UNIVERSITÀ E SCUOLA

Tassa sui crediti: studenti albanesi in piazza contro il governo

La scintilla è stata la cosiddetta “tassa sui crediti”. Vale a dire la decisione del governo albanese di applicare una sorta di penale per gli universitari meno brillanti: un pagamento di 670 lek albanesi, pari a oltre 5 euro, per ogni credito formativo relativo a esami non superati o sostenuti in anni successivi a quando previsto dal piano di studi. Una norma che ha scatenato la reazione degli studenti, non soltanto universitari, che a partire da Tirana (ma anche a Elbasan, Durazzo, Coriza, Scutari) sono scesi in piazza a migliaia, con la loro rabbia, con i loro slogan. Stanchi di dover pagare ancora loro il conto, stanchi di una politica neoliberista che privilegia il privato al pubblico, dura con le fasce più deboli e tollerante con gli oligarchi, incapace nonostante le promesse di aggredire il dilagare della corruzione. Una protesta dura e intransigente che ha messo all’angolo il premier socialista Edi Rama, costretto prima a un brusco dietrofront e, pochi giorni fa, a rivoluzionare la propria squadra di governo, con un mega rimpasto che ha travolto otto dei suoi ministri. Tra i nomi sacrificati, c’è soprattutto quello di Lindita Nikolla, ormai ex titolare del dicastero all’Istruzione e prima sostenitrice della “tassa sui crediti”. 

Elenco di richieste e nessun confronto

Ma il problema ormai è diventato altro. Perché gli studenti non arretrano di un millimetro e rifiutano qualsiasi confronto con rappresentanti del governo («Non trattiamo con le promesse», hanno dichiarato). A nulla è bastato l’annuncio del ritiro del provvedimento sui crediti. Gli studenti a questo punto vogliono di più. E hanno stilato un elenco in 9 punti, richieste che, se accolte, andrebbero a minare le fondamenta della legge sull’istruzione. A partire dai finanziamenti pubblici per scuole e università (quelle private, più qualificate, hanno costi insostenibili per gran parte della popolazione): 5% del pil contro l’attuale 3,3%. Ma tra le principali richieste c’è anche il dimezzamento delle tasse universitarie, una riduzione sostanziale del costo dei libri, il miglioramento di tutte le infrastrutture pubbliche che riguardano gli studenti, dai dormitori alle biblioteche, e una maggiore attenzione alle necessità degli studenti disabili. Oltre all’aumento della rappresentanza studentesca all’interno delle istituzioni delle singole facoltà, compresa la possibilità di partecipare, con diritto di voto, all’elezione dei rettori. 

L’endorsement del presidente della Repubblica e dei vescovi

Dai primi di dicembre, da quando il movimento degli studenti ha preso forza e compattezza, il premier Edi Rama è stato costretto a cambiare radicalmente idea. Alla notizia delle proteste per la tassa sui crediti e per l’annuncio di aumento delle tasse universitarie, il premier aveva inizialmente risposto così, con un post su Facebook: «Dovrei acconsentire al fatto che voi, contribuenti, paghiate le spese universitarie per gli studenti indietro con gli studi? Io personalmente non la penso così. Il secondo punto è che non ci sono stati aumenti delle tasse dal 2014». Per poi definire i manifestanti “pigri mentali”. Successivamente aveva tentato di aprire un tavolo di trattativa con gli studenti, che però avevano respinto l’offerta, nel timore che un incontro, qualsiasi incontro, potesse togliere forza alla loro protesta. Fino al 13 dicembre scorso, quando è arrivata una decisa legittimazione dal presidente della Repubblica, Ilir Meta, che ha negato il via libera al decreto legge sul bilancio annuale dello Stato, rimandandolo al Parlamento. «La causa della bocciatura del decreto – è scritto in un comunicato diffuso proprio dall’ufficio di Presidenza - è la protesta degli studenti, i quali hanno espressamente richiesto un aumento del budget da destinare all’istruzione. Le loro richieste sono giuste, legittime e attuabili da parte della politica». Una presa di posizione plateale che ha spostato gli equilibri. E costretto il premier a una capriola politica quantomeno audace. Prima l’accusa contro i suoi ministri («Mi hanno nascosto la situazione reale del paese») con il conseguente mega rimpasto di governo: oltre al ministro all’Istruzione, hanno perso il posto anche quello delle Finanze, Arben Ahmetaj, degli Affari esteri, Ditmir Bushati, della Cultura, Mirela Kumbaro, e il vicepremier Senida Mesi. Poi l’ultima dichiarazione pubblica, che ha il sapore della resa totale: «Uscirò in piazza con gli studenti, anzi, sarò io a capeggiare la protesta». Anche Lulzim Basha, leader del Partito Democratico (che in Albania è di destra), ha tentato di sfruttare il vento: «Appoggiamo le proteste in tutte le forme e i modi. Naturalmente noi siamo lì con il corpo, l’anima e la mente». Di assoluto rilievo anche l’intervento dei vescovi albanesi: «Tutti i giovani, e in particolare gli studenti universitari, sono una grande risorsa per il futuro del nostro Paese. La loro voce dovrebbe essere ascoltata dalle istituzioni responsabili». Un fermo invito al governo a cambiare passo. Seguito poi da una ancor più netta presa di posizione: «Sosteniamo qualsiasi richiesta legittima da parte degli studenti e qualsiasi riforma volta ad aiutare le fasce più povere della società. Siamo certi che se le istituzioni assistono gli studenti, se viene trovato un linguaggio comune, se si migliorano le condizioni per un tempo di studio più produttivo, tutto ciò impedirebbe anche la fuga di molti giovani dall’Albania, un fenomeno molto preoccupante degli ultimi anni».

