Viola Di Grado con Marabbecca (La nave di Teseo, 2024) scrive un romanzo sul male, sulle emersioni dell’inconscio privato e di quello collettivo, sull’amore viziato, sulle contraddizioni della volontà, sui confini tra mondo percepito e le aree sottili, sulla violenza dell’abbandono, sulla claustrofobia del restare, sulla capacità di definirsi in un’identità, sul desiderio di essere, per esempio, un uccello e potersi chiudere in una voliera e così desiderare di aprila e fuggire via. Tutto questo, che sembra troppo per stare dentro 200 pagine e invece ci si adagia comodo, l’autrice lo traduce con lingua asciutta e coniando immagini metafisiche.
“La morte di Igor mi rese felice” inizia a raccontare la voce narrante, Clotilde, reduce da un’incidente d’auto insieme al fidanzato che resta in coma mentre lei si aggrappa alla normalità e a un braccio rotto cancellando dalle ipotesi che lui possa risvegliarsi. Nonostante parli in prima persona, o forse proprio per questo, non capiamo cosa la muova, in questa sua ricerca di fiato, a desiderare che lui non si salvi, quasi che Viola Di Grado tenti, in un salto carpiato, di metterci alla prova con i nostri – propri – pensieri impronunciabili. Ma Clotilde Mori non ripiega mai la mente sull’impudicizia del suo desiderio inadatto. È cattiva?
“Ho detto che faccio l’insegnante di flauto traverso. Ho mentito. Mentire è come guidare la macchina, una volta appreso il gesto lo fai in automatico. Mentire ti porta dappertutto, a cento all’ora, finché sbatti contro un muro o spunta dal nulla una bionda in bikini glitterato. In verità la facevo prima, l’insegnante di flauto: prima di incontrare Igor. […] Ho mentito. Ho detto che mi trattennero in ospedale a causa del braccio. Non mi piace dire la verità. La verità è faticosa. Un sentiero lungo e impervio. La menzogna è una scorciatoia. Ti porta subito nel fulcro delle cose. Anche se ci sei andato barando. La verità è che mi hanno trattenuta in ospedale non per il braccio ma perché il primo giorno, quando mi dissero che Igor era in coma, avevo tentato di ficcarmi una penna verde in gola”. È cattiva, Clotilde?
“ La violenza di un essere che non è cosciente di far violenza, è comunque violenza? Viola Di Grado
Responsabile dell’incidente è Angelica, quasi ragazzina rispetto all'altra, che s’insinua nella sua esistenza come una farfalla notturna: “Forse era un’allucinazione per la calura. No. Era lei. In piedi su uno scoglio. Bikini blu. Sembrava la figura tragica di un romanzo russo. Cosa stava guardando? Le navi lontane? No, più in là. Un punto fisso, sfocato, oltre la frusta immobile dell’orizzonte. Percepivo nel suo volto una calma eccessiva, insana, come se qualcosa in lei si fosse scollato. Le persone così sono pericolose”. Angelica s’impossessa dell’animo di Clotilde destabilizzandola con una rivelazione che è un pensiero magico: “Non mi hai ancora ringraziata”. “Per i fiori e il cioccolato?”. “No, sciocchina. Per l’incidente” […] “L’ho fatto per te. Ha funzionato”. La ragazza però è sfuggente, innamorata di Clotilde al punto da portarla a vivere con sé nella sua casa abitata dai suoi uccelli padroni e liberi, ma dopo averne allentato la volontà anche attraverso l’amore del corpo, sfugge, come muovendosi lungo spirali che si avvitano e si perdono. Diventano prigioniere l’una dell’altra, Clotilde e Angelica, e dell’impossibilità di un amore in cui Igor torna a fare da padrone. Cosa vuole davvero Angelica, dalle fattezze di fata e le movenze da maga? Le due donne sanno dire chi sono? Si fanno del bene o forse sprofondano nell’abisso senza volere?
E Igor? Il suo ritorno improvviso sotto nuove spoglie fa di lui non più l’uomo violento che Clotilde aveva lasciato poche ore prima dell’incidente in un “supermercato piccolo e sudicio [che] traboccava di frutta troppo matura, dai colori accesi rivoltanti” ma una forza primigenia capace di fermare lo scorrere delle cose, come fossero ingabbiate. Una specie di bestia, ferina e inconsapevole più delle bestie vere, certo più di quegli uccelli di cui è abitata la loro vita da quando c’è Angelica. “La violenza di un essere che non è cosciente di far violenza, è comunque violenza?” si chiede l’autrice per il tramite di Clotilde. “Vivevo tutta nella mente, e non era esattamente un luogo civilizzato”: non c’è salvezza nel ragionamento. Così la verità arriva come profezia, dalla bocca di un ragazzo “seduto su una sedia a rotelle, in pigiama bianco [con] sulle gambe un piccolo cane che pareva finto. Aveva forse vent’anni, o quindici. Era magro e biondo come un santo. Una luce smorta sul viso. Sorrideva. Non poteva muoversi, ma questo dava più movimento alla sua mente”.
Di Grado non ha risposte, ma traduce l’inconfessabile e conturbante opacità dell’anima distillandone ossimorici tratti in Angelica, Clotilde e Igor, inconsapevoli, umani e bestiali, violenti e innamorati, alla ricerca della salvezza, come tutti. Bisogna avere paura, pare dirci sottotesto. Della “marabbecca. Una donna fatta di buio, che dal buio emerge per trasformare in buio anche te”.
“ La marabbecca [è] una donna fatta di buio, che dal buio emerge per trasformare in buio anche te Viola Di Grado