SOCIETÀ
Strategia nazionale di lungo periodo sulla riduzione delle emissioni dei gas a effetto serra
Foto di Kindel Media: Pexel
Partiamo da un presupposto: entro il 2050 dobbiamo arrivare al Net Zero, cioè dobbiamo bloccare drasticamente le emissioni di gas serra. L’obiettivo di divenire climaticamente neutrali è il cuore del Green Deal europeo ed è un target giuridicamente vincolante grazie alla legge europea sul clima.
Per farlo ogni Stato ha messo in campo diversi strumenti e modalità. Il Ministro dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica italiano, Gilberto Pichetto Fratin, nella relazione allegata al DEF 2024, cioè il Documento di Economia e Finanza, ha dichiarato che “per quanto riguarda il percorso di decarbonizzazione nazionale, pertanto, nel quadro dell’NDC europeo, esistono strumenti di pianificazione di breve e lungo periodo di cui si è dotata l’Italia, sempre secondo quanto stabilito nel Regolamento EU sulla Governance per Energy Union”.
Questi strumenti sono: il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (PNIEC) e la Strategia nazionale di lungo periodo sulla riduzione delle emissioni dei gas a effetto serra.
Il primo l’abbiamo già lungamente analizzato in un altro approfondimento della serie “Sostenibilità di carta”, il secondo invece nasce nel gennaio 2021, quando l’allora ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare, aveva pubblicato appunto tale strategia. Il documento è il frutto della collaborazione, avviata nel 2019, tra diversi Ministeri ed è basato su studi ed analisi di un gruppo di lavoro tecnico cui hanno partecipato ISPRA, RSE, GSE, Politecnico di Milano, ENEA e CMCC.
La Strategia nazionale di lungo periodo sulla riduzione delle emissioni dei gas a effetto serra “individua i possibili percorsi per raggiungere, nel nostro Paese, al 2050, una condizione di “neutralità climatica”, nella quale le residue emissioni di gas a effetto serra sono compensate dagli assorbimenti di CO2 e dall’eventuale ricorso a forme di stoccaggio geologico e riutilizzo della CO2 ”.
Lo scenario di riferimento entro cui si staglia tale strategia è proprio quello delineato dal PNIEC, a cui si aggiungono gli effetti previsti dei cambiamenti climatici e tutte le considerazioni intrinseche alla popolazione, quindi sia dal punto di vista economico del PIL che demografico, previste dall’Istat.
La strategia nazionale parte poi da dei presupposti chiari. Il primo, messo nero su bianco, è quello che nei prossimi anni ci sarà “una riduzione spinta della domanda di energia, connessa in particolare ad un calo dei consumi per la mobilità privata e dei consumi del settore civile”. Oltre a ciò si prevede anche un cambio radicale nel mix energetico a favore delle rinnovabili, ”unito ad una profonda elettrificazione degli usi finali e alla produzione di idrogeno, da usare tal quale o trasformato in altri combustibili, anche per la decarbonizzazione degli usi non elettrici”. Infine la terza premessa da cui parte la Strategia nazionale è “un aumento degli assorbimenti garantiti dalle superfici forestali (compresi i suoli forestali) ottenuti attraverso la gestione sostenibile, il ripristino delle superfici degradate e interventi di rimboschimento”.
Una strategia pensata e scritta nel 2020, in un’era pre-Covid e pre guerra russa in Ucraina, due fatti che han cambiato drasticamente la situazione socio-economica, e non solo del nostro paese naturalmente. Cerchiamo però comunque di capire cosa c’è all’interno di questa strategia. Il contesto è quello di una riduzione delle emissioni nazionali di circa il 17% dal 1990 al 2018 e qui entra in gioco il Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima. Nel PNIEC si parla di crescita delle fonti rinnovabili (30% sui consumi finali), di miglioramento dell’efficienza energetica (-43% rispetto a quello che viene definito Scenario tendenziale, che è basato sullo Scenario PRIMES del 2007 ) e alla riduzione delle emissioni di gas serra, divise tra settori “ETS” e “non-ETS” (rispettivamente almeno -43% e -33% rispetto al dato del 2005). L’ETS, cioè Emission Trading System, è un sistema istituito da una direttiva del 2003 e inaugurato nel 2005. Come spiegato da Nicola Nosengo e Marco Boscolo su questo giornale, “lo EU-ETS ha avuto diversi aggiustamenti dalla sua istituzione nel 2005, ma il meccanismo fondamentale rimane sempre lo stesso. La Commissione Europea fissa, all’inizio di ogni ciclo (la fase 3, iniziata nel 2013, si conclude alla fine di quest’anno) il tetto alle emissioni di gas serra consentite agli stabilimenti produttivi (fabbriche e centrali energetiche, essenzialmente) di ciascun paese. Il tetto per ogni anno è inferiore a quello precedente, ed è deciso in base agli obiettivi collettivi di riduzione delle emissioni dell’Unione Europea. Il tetto per il 2013 era di 2.084.301.856 di tonnellate di anidride carbonica, e andava a scendere di circa 38 milioni di tonnellate ogni anno fino al 2020.
