SOCIETÀ

Sostenibilità dell’agricoltura europea: problemi dietro la retorica

Il 21 ottobre il Parlamento Europeo ha dato il via libera alla riforma delle Pac, le politiche agricole comuni: 387 miliardi di euro che finanzieranno il settore agricolo europeo per i prossimi 7 anni (dal 2021 al 2027).

Il pacchetto di emendamenti è stato votato favorevolmente dai tre principali gruppi di maggioranza parlamentare (Partito popolare europeo, Socialisti e Democratici, Renew Europe). È previsto ad esempio che il 20% degli aiuti diretti venga allocato dagli Stati membri per politiche verdi attraverso i cosiddetti ecoschemi, tra cui si includono pratiche come agricoltura di precisione, agroforestale e agricoltura biologica. Almeno il 30% dei finanziamenti invece dovrebbe sostenere gli agricoltori per la lotta al cambiamento climatico, la gestione sostenibile delle risorse naturali e la tutela della biodiversità.

Ma una bocciatura sonora della riforma è arrivata dal gruppo dei Verdi, secondo i quali non si allineerebbe minimamente agli obiettivi del Green Deal Europeo in tema sostenibilità, sia per quanto riguarda gli obiettivi agricoli del programma Farm to Fork, sia per quanto riguarda la strategia di tutela della biodiversità 2030, sia per quanto riguarda gli obiettivi climatici di riduzione delle emissioni.

Quella che è stata approvata dagli eurodeputati infatti è una proposta avanzata nel 2018 quando il presidente della Commissione europea era Juncker e Ursula von der Leyen non aveva ancora lanciato il Green Deal.

Alle lamentele delle associazioni ambientaliste come GreenPeace, che in particolare denuncia misure in favore di agricoltura e allevamenti intensivi e a danno dei piccoli agricoltori, e Wwf, che denuncia la volontà di togliere il divieto di arare e convertire in prati permanenti i siti della rete Natura 2000, si unisce anche Greta Thunberg, che dal suo account Twitter lancia un appello per far ritirare l’accordo sulle Pac, definite una resa sul fronte climatico e ambientale.

Il voto del Parlamento Europeo tuttavia non mette la parola fine al processo legislativo. Ora prenderà il via il trilogo, ovvero i negoziati a tre con Commissione e Consiglio europeo, che dovrà concludersi a inizio 2021. Le nuove Pac dovrebbero entrare in vigore nel 2023, dopo due anni di regolamentazione transitoria.

Le politiche agricole europee tuttavia non ricevono critiche solo dai movimenti ambientalisti. Un gruppo di ricercatori del Karlsruhe Institute of Technology di Garmisch-Partenkirchen in Germania, in un recente intervento su Nature ha messo in luce contraddizioni più strutturali, senza riferirsi direttamente alle Pac appena votate, che in qualche modo avrebbero la scusante (se così si può dire) di essere vecchie di due anni. Puntano invece il dito proprio contro il piano strategico agricolo che dovrebbe andare sotto l’ombrello del nuovo Green Deal. “Dietro alla retorica si nascondono diversi problemi” scrivono.

Se dal 1990 al 2014 le foreste europee hanno testimoniato un’espansione del 9% (quasi 13 milioni di ettari), nel mondo 11 milioni di ettari sono stati deforestati per soddisfare la domanda di consumi europea Fuchs et al. 2020, Nature

Per importazioni di prodotti agricoli l’Europa è seconda solo alla Cina. Lo scorso anno il vecchio continente ha importato il 20% delle colture (118 milioni di tonnellate) e il 60% della carne e dei prodotti caseari (45 milioni di tonnellate) che ha consumato. Ciò consente di tenere basso l’impatto ambientale di agricoltura e allevamento europei, ma a un costo. “Le importazioni provengono da Paesi in cui le leggi a protezione dell’ambiente sono più lasche di quelle europee. E gli accordi commerciali non prevedono che le importazioni siano prodotte rispettando i criteri di sostenibilità” scrivono Richard Fuchs e colleghi.

Un esempio viene dall’accordo commerciale stipulato nel 2019 (ma non ancora ratificato) tra Europa e Mercosur, il mercato comune dell’America del Sud. Dal 1986 al 2016 la domanda europea di semi oleosi (semi che producono oli, impiegati maggiormente in mangimi animali e biodiesel) è raddoppiata. La produzione nostrana copre solo il 7% della domanda del continente, principalmente con colture di colza, girasole e oliva. Circa il 90% viene importato attraverso semi di soia e olio di palma (estratto dai semi o dal frutto della pianta) e il Brasile è il maggior fornitore. L’accordo commerciale con il Brasile è stato siglato poco dopo che il suo presidente Jair Bolsonaro “aveva fatto marcia indietro sulle regolamentazioni a tutela dell’ambiente e dei diritti delle popolazioni indigene locali”.

Secondo i ricercatori di Garmisch, dal 1990 le importazioni agricole europee sono responsabili di un terzo della deforestazione legata al commercio globale. Viene stimato che 9 milioni di ettari sono stati deforestati dal 1990 al 2008, gran parte dei quali nell’Amazzonia brasiliana e nel Cerrado (la savana tropicale brasiliana) per rispondere alla domanda europea di semi oleosi. Il quadro regolamentare che consente questi scambi resterà invariato, secondo gli autori, anche sotto l’egida del Green Deal: “la direttiva sulle energie rinnovabili, ad esempio, ritiene sostenibili le colture provenienti da terreni deforestati prima del 2008”.

