SCIENZA E RICERCA

Si torni a parlare del clima e non si smetta di farlo

“Non vedo l’ora che si torni a parlare del clima”. Questo dice, leggendo il giornale, il personaggio di una bella vignetta di Bucchi dopo avere espresso la speranza “che del virus ci libereremo presto”.

E questa è una doppia speranza che dovrebbe coinvolgerci tutti.

Poiché, come si dice a Napoli, “chi di speranza vive, disperato muore” e chiarito che quando si dice speranza non si parla del ministro Speranza; fatto ciò realisticamente prendiamo atto dei due aspetti di questa speranza. La speranza che del virus ci libereremo presto al momento - giugno 2020- non ha elementi a supporto che consentano di ipotizzare se e quando possa avvenire questa liberazione. Altre, invece, sono le certezze sull’andamento del mutamento climatico in atto da tempo. E, quindi, è importante sperare che del clima si torni a parlare e non si smetta mai di farlo

Fra pochi mesi scadranno i primi cinque anni dall’accordo di Parigi 2015 e si comincerà a vedere se, come e quanto ci si sarà avvicinati all’obiettivo di contenere in non più di due gradi centigradi l’aumento delle temperature sulla Terra. Tanto meglio se in non più di 1,5 gradi.

E anche chi più, chi meno, chi niente vi avrà contribuito. 

Cominciamo dalla fine per dire che il “chi niente” riguarda essenzialmente gli Stati Uniti che, essendo tra i maggiori produttori di anidride carbonica in atmosfera, appena arrivato alla presidenza l’ineffabile Donald Trump hanno deciso di uscire dall’intesa sottoscritta dal suo precedente Obama.

Ma non c’è proprio la speranza di invertire o almeno di rallentare la tendenza  in atto del mutamento climatico?

La risposta più ricorrente è quella che induce a pensare che c’è poco da sperare. Ma le cose potrebbero anche essere realisticamente più rincuoranti. E mi induce a questa considerazione la recente lettura di Le trappole del clima. E come evitarle (Edizioni ambiente, 2020) di Gianni Silvestrini e Giovan Battista Zorzoli. Due studiosi che da anni portano avanti con serietà e durezza di posizioni le riflessioni sull’uso delle fonti di energia e sulle loro ricadute sull’andamento climatico.

Tuttavia serietà, severità e durezza di approccio e individuazione dei problemi non significano necessariamente mancanza di soluzioni e speranza di inversione di un andamento – quello del mutamento climatico – che mette molto in discussione le sorti dell’umanità. Non solo per il futuro, ma già da oggi.

Perché? Perché bisogna partire muovendosi tra l’ottimismo e il pessimismo dell’intelligenza. Avendo ben presente che il peso che l’intelligenza (cioè la conoscenza delle cose) è indotta a dare al pessimismo può essere di supporto al ruolo che quella stessa intelligenza può svolgere per ribaltarlo arrivando sino all’ottimismo.

Provo a fare chiarezza su questo criptico approccio ricordando che, come avvertono gli autori “per affrontare il riscaldamento del pianeta non basta rivedere i processi industriali di un piccolo comparto, ma occorre riconsiderare l’intero modello economico e modificare gli stili di vita. È questa la vera sfida”.

Questa, obiettivamente è la versa sfida. Una sfida che si può vincere impedendo al “sonno della ragione” di generare i mostri ai quali accenna Goya nella sua splendida acquaforte (El sueño de la razón produce monstruos, 1797). Di svegliarsi, invece, e individuare i modi e gli strumenti per vincere la sfida. E, nel nostro caso, per evitare le trappole del clima.

Non bisogna dimenticare che esistono precedenti. Uno è particolarmente significativo e riguarda la scoperta negli anni Settanta che la preziosa ozonosfera che filtra i raggi ultravioletti del sole presentava pericolosi strappi che impedivano questo filtraggio con danni per la salute. Si scoprì anche che la causa era da attribuire all’uso dei clorofluorocarburi (cfc) utilizzati come propellente nelle bombolette spray e del freon contenuto negli impianti di refrigerazione (frigoriferi, congelatori e condizionatori). Scoperti danno e causa fu abbastanza facile mettere insieme la maggior parte dei Paesi interessati e indurli a firmare un protocollo (protocollo di Montréal 1987) con il quale si mettevano al bando le cause degli strappi. Tanto importante fu questa intesa che l'ex segretario dell'ONU Kofi Annan la definì “un esempio di eccezionale cooperazione internazionale: probabilmente l'accordo di maggior successo tra nazioni.”

Fu, obiettivamente, così. Ma allora perché non altrettanto sì è fatto per intervenire a contrastare l’accumulo di anidride carbonica e altri gas serra in atmosfera, che sono la principale causa del mutamento climatico? Perché dopo gli impegni assunti nella Conferenza internazionale a Rio de Janeiro (1992) e negli incontri successivi sino a Parigi nel dicembre del 2015 si sono fatti solo scarsissimi passi avanti?

La risposta è abbastanza semplice: perché i clorofluorocarburi potevano essere sostituiti con altro senza che produzione e uso di spray e refrigeranti ne risentissero negativamente. Mentre la riduzione delle emissioni di gas serra per impedire alle temperature globali di superare i due gradi centigradi di aumento, richiedono di “riconsiderare l’intero modello economico e modificare gli stili di vita”.  Cosa che pochi Paesi accettano concretamente di fare entro la fine di questo secolo, mentre altri –i maggiori inquinatori, Stati Uniti in testa- rifiutano di accettare.

Dunque il problema resta. Ma non per questo mancano le soluzioni.

Il problema ha innanzitutto un obiettivo per tentare di risolverlo: la decarbonizzazione. E non bisogna perdere tempo.