Questo tetto viene poi suddiviso in ”allowances”, ovvero autorizzazioni ad emettere una tonnellata di CO2. Nel conto sono comprese diversi tipi di emissioni, in particolare anidride carbonica, ossidi di azoto, PFC (perfluorocarburi). Ogni paese membro ne riceve una certa quantità, e li ridistribuisce agli operatori industriali sul proprio territorio. Una parte delle allowances sono concesse gratuitamente: in particolare buona parte di quelle per il settore manifatturiero e praticamente tutte quelle al settore del trasporto aereo. Le altre vengono messe all’asta, lasciando che siano gli stessi acquirenti a decidere il prezzo. E generando un gettito (3 miliardi di euro, nell’asta del 2013) in gran parte utilizzato per finanziare interventi e ricerca su energie rinnovabili ed efficienza energetica”.
Date queste premesse rimane il fatto che circa il 70% delle emissioni residue al 2050 derivi da “usi energetici”, cioè dal settore dei trasporti, che è il primo in termini di emissioni (circa il 30% del totale), e dal settore industriale (circa il 25% del totale). Oltre a ciò, come dichiarato anche nel PNIEC, c’è una “sostanziale difficoltà a comprimere le emissioni da agricoltura/zootecnia e da processi industriali”.
Difficoltà che però dev’essere risolta e la Strategia Nazionale di lungo periodo sulla riduzione delle emissioni dei gas a effetto serra prevedeva di mettere in atto un “cambio del “paradigma energetico italiano”. Cambio che è necessario ma soprattutto inevitabile.
La Strategia quindi vuole individuare i possibili percorsi per raggiungere la “neutralità climatica” nel 2050. Quali sono? Alcuni li abbiamo già delineati, per gli altri è bene capire prima come vengono prodotti. Intanto è bene ricordare, ancora una volta, che l’elaborazione degli scenari su cui poi ragionare per gli eventuali percorsi di decarbonizzazione, sono stati elaborati ad inizio 2020, quindi con i dati storici consolidati più recenti relativi al 2017 e in parte al 2018. Sembrano pochi anni ma tutto è cambiato.
Lo scenario di riferimento di questa Strategia ha tre punti chiave: il raggiungimento degli obiettivi previsti dal PNIEC, l’aggiornamento dei principali driver (tra questi quelli demografici ed economici) con i dati più recenti al 2019 e l’integrazione degli effetti dei cambiamenti climatici, in termini di variazioni potenziali dei gradi giorno, di resa delle colture e di frequenza degli incendi.
C’è poi lo scenario, che chiameremo di decarbonizzazione, che è esattamente quello che come fine ultimo ha la neutralità delle emissioni.
Parlando nel concreto vediamo come la generazione di energia elettrica e calore nello scenario di riferimento dovrebbe essere prodotta per circa l’83% da fonti rinnovabili, rispetto all’attuale 40% e 65% nel 2030. Come scritto anche nel PNIEC si prevede che il tasso medio annuo di incremento della produzione elettrica dal 2019 al 2050 dovrebbe essere dello 0,5%. Come abbiamo ribadito queste sono tutte proiezioni effettuate in un’epoca pre-covid e con una discreta stabilità internazionale, rispetto all’attuale.
Parlando di emissioni poi, sappiamo che dobbiamo arrivare alla neutralità, e per farlo il documento indica quattro diverse vie. La prima è lo switch da combustibili fossili ai combustibili rinnovabili quali idrogeno, bioenergie e fuel sintetici (prodotti dalla cattura e utilizzo della CO2 generata dalle bioenergie), la seconda è l’elettrificazione spinta dei consumi, la terza il ricorso a cattura e stoccaggio della CO2 (CCS) mentre la quarta è una ricerca di nuove opzioni per l’economia circolare.
Nello scenario di riferimento le emissioni da generazione elettrica e calore nel 2050 ammontano a circa 21 MtCO2eq a fronte delle 95 MtCO2eq registrate nel 2019. Tutto cambia però nello scenario di decarbonizzazione. In questo caso tutto dovrà essere più elettrificato.
