SOCIETÀ

Stop ai ricongiungimenti familiari: la nuova arma contro i migranti

La prima è stata l’Austria, lo scorso marzo: con il governo appena insediato, una coalizione a tre formata da Popolari, Socialdemocratici e Liberali, che ha disposto “l’interruzione immediata dei ricongiungimenti familiari per i richiedenti asilo”, invocando le disposizioni di emergenza previste dall'Unione europea in caso di pericolo per la sicurezza nazionale. Un “pericolo” sul quale l’estrema destra filorussa dell’FPÖ aveva trionfato alle elezioni dello scorso anno, salvo poi essere esclusa formalmente dall’esecutivo per non essere riuscita a trovare alleati. Poi però il primo ministro Christian Stocker, leader dell’Österreichischen Volkspartei (il Partito Popolare, conservatore) ha deciso di congelare la norma («So che è un tema controverso», ha commentato), in attesa del parere dei giudici che dovranno stabilire se contravviene o meno al diritto europeo, dal momento che la Direttiva 2003/86/CE recita: “Il ricongiungimento familiare è uno strumento necessario per permettere la vita familiare. Esso contribuisce a creare una stabilità socioculturale che facilita l’integrazione dei cittadini di paesi terzi negli Stati membri, permettendo d’altra parte di promuovere la coesione economica e sociale, obiettivo fondamentale della Comunità, enunciato nel trattato”. Eppure quel passo, tutto politico e non dettato da alcuna emergenza se non quella di “assecondare” una narrazione propria dell’estrema destra, ha rotto un argine. A fine maggio è stata la volta della Germania, che ha deciso di sospendere “la successiva immigrazione di familiari verso persone con status di protezione sussidiaria in Germania”. Contestualmente il governo federale tedesco (in profonda crisi di consensi, a fronte dell’inarrestabile avanzata dell’estrema destra di Alternative für Deutschland, ormai primo partito negli ultimi sondaggi) ha anche stabilito di portare da 3 a 5 anni il soggiorno minimo per richiedere la cittadinanza. Il ministro dell’Interno Alexander Dobrindt, promotore dell’iniziativa, ha commentato così l’introduzione della norma: «La decisione del governo contribuirà a ridurre l’immigrazione illegale. L’obiettivo è ridurre i fattori di attrazione, ottenere una gestione più ordinata della migrazione e, allo stesso tempo, rendere giustizia al principio guida di garantire l’umanità e l’ordine pubblico». E dopo la Germania è stata la volta della Finlandia, mentre pochi giorni fa anche il Belgio ha adottato una simile riforma, che va ad aumentare il salario minimo richiesto per poter accedere al ricongiungimento: i richiedenti dovranno dimostrare di avere un reddito pari ad almeno il 110% del salario minimo garantito belga (pari a circa 2.300 euro al mese) maggiorato del 10% per ogni persona a carico. «I cambiamenti sono necessari. Le nostre regole erano troppo permissive, rendendo il Belgio una calamita per migranti e richiedenti asilo», ha poi dichiarato Anneleen Van Bossuyt, ministra dell’immigrazione, leader del partito di destra nazionalista Nuova Alleanza Fiamminga (N-VA). 

Reprimere, isolare, scoraggiare

Dunque dopo i verbi reprimere, isolare, deportare, ecco affiorarne un altro nella sempre più diffusa retorica anti-immigrazione: scoraggiare. Rendere la vita sempre più difficile a quelle persone che pure erano riuscite, a prezzo di indicibili sofferenze, a trovare un “approdo legale”. Rendere, per loro, inospitali i paesi di arrivo. E dunque privarli anche della vicinanza con le loro famiglie. «L’unità familiare è un valore nella nostra società, ma quando si tratta di famiglie straniere sembra che questo diventi meno importante, meno prezioso», ha commentato Federica Toscano, di Save the Children Europe. Il magazine The New Humanitarian sintetizza così la situazione attuale: «Attraverso i confini e gli oceani, i viaggi dei rifugiati continuano, spinti da conflitti, persecuzioni e mancanza di sicurezza. Tuttavia, le risposte globali sono sempre più concentrate non a garantire protezione, ma a prevenire i movimenti. Mentre la retorica rimane umanitaria, la realtà è un crescente investimento nel contenimento, nella deterrenza e nel controllo. L’infrastruttura di protezione dei rifugiati è stata riorganizzata per impedire alle persone di spostarsi, non per aiutarle a sopravvivere allo sfollamento. Questo cambiamento non è solo una deriva politica, è una scelta politica. Un problema che riflette un dilemma più profondo: i rifugiati sono erroneamente trattati come una crisi, mentre la vera crisi è un sistema che considera la protezione della vita umana come facoltativa e l’arresto dei movimenti attraverso le frontiere come essenziale». E nell’elenco dei paesi che puntano a rendere sempre più severe le regole per l’accoglienza degli immigrati, è necessario includere il Regno Unito (che con i precedenti governi conservatori ha tentato in ogni modo di “legalizzare” la loro deportazione in Rwanda), il Portogallo (la formazione di estrema destra Chega ha tentato di seguire l’esempio di Austria e Germania, chiedendo al governo di “sospendere temporaneamente i ricongiungimenti familiari almeno fino a quando l’emergenza migratoria non sarà risolta”: richiesta respinta, per ora), la Svezia (che vorrebbe pagare 350mila corone svedesi, poco più di 30mila euro, gli immigrati che decidono di lasciare volontariamente il paese). Ma anche l’Italia, che con il governo delle destre si sta distinguendo per aver aperto i controversi centri di detenzione e di rimpatrio in Albania, e per aver raddoppiato i tempi minimi di attesa (da uno a due anni di “soggiorno legale e ininterrotto”) per poter richiedere il ricongiungimento familiare. 