Perché, come ricordano Silvestrini e Zorzoli, “Ogni molecola di CO2 immessa nell’atmosfera vi permane mediamente almeno cent’anni. Non a caso il rapporto dell’IPCC invita ad accelerare il processo di decarbonizzazione, per evitare che si consumi in poco tempo il margine che ci separa dalle 450 parti per milione nell’atmosfera, sufficienti per arrivare a due gradi di sovratemperatura, livello al quale circa metà degli effetti provocati dal riscaldamento globale diventeranno irreversibili. Ed è proprio quello che accadrebbe, se adottassimo la proposta di rallentare il processo di decarbonizzazione nel prossimo decennio.”

E questa è una trappola perché sono pochi i cittadini che conoscono questo “diabolico” dettaglio.  Il “prossimo decennio” può sembrare domani e invece può essere drammaticamente lontano.

Ragion per cui non aveva torto Greta Thunberg quando il 4 marzo parlando alla Commissione Ambiente del Parlamento dell’Unione Europea a proposito della legge sul clima che propone di ridurre sino a zero le emissioni di anidride carbonica entro il 2050, ha detto che con questa scadenza “indirettamente ammettete la resa: rinunciate agli accordi di Parigi, alle vostre promesse e alla possibilità di fare tutto il possibile per dare un futuro sicuro per i vostri figli".

La resa va evitata in fretta. Ed è possibile farlo perché “esiste la possibilità di incidere su diversi fronti. E un fattore positivo, che rende verosimile la riduzione delle emissioni climalteranti, è l’esistenza di soluzioni tecnologiche, già collaudate con successo.”.

E, per essere realisti Silvestrini e Zorzoli individuano cinque fattori i quali fanno ritenere che il percorso di decarbonizzazione possa essere più rapido rispetto alle dinamiche passate: il diverso contesto in cui si muovono le rinnovabili; la progressiva convenienza economica; la crescita dell’elettrificazione; le politiche che ne favoriscono l’uso a discapito dei combustibili fossili; l’indotto industriale.

Ma non basta perché l’obiettivo di raggiungere il 100% di energie rinnovabili “resta solo un miraggio in mancanza di un forte contenimento su scala globale della domanda di energia che avrà necessariamente bisogno anche di modifiche negli stili di vita.” Stili di vita che dovranno necessariamente essere meno energivori. Obiettivo raggiungibile se si riuscisse ad “abbandonare il modello dell’economia lineare, oggi dominante, dove le materie prime vengono trasformate in manufatti che una volta utilizzati si trasformano in rifiuti, sostituendolo con un’organizzazione produttiva e dei consumi basata sull’economia circolare.”.

L’insieme di obiettive difficoltà che ho sinteticamente elencato sino ad ora mostra un’apparente contraddizione con l’approccio prevalentemente ottimistico col quale avevo iniziato questa riflessione.

In realtà la contraddizione viene meno se vogliamo dare il peso che merita all’ottimismo della volontà.

L’intelligenza, cioè, ripeto, la conoscenza delle cose, induce ad elencare un buon numero di trappole da evitare per procedere senza inciampi nel percorso verso la decarbonizzazione delle nostre società.

Una, in particolare, che caratterizza non pochi amministratori della cosa pubblica Terra: l’indifferenza. Indifferenza che è alla base della accelerazione della crisi climatica. Ed è una indifferenza che diventa complicità. Perché, come sottolineano i nostri autori, “Condividere le politiche di decarbonizzazione, ma non considerarle prioritarie o non associarle a quelle di contrasto alla diseguaglianza sociale, è un’incomprensibile contraddizione in termini.”.

Queste complicità vanno vinte e si possono vincere diffondendo capillarmente l’informazione della gravità della situazione e della possibilità concreta di ribaltare le tendenze in atto prima che sia troppo tardi. I giovani, dai sostenitori e seguaci di Greta alle italiane sardine, possono svolgere – e stanno svolgendo- un ruolo di fondamentale importanza in questo compito.

La storia insegna che vi sono “modelli” cui ispirarsi. Silvestrini e Zorzoli ricordano che “anche tra coloro che in America ebbero il coraggio di seguire l’incitamento ‘go West, young man!’, non tutti ebbero fortuna ma per cambiare nel bene e nel male la fisionomia dell’America settentrionale, bastò chi riuscì a farcela.” 

Occorre, dunque, saper guardare lontano, ma con i piedi ben piantati per terra.

Come dicevo la Storia proponendoci modelli ci dice che è possibile. Che è possibile  che il disagio diffuso e le speranze che accomunano le persone  portino alla rottura e al ribaltamento delle posizioni con l’ordine vigente.

La conclusione che alimenta il realistico ottimismo col quale cominciavo questa riflessione mutuandola da Silvestrini e Zorzoli, è che le speranze non sono mai soltanto razionali, si nutrono anche di sogni: si deve anche riprendere a sognare. A sognare. Anche perché, come suggerisce Papa Francesco, “se non siamo capaci di sogno non riusciamo a creare vita, a costruire il nuovo e l’insperato”. 

La pandemia che ha sconvolto la vita di almeno cinque milioni di persone in tutti i continenti è tale da legare strettamente la “ripresa” alla costruzione del nuovo. Vale a dire di un modo a lungo diverso, forse irreversibilmente diverso dal prima. L’insperato sta nella concreta possibilità che la lezione di questo coronavirus, impartita nei mesi di quarantena, possa trasformare il nuovo in un migliore modo di produrre, di consumare, di vivere il quotidiano. Tale da incidere positivamente anche nel rallentamento degli effetti negativi del mutamento climatico.

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