La prima via quindi è abbastanza segnata e chiara: in base allo Scenario di decarbonizzazione i consumi di fonti fossili del settore industriale potrebbero ridursi del 50-60% rispetto allo Scenario di riferimento, arrivando a rappresentare il 15-20% del totale e nel lungo periodo, il gas naturale dovrebbe contrarre la quota di consumo fino a contribuire al 10% del totale della domanda di energia dell’industria. Il documento è chiaro anche quando fa emergere che “il grado di questa sostituzione, come già detto, è a sua volta funzione delle opzioni tecnologiche che vengono adottate in alcuni comparti produttivi, a cominciare dalla siderurgia. In particolare, l’idrogeno è il vettore energetico alternativo che presenta la maggiore variabilità: nel caso in cui si consideri una completa sostituzione dell’acciaio integrato con preridotto e forni a idrogeno (DRI-H2), la domanda di questo vettore potrà superare il milione di tonnellate equivalenti di petrolio, e permettere la rinuncia ai grossi impianti di cattura e stoccaggio della CO2 associati al settore nel caso in cui si continui ad utilizzare una tecnologia tradizionale o anche il preridotto con gas naturale (DRI-CH4)”. Insomma l’idrogeno viene considerata una valida opzione per la sostituzione del gas naturale in tutte le applicazioni ad alta temperatura di processo.
La seconda via, cioè l’elettrificazione dei consumi, ci dice che “al 2050 può essere significativa anche l’elettrificazione degli usi termici a diversi livelli di temperatura, dalla produzione di calore a basse temperature (pompe di calore industriali) fino alla produzione di calore ad alta temperatura grazie alla diffusione di forni di fusione ad induzione, tecnologie al plasma o a raggi infrarossi e microonde da utilizzare nei processi dei principali settori quali acciaio, cemento e vetro”.
L’uso dell'elettricità nell'industria quindi, potrebbe salire fino a coprire anche oltre il 50% del totale dei consumi.
C’è poi il tema dello stoccaggio della CO2. I modelli infatti hanno mostrato che, fermo restando l’aumento del fotovoltaico e dell’eolico, dell’utilizzo dei biocombustibili, molto probabilmente saremo costretti a ricorrere a tecnologie di cattura della CO2, più specificatamente detto CCS. La CCS è la cattura e stoccaggio di carbonio, e, detta in modo semplice, è quel processo di cattura della CO2 che viene iniettata sotto terra. Secondo la Strategia, nei settori dell’acciaio e del cemento si potrebbe arrivare a “catturare” 10-20 milioni di tonnellate di CO2 equivalente.
Andando più nello specifico vediamo come le principali tecnologie CCS siano le centrali elettriche con cattura postcombustione e le centrali elettriche con cattura in oxycombustione. Nelle prime la separazione della CO2 è basata sull’utilizzo di solventi basici ed è aggiunta in uscita alla linea di trattamento fumi, senza modificare il processo di combustione e la configurazione della centrale. Una soluzione che può essere adatta per le centrali elettriche esistenti e comporterebbe un calo significativo del rendimento delle centrali (fino a circa 7-10 punti %). Questo è dovuto ai consumi energetici del processo di cattura e ai consumi elettrici per la compressione della CO2 catturata. Inoltre il Politecnico di Milano mette in luce che “durante la cattura non viene intercettata la totalità della CO2 presente nei fumi: tipicamente il target è attorno al 90%, anche se è possibile arrivare al 99% a fronte di maggiori costi”.
La seconda tecnologia invece utilizza l’ossigeno come comburente e separa il vapore acqueo dalla CO2 semplicemente raffreddando i fumi. La proiezione del Politecnico di Milano ci dice che “oltre il 98% della CO2 presente nei fumi può essere catturata. A monte della combustione, deve essere aggiunto un impianto di cattura dell'ossigeno dall'aria che consuma elettricità. Ne consegue un calo del rendimento di centrale (da 4 a 10 punti %) rispetto alle centrali tradizionali”.
“Il ricorso alla CCS - si legge però nel documento - è comunque da considerarsi eventuale e richiede che, via via, siano effettuati diversi ordini di verifiche e valutazioni”, valutazioni che dovrebbero basarsi, in primis, sulla localizzazione dei siti sicuri per lo stoccaggio e la predisposizione di adeguati piani di conferimento dell’anidride carbonica.
C’è infine la quarta via, cioè quella che porta all’intensificazione dell’economia circolare. In questo caso nel documento della Strategia nazionale di lungo periodo sulla riduzione delle emissioni dei gas a effetto serra ci si rifà al “Piano d'azione per l'economia circolare”, adottato dalla Commissione Europea l’11 marzo 2020 e che vede la decarbonizzazione delle industrie ad alta intensità energetica, quindi quelle del cemento, dell’acciaio e dei prodotti chimici, come essenziale in un percorso verso la neutralità climatica.
