La firma dell'accordo. Foto: Reuters
Il 29 febbraio l’ambasciatore americano Zalmay Khalilzad e il capo talebano mullah Abdul Ghani Baradar hanno firmato a Doha l’accordo per la fine della guerra in Afghanistan, alla presenza del segretario di Stato americano Michael Richard Pompeo, dei leader di India, Indonesia, Pakistan, Qatar, Tajikistan, Turchia e Uzbekistan e di molti delegati internazionali.
I termini fondamentali dell’accordo prevedono il ritiro graduale delle forze della NATO, l’impegno da parte talebana di “non permettere ai propri membri, altri individui o gruppi, incluso al-Qaida, di utilizzare il suolo afgano per minacciare la sicurezza degli Stati Uniti e dei suoi alleati” e di iniziare colloqui con “le altre parti” afgane per definire il futuro assetto del paese e per la cessazione delle ostilità.
Va notato che i talebani hanno imposto l’esclusione dai negoziati del governo della Repubblica islamica dell’Afghanistan; un effetto collaterale dell’accordo è che i talebani vengono formalmente riconosciuti dai paesi occidentali, mentre essi continuano a non riconoscere il governo di Kabul, che non viene mai nominato nel testo dell’accordo.
La firma dell'accordo
Contemporaneamente, il segretario americano della difesa Mark Esper e il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg hanno incontrato a Kabul il presidente afgano Ashraf Ghani per riassicurarlo sull’impegno occidentale al raggiungimento di una pace per il beneficio di “tutti” gli afgani e per la stabilità regionale. Esper ha dichiarato gli USA pronti a annullare l’accordo con i talebani qualora questi non onorino i loro impegni e Stoltenberg ha assicurato Ghani che la NATO “manterrà il suo impegno a sostenere le forze di difesa e sicurezza governative e a lavorare a fianco del governo a supporto dei prossimi passi verso la pace”.
La firma è seguita a una settimana di “riduzione di violenza a livello nazionale”, concordata fra gli USA e i talebani lo scorso 21 febbraio come misura per la creazione di fiducia reciproca e condizione per la firma dell’accordo di pace. Il presidente afgano aveva accettato la tregua in occasione della conferenza sulla sicurezza di Monaco.
La lunga e sanguinosa guerra Afgana
A seguito degli attacchi terroristici di al-Qaida del settembre 2001 e al rifiuto dell’Emirato islamico creato dai talebani di consegnare Osama bin Laden e smantellare le basi di al-Qaida, gli USA e forze alleate (compresa la NATO) invasero l’Afghanistan (operazione Enduring Freedom), costringendo i talebani a disperdersi e iniziare una lotta di resistenza contro il nuovo governo del paese, la Repubblica islamica istituita nel 2004, e le forze alleate.
Nel tentativo di sconfiggere definitivamente i talebani, dal 2010 al 2012 Enduring Freedom si rafforzò raggiungendo 140 mila militari impegnati (100 mila americani), ma ottenne limitati risultati.
Dal 2015 le forze straniere (missione Resolute Support), formalmente, non sono più direttamente impegnate nella guerra ai talebani, ma hanno il compito di formazione e “assistenza” delle forze della Repubblica islamica nella guerra civile e svolgere operazioni antiterrorismo. Nel corso del 2019 hanno operato la più intensa campagna di attacchi aerei dell’inizio del conflitto.
Attualmente la NATO è presente con circa 16000 militari, 12-13 mila degli USA; accanto alla missione Resolute Support operano circa 20000 mercenari americani. La missione italiana è composta da 800 persone, 145 mezzi terrestri e 8 aerei, suddivisi fra Kabul e Herat, nella parte occidentale del paese. La componente principale proviene dalla 132a brigata corazzata Ariete dell’esercito, con personale e mezzi della marina e aeronautica militari e dei carabinieri, che assistono e curano la formazione della polizia afgana.
Foto: Esercito italiano
Globalmente gli USA hanno impiegato nella guerra oltre 775000 militari, alcuni ripetutamente, subendo 2348 morti e 20589 feriti in azione, con un impegno finanziario superiore a un bilione di dollari.