L’economia europea non può crescere senza i migranti Christine Lagarde

E tutto questo mentre voci alte e autorevoli continuano ad alzarsi, anche se con meno clamore, per difendere l’attuale impianto (senza alcun dubbio migliorabile) basato sulla solidarietà, sull’accoglienza, sul rispetto dei diritti umani. Come quella di Filippo Grandi, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), che in un recente articolo pubblicato su The Economist spiega: «Il dibattito sull’asilo e l’immigrazione è emotivo, divisivo e altamente politicizzato. I molti critici dei moderni sistemi di asilo sostengono che stanno fallendo. Alcuni chiedono di eliminare del tutto l’asilo e di abbandonare la Convenzione delle Nazioni Unite sui rifugiati, che garantisce il diritto di cercare sicurezza all’estero. Tali richieste sono sconsiderate e controproducenti. Smantellare il sistema di asilo non solo negherebbe la protezione salvavita a chi ne ha bisogno, ma farebbe poco o nulla per migliorare la situazione alle frontiere dei paesi di accoglienza. Il principio dell’asilo, sostenuto dai principi della Convenzione, ha salvato innumerevoli vite. Dobbiamo preservare e rafforzare i sistemi esistenti, non rottamarli». Un’altra voce è quella di Christine Lagarde, presidente della Banca Centrale Europea, che affronta il tema da un punto d’osservazione strettamente economico, come il suo ruolo impone: «L’economia europea non può crescere senza i migranti» ha sottolineato Lagarde, intervenendo al simposio annuale della Federal Reserve americana. «I lavoratori stranieri hanno generato la metà della crescita dei posti di lavoro del blocco dal 2022, ma la reazione populista potrebbe limitare sempre più gli afflussi e, di conseguenza, i guadagni futuri».

L’argine legale della Corte di Giustizia UE

E laddove la politica non riesce (o non vuole) più intervenire ecco che a resistere sono gli “argini legali”, vale a dire l’esatta applicazione delle norme già esistenti, che non possono essere interpretate a seconda della convenienza. Da segnalare al proposito una sentenza della Corte di Giustizia Europea (CGUE) che all’inizio di agosto è intervenuta per definire i criteri in base ai quali gli Stati membri possono definire “sicuri” i paesi di provenienza dei migranti, e dunque procedere con i rimpatri (per l’Italia sono paesi “sicuri”, tra gli altri, Bangladesh e Tunisia; per la Germania Georgia e Moldavia). Ebbene, la Corte di Giustizia Europea ha stabilito che in base all'attuale diritto dell’UE, un paese non può essere designato come “sicuro” se non soddisfa gli standard di protezione per tutta la sua popolazione, e non per una sola parte. E che, pur riconoscendo in linea di principio la legittimità delle procedure di asilo accelerate, per inserire una nazione in quella lista “servono prove rigorose e trasparenti, soggette a un controllo giurisdizionale”. Insomma, che non basta il “fai da te”. La presidente del Consiglio italiana non l’ha presa bene: ha definito la sentenza «sorprendente», perché a suo dire priva i governi eletti degli strumenti necessari per combattere l’immigrazione illegale di massa e difendere i confini.

Ma la questione non riguarda soltanto l’Europa: le politiche migratorie sono sottoposte a crescenti pressioni in ogni angolo del mondo. Negli Stati Uniti, per fare l’esempio più eclatante, la Casa Bianca ha sospeso il programma di ammissione dei rifugiati a partire dal 27 gennaio 2025. Con il presidente Trump che dopo aver stanziato 46 miliardi di dollari per proseguire con la costruzione del muro di confine con il Messico ha pensato bene di ordinare che sia completamente dipinto di nero, così da renderlo “più caldo e più difficile da scalare”. L’amministrazione americana sta inoltre pianificando di installare non meglio definite “infrastrutture acquatiche” lungo il Rio Grande, che costituisce più della metà del confine tra Usa e Messico. Un tema complesso, soprattutto se si osserva nella sua interezza. Come ha sostenuto Zsolt Kapelner, ricercatore presso l’Università di Oslo, in un saggio pubblicato lo scorso anno: «Il sentimento anti-immigrati ha giocato un ruolo importante nella recente avanzata di politiche illiberali e antidemocratiche, ad esempio il populismo di estrema destra. In molti paesi, forze politiche illiberali e antidemocratiche hanno danneggiato o minacciano di danneggiare il corretto funzionamento delle istituzioni democratiche. I politici dovrebbero cercare di scongiurare questa minaccia attuando una politica di immigrazione più restrittiva? Se lo fanno, possono esporre gli immigrati a un’esclusione ingiusta. Se non lo fanno, possono rischiare una disfunzione democratica, persino un fallimento democratico. La politica dell'immigrazione pone un “dilemma democratico” di non semplice soluzione».

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