locali) ha portato allo sviluppo di innovazioni e pratiche di pesca orientate verso una maggiore sostenibilità dei sistemi di produzione legati alla pesca. 

Il terzo punto, infine, si lega intimamente al ruolo importante, decisivo, che i consumatori possono giocare. Il mercato va dove la domanda si orienta. Questo ruolo non può necessariamente passare attraverso una dieta completamente priva di pesce (nel senso di prodotti della pesca) in modo assoluto e globale, ma piuttosto attraverso una riduzione del consumo e una scelta consapevole, responsabile e informata dei ‘prodotti’ (sensu lato, dal ‘fresco’ ai prodotti conservati o trasformati). Nel documentario vengono attaccati molti sistemi di certificazione di sostenibilità. Al di là dei singoli marchi e con tutti i limiti che tale approccio può avere (incluso quello dei marchi ‘fake’), molti sono autorevoli a livello internazionale e promuovono un processo di aggiornamento periodico dei criteri di sostenibilità applicati. Va detto, inoltre, che anche diverse associazioni (es. WWF) hanno promosso sistemi “a semaforo” per orientare il consumatore sui prodotti o sulle specie più sostenibili, per indirizzare meglio le scelte. Infine, privilegiare il più possibile il consumo di prodotti pescati localmente rispetto ai prodotti della pesca industriale può contribuire fortemente alla sostenibilità di questo settore, da un punto di vista ambientale, sociale ed economico. Questo passaggio sostiene anche i pescatori locali, legati al territorio e vettori di una miriade di identità culturali che nel complesso costituiscono quella ‘diversità culturale’ che, al pari della diversità biologica, è soggetta ad erosione a causa di uno sviluppo socio-economico inadeguato e insostenibile.

Seaspiracy è stato accolto con pareri molto discordanti dalla stampa, dai social media e dal pubblico: da una parte ha avuto un gran successo di pubblico, dall’altra i giudizi non sono certo unanimi, probabilmente anche perché manca di un reale contraddittorio. Pur riconoscendo al documentario il merito di mostrare una serie di gravi problemi legati alla pesca industriale, il quadro che ne esce risulta estremamente parziale e il messaggio, di conseguenza, poco costruttivo per contribuire ad una transizione verso una maggiore sostenibilità che tenga conto del declino di molti stock ittici sfruttati e del depauperamento di molti habitat marini così come della crescente domanda di risorse per la popolazione umana e della componente sociale di questa antica attività che è la pesca nella sua accezione più ampia.


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