Si stima che la guerra dal 2001 abbia causato la morte di circa 157000 persone direttamente impegnate: 42100 fra talebani e altri insorti, 64000 membri delle forze di sicurezza governative, 3600 delle forze internazionali, fra cui 53 italiani, 3800 mercenari, 424 operatori umanitari e 67 giornalisti. A queste si aggiungono circa 100000 vittime civili, con 43000 decessi; dal 2014 al 2019 vi sono state ogni anno oltre 10000 vittime civili, con 3400 morti.
I passi verso l’accordo
Tentativi di composizione pacifica del conflitto afgano vennero avanzati da varie parti, in particolare dal presidente Hamid Kazai, a partire dal 2007 e intensificati dal 2010 anche con incontri segreti fra gli USA e i talebani, il cui allora comandante in seconda Baradar era particolarmente favorevole a contatti con gli americani. Le maggiori difficoltà erano costituite dal reciproco non-riconoscimento delle parti, la presenza di vari potentati locali, in conflitto fra di loro, e la preoccupazione dei paesi occidentali che i talebani volessero re-instaurare nel paese la stretta legge islamica imposta negli anni del loro governo, discriminando in particolare le donne e i minori e negando diritti umani essenziali.
Nel corso del 2017 si andava rafforzando presso la popolazione un diffuso consenso alla cessazione della guerra civile e il 27 febbraio 2018 il nuovo presidente Ashraf Ghani propose un coraggioso processo verso la pace con i talebani, non preso in considerazione dalla controparte. Il successivo 7 giugno Ghani e i talebani annunciarono un mutuo cessate il fuoco durante le celebrazioni dell’Eid alla fine del Ramadan; durante la tregua vi furono varie iniziative di gruppi pacifisti e rappresentanti talebani raggiunsero Kabul per colloqui con funzionari governativi.
Di fronte all’altissimo peso della guerra e al riconoscimento dell’impossibilità di sconfiggere i talebani sul campo, il presidente americano Donald Trump, anche in vista della prossima competizione elettorale, decise di ricercare un accordo con i talebani, per poter far rientrare le forze americane dall’Afghanistan, come promesso nella sua precedente campagna elettorale.
Nel luglio 2018 ufficiali americani iniziarono colloqui segreti con i talebani presso il loro ufficio politico di Doha; il 5 settembre fu nominato inviato speciale per l’Afghanistan l’ambasciatore Khalilzad, di origine afgana, che immediatamente intraprese negoziati con la delegazione talebana, guidata da Sher Mohammed Abas Stanekzai e Baradar, fatto liberare dagli americani dalla prigione pakistana ove era rinchiuso dal febbraio 2010.
Nel febbraio 2019, a Mosca ebbe luogo un incontro infra-afgano tra i talebani e altre figure afgane, fra cui Karzai, ma non membri del governo di Ghani. Dopo una nuova fase di colloqui tra americani e talebani, iniziati il successivo 25 febbraio Khalilzad dichiarò che era stata raggiunta una bozza di accordo di pace, prevedente il ritiro delle truppe internazionali e l’impegno talebano a non permettere operazioni di altri gruppi jihadisti nel e dal paese.
Il 12 agosto 2019, gli USA e i talebani completarono l’ottava fase di negoziati nel Qatar con la definizione dell’accordo; Khalilzad puntava all’approvazione finale prima delle elezioni presidenziali afgane, che si annunciavano di esito incerto fra la riconferma di Ghani e la nomina del suo rivale Abdullah Abdullah, capo del governo. Trump, tuttavia, cancellò i colloqui di pace a seguito di un attacco a Kabul, in cui rimasero uccisi un soldato americano e 11 civili. Negoziati ripresero nel dicembre 2019, e, nonostante la situazione di incertezza politica a seguito delle non decisive elezioni afgane, portarono alla definizione del presente accordo, da firmare appunto il 29 febbraio, previa una settimana di “riduzione della violenza a livello nazionale” da tutte le parti in conflitto.
Va ricordato che a creare i presupposti dell’inizio dei negoziati hanno contribuito anche varie organizzazioni non governative; in particolare il movimento Pugwash ha promosso più incontri negli ultimi anni con personalità delle parti interessate a Kabul, Islamabad e Doha, definendo una proposta di pace in 19 punti.
La tregua propedeutica
La settimana di “riduzione di violenza” si è svolta a partire dalla mezzanotte del 21 febbraio: dovevano sospendere le operazioni aggressive sia le forze governative e della coalizione internazionale sia quelle dei talebani, in ogni parte del paese.