Povertà dilagante

Perché è vero, l’Albania sta attraversando un periodo tutt’altro che semplice, stretta com’è tra indici di povertà insostenibili e la speranza di salire, anche a costo di duri sacrifici, sul treno dell’Unione Europea (il prossimo giugno è atteso il via libera per l'avvio dei negoziati di adesione all'Ue). Gli ultimi dati disponibili raccontano un paese dove il 30% dei lavoratori occupati percepisce uno stipendio lordo di circa 200 euro al mese, il 60% di 320 euro (sempre lordi), mentre soltanto il 10% supera i 750 euro mensili. L’ultimo rapporto Gallup, pubblicato ad agosto 2018 ha stimato che il 62% degli albanesi (la percentuale tra i giovani è del 79% vorrebbe emigrare, trasferirsi in un altro paese (con la Germania al top delle preferenze di destinazione). Numeri che rendono più leggibile e comprensibile la protesta degli studenti. Per fare degli esempi: un anno di un corso di laurea in scienze politiche all’università pubblica di Tirana costa 40mila lek, pari a circa 325 euro, esclusa la tassa d’iscrizione. Più abbordabile il corso di lingue straniere (poco più di 200 euro l’anno), mentre le lauree magistrali oscillano tra i 500 e i 1.200 euro l’anno. Con quei salari, sono cifre proibitive. Soprattutto per gli studenti fuori sede, obbligati a lavorare (come camerieri o nei call center) per mantenersi agli studi.

Appuntamento a Tirana il 7 gennaio

Ora l’appuntamento è per lunedì prossimo, 7 gennaio. Gli studenti hanno organizzato una nuova imponente manifestazione a Tirana. Arriveranno a migliaia, da ogni angolo del paese. Un movimento che si definisce “apolitico”, che finora è riuscito a respingere, o comunque a contenere, i tentativi d’infiltrazione e restare compatto. Che è riuscito (impresa non da poco) a non esprimere un leader, un nome, un volto riconoscibile. Per il premier Edi Rama, alla ricerca di un difficile equilibrio, sarà comunque uno snodo decisivo. Anita Lushi, attivista del movimento per l’università, intervistata pochi giorni fa dall’agenzia di stampa internazionale Pressenza, ha dichiarato: «Per il governo accettare le richieste del corpo studentesco comporterebbe il crollo della legge sull’istruzione superiore albanese. Una legge che si basa su una logica neoliberale: ridurre i fondi per gli istituti d’istruzione pubblica e favorire il finanziamento statale delle istituzioni educative private. La richiesta di abrogare questa legge, e questa forma mentis, è precisamente l’espressione della non approvazione da parte del popolo di queste politiche. Le proteste studentesche non riguardano solo la formazione. Sono molto di più. Sono il punto di partenza per la trasformazione radicale di questa società».

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