Nel documento si ribadisce che “la spinta all’economia circolare può trarre vantaggio, inoltre, dallo sviluppo di sistemi più efficienti non solo di riciclo ma anche di rigenerazione, riuso e riparazione dei beni, facilitando la manutenzione dei prodotti e aumentandone la durata di vita, spingendo gli operatori, a concepire a tal fine i prodotti. In tale prospettiva, è importante la promozione di strumenti economici e fiscali per creare adeguati incentivi all’adozione di modelli di produzione e consumo circolari e sostenibili nonché azioni di comunicazione e sensibilizzazione tese ad informare i cittadini sui nuovi modelli di consumo. In tale prospettiva la bioeconomia, ovvero il sistema socio-economico che interconnette le attività economiche che utilizzano biorisorse rinnovabili del suolo e del mare per produrre cibo, composti chimici, materiali, fertilizzanti ed energia, costituisce un elemento fondamentale dell’economia circolare. Oltre a basarsi su risorse rinnovabili, la bioeconomia alimenta il “ciclo biologico” ovvero il recupero e la valorizzazione della materia e dell’energia degli scarti organici dei processi di produzione e consumo. In tale prospettiva potrà giocare un ruolo chiave nella tutela e rigenerazione dei suoli, contribuendo anche all’assorbimento della CO2 dall’atmosfera”. Insomma, l’importanza dell’economia circolare è cruciale per il processo di decarbonizzazione, ma la Strategia non detta linee guida precise e puntigliose.
Cerchiamo quindi di riassumere questa Strategia. Con le premesse che si deve andare verso uno scenario di decarbonizzazione, che i consumi finali devono scendere sensibilmente, di circa il 40% rispetto a quelli attuali, sappiamo che, oltre a ciò che delinea il PNIEC, “lo sforzo aggiuntivo deve essere concentrato soprattutto nel settore residenziale, commerciale e in quello dei trasporti. Nel primo caso il “tasso annuale di riqualificazione” degli immobili, con interventi di ristrutturazione edilizia prevalentemente di tipo “profondo”, deve accelerare sensibilmente. Gli obiettivi al 2030 del PNIEC infatti richiedono un tasso dello 0,9% per il residenziale, mentre per il 2050 sarà necessario salire fino a circa il 2%.
Nel secondo caso, “si prevede un ulteriore ampliamento della quota del fabbisogno di mobilità privata coperto dal trasporto pubblico o condiviso, con una riduzione significativa del parco auto circolante e, lato merci, si rende necessaria una più efficace logistica”.
Nel settore dell’industria non-energetica invece dalla Strategia sono stati esclusi tagli di produzione significativi, e dunque la domanda resta essenzialmente invariata perché già “efficientata” nello Scenario di riferimento, dove si considerano attivi schemi per dare un prezzo (elevato) alla CO2 emessa.
Se questa era la “domanda” di energia, guardiamo concretamente ai dati che escono dalla Strategia per quanto riguarda l’offerta.
Entro il 2050 la produzione elettrica deve più che raddoppiare rispetto a quella attuale e collocarsi a 600-700 TWh con una quota coperta da rinnovabili compresa tra il 95% e il 100%. Questa forbice è dovuta dal fatto che si adotti o meno l’ipotesi di abbandono completo delle fossili sia nella generazione di elettricità che nella siderurgia. Un risultato necessario ma ambizioso che, si legge nel documento, “è raggiungibile grazie al dispiegamento di fonti sinora non sfruttate, innanzitutto l’eolico off-shore, e, ragionando sulla base delle tecnologie disponibili, ad un eccezionale sviluppo del solare: la capacità fotovoltaica istallata stimata al 2050 varia tra i 200 e i 300 GW (cioè 10-15 volte quella attuale)”.
L’incremento esponenziale della produzione da fonti rinnovabili ha poi due necessità: l’adeguamento della rete elettrica e lo sviluppo di sistemi di accumulo centralizzati e distribuiti. La Strategia quantifica questo accumulo “a 30-40 GW, cioè 4-5 volte il livello già incorporato nel PNIEC al 2030”.
Nelle conclusioni della Strategia infine c’è una frase tanto importante quanto allarmante, anche vista quattro anni dopo la stesura del documento. “È tuttavia auspicabile un cambio di atteggiamento da parte dei diversi livelli istituzionali, dei cittadini e delle imprese, in quanto troppo spesso il percorso verso la decarbonizzazione, già solo in vista degli obiettivi 2020, incontra molte resistenze - si legge -. Queste resistenze, pur motivate dalla difesa di altri legittimi interessi, dovrebbero attenuarsi sulla base di una maggiore condivisione della necessità di procedere convintamente sulla strada della transizione. Inoltre, occorrerà che il concetto di “transizione giusta” sia continuamente e concretamente declinato in misure che distribuiscano in modo equo vantaggi e costi, senza lasciare indietro coloro che dalla transizione potranno essere spiazzati”