Nei comunicati emessi simultaneamente delle due parti non si sono precisati i termini della “riduzione di violenza” (formulazione voluta dai talebani che hanno rifiutato un totale “cessate il fuoco”), ma in via ufficiosa è trapelato che i talebani sospendevano gli attacchi suicidi, i lanci di razzi e i bombardamenti e il posizionamento di mine nelle strade. Le forze della coalizione fermavano i bombardamenti aerei e terrestri, ma continuavano a compiere azioni di antiterrorismo contro gli affiliati di al-Qaida e del Daesh attivi nel paese.
La verifica della tregua fu affidata da parte americana al gen. Scott Miller, comandante delle forze statunitensi in Afghanistan, che attivò un canale di contatto con responsabili talebani per tenere sotto controllo la situazione e affrontare le evenienze.
Lo scopo della riduzione delle violenze era di creare un clima favorevole alla formulazione dell’accordo di pace, ma anche di verificare quanto i capi dei talebani siano in grado di controllare tutti i loro gruppi dispersi sul terreno e operanti in relativa autonomia. La tregua è stata sostanzialmente rispettata, a comprova dell’effettiva unità dei talebani e il controllo esercitato dai loro comandanti.
Negli ultimi mesi il paese veniva colpito da fra 50 e 80 attacchi quotidiani, con 30-40 morti, per cui una riduzione a una decina di eventi era già considerato un ottimo risultato. Il primo giorno della tregua vi sono stati 8 scontri, una mezza dozzina il secondo; il terzo giorno tre gravi incidenti hanno causato 7 vittime, fra cui 4 civili, inclusa una donna. Un altro caso violento si è avuto il giorno 26 quando un ordigno improvvisato è stato fatto esplodere a Kabul ferendo almeno 9 civili; i talebani hanno negato la loro responsabilità attribuendola a “forze oscure miranti al fallimento dell’accordo”. Le autorità afgane parlano di attacchi di bassa intensità in varie provincie.
Il presidente Trump ha dichiarato che la tregua è stata sostanzialmente rispettata e che pertanto si poteva procedere alla firma dell’accordo il giorno 29, come previsto.
I termini dell’accordo di pace
L’accordo già dal titolo sottolinea le difficoltà formali dei negoziati e l’asimmetria esistente
fra le parti: l’“Agreement for Bringing Peace to Afghanistan between the Islamic Emirate of Afghanistan which is not recognized by the United States as a state and is known as the Taliban and the United States of America” si articola in quattro parti correlate, ciascuna da implementare in conformità con la propria tempistica e i termini concordati.
L’accordo sulle prime due parti apre la strada alle ultime due parti. “Gli obblighi dell’emirato islamico dell’Afghanistan (che non è riconosciuto dagli Stati Uniti come stato ed è noto come i talebani) in questo accordo si applicano nelle aree sotto il loro controllo fino alla formazione e insediamento del nuovo governo islamico afgano, come determinato dal dialogo e dai negoziati infra-afgani.”
Il testo preciso delle quattro parti impone
1. Garanzie e meccanismi di applicazione che impediscano l’uso del suolo dell’Afghanistan da qualsiasi gruppo o individuo contro la sicurezza degli Stati Uniti e suoi alleati.
2. Garanzie, meccanismi di applicazione e definizione di un calendario per il ritiro di tutte le forze straniere dall’Afghanistan.
3. Dopo l’annuncio delle garanzie per un ritiro completo delle forze straniere e la definizione di una scale dei tempi con testimoni internazionali, e le garanzie e l’annuncio in presenza di testimoni internazionali che il suolo afgano non verrà utilizzato contro la sicurezza degli Stati Uniti e dei suoi alleati, i talebani avvieranno negoziati intra-afgani con le parti afgane il 10 marzo 2020.
4. Un cessate il fuoco permanente e completo sarà un punto all’ordine del giorno del dialogo e dei negoziati infra-afgani. I negoziati definiranno la data e le modalità del permanente e globale cessate il fuoco, compresi meccanismi di attuazione congiunti, che saranno annunciate insieme al completamento e all’accordo sulla tabella di marcia per il futuro politico dell’Afghanistan.
L’accordo precisa quindi i termini delle prime due parti. Per la seconda vengono precisati sei punti.