Se quindi dal 1990 al 2014 le foreste europee hanno testimoniato un’espansione del 9% (quasi 13 milioni di ettari, un’area grande come la Grecia), nel mondo 11 milioni di ettari sono stati deforestati per soddisfare la domanda di consumi europea. Tre quarti di questa deforestazione è associata a colture di semi oleosi, prodotti in Brasile e in Indonesia, regioni stracolme di biodiversità e al contempo dotate delle maggiori capacità di assorbimento di anidride carbonica al mondo.

La tesi dei ricercatori di Garmisch è dunque che l’Europa si prende il merito delle politiche verdi casalinghe, ma nel bilancio di sostenibilità globale di fatto esternalizza il danno ambientale.

Anche per quanto riguarda l’uso di pesticidi e fertilizzanti l’Europa secondo gli autori usa due pesi e due misure: ciò che è vietato sul suolo continentale è permesso nei terreni da cui vengono importati i prodotti.

L’Europa ad esempio importa molta soia e mais geneticamente modificati da Brasile, Argentina, Stati Uniti e Canada (in Europa le colture Ogm sono vietate in molti Stati dal 1999). Gran parte di queste colture sono resistenti a erbicidi, come il glifosato. Sulla soia gli Stati Uniti usano una quantità di fertilizzante pari a 34 kg per tonnellata, più del doppio della quantità consentita in Europa, 13 kg per tonnellata. Il Brasile dal 1990 è passato da circa 30 kg per tonnellata a circa 60 kg per tonnellata nel 2014. “L’uso di pesticidi in Brasile ha portato a una drammatica moria di api e di insetti impollinatori”, denunciano gli autori.

Il Green Deal, e in particolare l’iniziativa Farm to Fork, sono destinati a trasformare l’agricoltura europea nella prossima decade. Si dovrà ridurre l’uso di fertilizzanti del 20% e quello di pesticidi del 50%; un quarto dei terreni dovrà ospitare colture biologiche entro il 2030, 3 miliardi di alberi dovranno venire piantati e 25.000 km di fiumi dovranno venire ripristinati. Sono obiettivi ambiziosi e opportuni, sottolineano gli autori, ma uno sforzo altrettanto adeguato non è stato messo in campo sul fronte commerciale. Non esistono leggi, meccanismi o criteri adeguati che controllino che gli standard di sostenibilità vengano rispettati anche dai prodotti importati.

Molto è lasciato al sistema delle certificazioni sviluppate da industrie accreditate presso l’Unione Europea e a cui ciascuna azienda può aderire in via volontaria. Una di queste è la European Compound Feed Manufacturers’ Federation (FEFAC) in Belgio. Altre aziende invece autocertificano la sostenibilità della propria attività, come la statunitense Cargill (con il marchio “tripla S”: sustainably sourced and supplied) o la brasiliana Amaggi, specializzata in soia. Nel 2017 però solo il 22% della soia consumata in Europa era certificata secondo i criteri Fefac, riportano gli autori, che propongono pertanto alcune misure per colmare queste lacune.

L’Europa si prende il merito delle politiche verdi casalinghe, ma nel bilancio di sostenibilità globale di fatto esternalizza il danno ambientale Fuchs et al. 2020, Nature

L’Unione Europea naturalmente non può imporre la propria giurisdizione a Stati non membri, “ma può pretendere che i beni che entrano nel mercato europeo rispettino le regole europee. Questo può incoraggiare i produttori esterni ad alzare i propri standard al livello europeo; alcuni produttori in Brasile lo stanno già facendo”.

L’equilibrio tra produzione sostenibile e soddisfazione della domanda alimentare è un compromesso difficilissimo da trovare. Quasi certamente deve comportare una riduzione dei consumi, di carne in particolare e prodotti derivanti da allevamento, come sottolineano Fuchs e colleghi. Ridurre l’importazione significa dover aumentare la produzione interna, andando a discapito del consumo di suolo. È pertanto indispensabile investire in sistemi produttivi che garantiscano massima efficienza. La ricerca e la tecnologia possono dare una grande mano su questo fronte.

Da un lato ci sono tecniche di editing genomico come Crispr (fresca di premio Nobel) che potrebbero rendere più performanti le colture e che vengono già ampiamente utilizzate sia in America sia in Cina, mentre in Europa le regolamentazioni sugli Ogm ne vietano l’utilizzo a scopi agricoli. Dall’altro ci sono le tecnologie satellitari e di intelligenza artificiale che promettono di sviluppare l’agricoltura di precisione, su cui l’Europa invece ha volontà di puntare.

Oltre però agli investimenti in innovazione, l’Europa dovrebbe fare una valutazione dell’impatto ambientale del commercio agricolo su scala globale, concludono i ricercatori di Garmisch: “ogni cittadino europeo in media ‘importa’ circa una tonnellata di anidride carbonica all’anno in beni che entrano nel mercato europeo. Il Green Deal rischia di perpetuare questo errore”.

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