Gli USA si impegnano al ritiro dall’Afghanistan di tutto il personale non-diplomatico suo e della coalizione entro 14 mesi; entro 135 giorni le forze americane saranno ridotte a 8600 militari e quelle alleate in analoga proporzione, ritirandosi da 5 basi militari; verificato il rispetto da parte talebana degli obblighi della seconda parte, verrà completato il ritiro delle forze della coalizione nei successivi 9 mesi e mezzo.
Gli USA si impegnano immediatamente a lavorare con tutte le parti impegnate per definire un piano per il rapido rilascio di prigionieri militari e politici, come segno per costruire la fiducia reciproca. Fino a 5000 talebani e 1000 prigionieri delle altre parti saranno rilasciati entro il 20 marzo.
Con l’inizio dei negoziati infra-afgani, gli Stati Uniti procederanno a una revisione amministrativa delle attuali sanzioni statunitensi contro membri talebani con l’obiettivo di eliminarle entro il 27 agosto 2020 e si impegnano a far ritirare le sanzioni del Consiglio di
sicurezza delle Nazioni Unite contro personalità talebane entro il 29 maggio 2020.
Infine, gli Stati Uniti e i loro alleati si asterranno dalla minaccia o dall’impiego della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica dell’Afghanistan o dall’intervenire nei suoi affari interni.
Per quanto riguarda l’impegno talebano a non dar spazio in Afghanistan a ogni gruppo o individuo contro la sicurezza degli Stati Uniti e suoi alleati, si precisa che: i talebani si impegnano a non cooperare con tali gruppi, incluso al Qaida, o individui, né di permettere loro l’uso del suolo afgano, inviando un chiaro messaggio e istruiranno i propri membri a non cooperare con loro; i talebani impediranno a tali gruppi di assumere, addestrare e raccogliere fondi e non li ospiteranno in conformità con gli impegni contenuti nel presente accordo.
I talebani si impegnano a trattare coloro che chiedono asilo o residenza in Afghanistan in base alla legislazione internazionale sulla migrazione e agli impegni del presente accordo. I talebani non forniranno visti, passaporti, permessi di viaggio o altri documenti legali per entrare in Afghanistan a coloro che rappresentano una minaccia per la sicurezza degli Stati Uniti e suoi alleati.
L’accordo si conclude con prospettive generali: gli Stati Uniti chiederanno il riconoscimento e l’approvazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per questo accordo. Gli Stati Uniti e i talebani mirano a relazioni positive tra di loro e si aspettano che le relazioni tra gli Stati Uniti e il nuovo governo islamico afgano, determinato dal dialogo e dai negoziati infra-afgani, saranno positive; gli USA cercheranno una cooperazione economica per la ricostruzione con il nuovo governo e non interverranno nei suoi affari interni.
Un funzionario americano in conferenza stampa ha dichiarato che non ci sono clausole mantenute segrete.
I problemi aperti
Mentre la scala dei tempi del rientro delle forze armate della coalizione è chiaramente specificata, rimane vaga la verifica del rispetto degli obblighi da parte talebana, condizione per il completamento del ritiro stesso. In particolare non è chiaro come confermare la rescissione dei legami con al-Qaida, dato che la rete Haqqani affiliata ad al-Qaida fa parte della leadership talebana. Il segretario della difesa americano ha dichiarato che il ritiro delle forze “dipenderà dalle condizioni reali”, ma non ha precisato quali siano tali condizioni, né come verranno accertate.
Molti osservatori e uomini politici temono che l’obiettivo reale del presidente Trump sia solo di poter ritirare comunque e al più presto le truppe americane dall’Afghanistan, senza correre il rischio di subire la presa di Kabul da parte dei talebani, e quindi che sia pronto a transigere sul puntuale rispetto talebano delle condizioni negoziate.
Rimane diffusa in America la diffidenza verso i talebani; la settimana precedente alla firma, 22 rappresentanti del partito repubblicano hanno scritto a Pompeo ed Esper esprimendo “una seria preoccupazione” rispetto al trattato di pace e richiedendo “di non porre la sicurezza del popolo americano nelle mani dei talebani e di non abbandonare il nostro alleato, il presente governo afgano”.
Per quanto riguarda la natura del previsto nuovo governo afgano, l’accordo precisa solamente che deve essere “islamico”, senza riferimenti a un regime democratico e al rispetto dei diritti umani, in particolare delle donne e della società civile, né al recepimento della legislazione internazionale. Poiché i talebani hanno insistito di comparire nell’accordo come “Islamic Emirate of Afghanistan” rimane la preoccupazione che possano voler re-introdurre la stretta forma di sharia imposta quando l’Emirato era al potere.
Uno dei capi talebani, Sirajuddin Haqqani, in una lettera al New York Times del 21 febbraio, ha cercato di tranquillizzare la comunità internazionale sul futuro del paese, rispondendo che la natura del governo “dipenderà dal consenso fra gli afghani, raggiunto in genuine discussioni e deliberazioni libere dal dominio e interferenze esterne, senza posizioni pregiudiziali”. In particolare si dichiara certo che si “costruirà un sistema islamico in cui tutti gli afgani avranno uguali diritti, dove saranno protetti i diritti delle donne garantiti dall’islam, inclusa l’istruzione e il lavoro.” Per quanto riguarda la legislazione internazionale, i talebani “resteranno impegnati in tutte le convenzioni internazionali purché compatibili con i princìpi islamici”. Il continuo riferimento ai princìpi islamici e la molteplicità delle interpretazioni delle scuole coraniche su come tali princìpi si traducono nella vita civile e sulla società non permettono di avere prospettive certe sui piani telebani per il futuro del paese.
Estremamente delicato si presenta l’avvio del cruciale processo di negoziati infra-afgani per la creazione del nuovo governo del paese. L’Afghanistan si presenta molto frammentato: oltre al conflitto aperto fra talebani e il governo attuale, rimangono in molte zone potentati, veri signori della guerra, in lotta fra loro, e lo stesso governo è diviso e disfunzionale, difficilmente in grado di guidare dei negoziatori forti e rappresentanti dell’opposizione e personalità che sostengano la visione di un Afghanistan repubblicano e costituzionale.
Solo dopo 5 mesi la commissione elettorale ha enunciato i risultati delle ultime elezioni del settembre 2019 proclamando vincitore Ghani di strettissima misura. Il risultato non è stato accettato da Abdullah che ha dichiarato di voler formare un proprio governo. Gli americani hanno chiesto a Ghani di rimandare al 9 marzo il proprio insediamento, previsto il 27 febbraio per non interferire con la firma dell’accordo, ma il conflitto fra i due contendenti e i loro sostenitori è molto alto, difficilmente componibile entro il proposto inizio dei negoziati con i talebani.
Un ruolo cruciale per rendere efficace il processo di pace sarà il ruolo dei paesi che si sono offerti di assistere lo svolgimento dei negoziati; Norvegia e Germania si sono offerte di ospitarli, Indonesia, gli USA e Uzbekistan, assieme all’ONU intendono fornire supporto e facilitare i colloqui, che devono rimanere totalmente nelle mani delle parti afgane.
L’inizio dei negoziati è cruciale per raggiungere un cessate il fuoco, che è quindi differito
nel tempo; il trattato non prevede neppure la prosecuzione della tregua oltre la settimana del 21 febbraio, con il pericolo di incidenti armati estremamente pregiudizievoli dello sviluppo del processo di pace.
Se veramente si raggiungerà un livello ragionevole di pace nel paese sotto un governo unitario, qualunque sia la forma del governo e il suo grado di democrazia, i problemi che dovrà affrontare sono enormi. Oltre tre generazioni di afghani hanno vissuto sempre in guerra e il passaggio a una situazione di non belligeranza non sarà agevole, anche perché di fatto moltissimi hanno trovato sostentamento appunto nelle varie forme di attività belliche.
L’economia di guerra ha favorito la corruzione e ha sviluppato il mercato nero dominato dai narcotici; l’Afghanistan produce l’80% dell’oppio mondiale e la maggior parte del hashish. Il paese è fra i più poveri del mondo e la sua economia dipende per circa il 20% dalla coltivazione dell’oppio e la produzione e commercio di eroina e hashish.
La costruzione di un’economia di pace legale e sostenibile e il raggiungimento di condizioni di vita accettabili per tutti gli afghani richiederà un’effettiva comunione d’intenti fra tutte le forze del paese ma anche un deciso sostegno e collaborazione internazionali, una sfida per l’Afghanistan e tutto il mondo.
La popolazione afgana, i paesi della regione e tutta la comunità mondiale ha bisogno che si raggiunga una pace sicura nel paese e, con tutti i suoi limiti e intrinseche difficoltà, l’accordo del 29 febbraio è un passo necessario e può costituire un cruciale punto di partenza.