SOCIETÀ
La UE alza la voce: sanzioni contro i Paesi che violano i valori fondanti dell'Europa
L’Europa alza la voce nel tentativo di mettere in riga i paesi membri che non rispettano lo Stato di diritto, quei governi che negli ultimi anni hanno attuato misure aspre e repressive nei confronti dei più emarginati, che tentano sempre più spudoratamente d’imbavagliare magistratura e stampa o che non fanno abbastanza per arginare il fenomeno della corruzione. Una proposta di legge è stata approvata pochi giorni fa dal Parlamento Europeo: qualora diventasse legge, al termine di un iter comunque complesso e non privo di ostacoli, prevedrebbe la riduzione o la sospensione dei fondi per i paesi ritenuti colpevoli di violazione dei valori fondanti dell’Unione Europea. Per stabilirlo, la Commissione Europea dovrebbe affidarsi a un gruppo di esperti specializzati in diritto costituzionale e questioni finanziarie: il testo prevede che ciascuno stato nomini un esperto, mentre altri 5 saranno scelti dal Parlamento Europeo. La valutazione degli Stati sarà annuale e le conclusioni pubbliche. Proposta di legge approvata a maggioranza: 397 voti a favore, 158 contrari e 69 astensioni. Tra i contrari, ovviamente, i deputati di Ungheria e Polonia, che hanno trovato una sponda anche in Italia, tra i partiti di governo: la Lega ha votato no, il Movimento 5 Stelle ha scelto di astenersi.
L’attenzione al Gruppo di Visegrad
Un avvertimento che sembra cucito su misura per Ungheria e Polonia, i muri portanti del cosiddetto Gruppo di Visegrad (ne fanno parte anche Repubblica Ceca e Slovacchia), un’alleanza culturale, politica e perfino militare tra stati post comunisti che aderiscono all’Ue. La Polonia è il primo stato nei confronti del quale la Commissione UE ha avviato una procedura d’infrazione invocando l’articolo 7 del Trattato dell’Unione Europea (c’è chi lo definisce l’arma atomica), studiato proprio per affrontare i casi di violazione sistematica dello stato di diritto dei Paesi membri. La procedura d’infrazione è stata avviata a luglio 2018. Alla base dell’irritazione e della preoccupazione di Strasburgo, la recente decisione del governo polacco (dal 2015 guidato da Giustizia e Diritto, partito di destra, conservatore e clericale) di introdurre una legge che colpiva l’autonomia della Corte suprema, abbassando retroattivamente l’età pensionabile dei giudici e perciò rimuovendone 27 su 72. Una riforma che il partito di governo aveva definito «necessaria perscardinare la presenza di anziani giudici comunisti nella Corte, in quanto inefficienti e legati a un passato ormai sorpassato». Lo scorso ottobre la Corte di Giustizia Europea ha ordinato alla Polonia di sospendere la legge, in quanto «lesiva del principio di autonomia giudiziaria e di inamovibilità dei giudici come valori fondanti dell’Unione». Proposta che il governo polacco, il 21 novembre scorso, è stato di fatto costretto ad accogliere, per non rischiare di arrivare allo strappo. Ma la Polonia del premier Mateusz Morawiecki resta comunque sotto osservazione per il suo, come dire, scarso feeling con i diritti civili: dai ripetuti tentativi di restrizione del diritto all’aborto alle pressioni politiche sui media, ai tentativi, tuttora in corso, di impedire qualsiasi pubblica forma di dissenso.
Va ancor peggio in Ungheria, con il governo presieduto da Viktor Orban (leader di Fidesz, partito di destra ultraconservatore) che non perde occasione di mostrare i muscoli ai più deboli, agli oppositori, alle Ong, a chiunque osi esprimere la propria contrarietà alle politiche sovraniste del premier che tanto piace a Putin (e a Salvini, per non dimenticare cosa accade in Italia). Anche nei confronti di Budapest è in corso una procedura d’infrazione all’articolo 7 per la cosiddetta legge Soros, che prevede carcere per chi aiuta i migranti, a partire dalle Ong: «Collocare cittadini stranieri sul territorio del paese è vietato, salva l'autorizzazione del Parlamento», è la formuletta usata per impedire l’introduzione delle quote obbligatorie di accoglienza. Nel settembre scorso, di fronte all’assemblea plenaria di Strasburgo che stava per votare proprio l’attivazione dell’articolo 7, Viktor Orban aveva dichiarato: «L'Ungheria sarà condannata perché ha deciso che non sarà patria di immigrazione. Ma noi non accetteremo minacce e ricatti delle forze pro-immigrazione: difenderemo le nostre frontiere, fermeremo l'immigrazione clandestina anche contro di voi, se necessario». Toni non proprio concilianti. Per non parlare poi del divieto di manifestare, della modifica costituzionale che vieta ai senzatetto bivacchi in luoghi pubblici, del controllo dei media, della legge sugli scioperi, della limitazione della libertà accademica.
Anche la Romania tra gli osservati speciali
Anche la Romania, che peraltro da gennaio presiede il Consiglio dell’Ue, è finita nel club degli osservati speciali e in qualche modo tra i destinatari del progetto di legge. Perché non sembra che il governo guidato dalla premier socialdemocratica Viorica Dancila sia riuscita a porre un freno al dilagare della corruzione. A partire proprio dalla politica, con la recente condanna (giugno 2018) di Liviu Dragnea, presidente del Partito Socialdemocratico e da molti indicato come il politico più influente di Romania, a tre anni e mezzo di carcere per abuso d’ufficio e falso. Al punto che il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, in una recente intervista al quotidiano tedesco Die Welt, è passato all’attacco frontale: «Il governo di Bucarest– ha dichiarato Juncker - non ha ancora del tutto compreso cosa significhi presiedere i Paesi dell’Ue». Il ministro della Giustizia rumeno, Tudorel Toader, ha appena annunciato un decreto d’emergenza che di fatto cancellerebbe centinaia di processi per corruzione (e di sentenze, compresa quella di Liviu Dragnea: è prevista la retroattività). La commissione europea si è così espressa: «È essenziale che la Romania torni sulla strada giusta nella lotta contro la corruzione».
Quanto incassano dall’Europa
Questo lo scenario politico. Governi conservatori, nazionalisti, sovranisti, che a voce sempre più alta rivendicano totale autonomia di manovra all’interno dei propri confini, alla faccia della condivisione dei valori che quei paesi stessi avevano accettato aderendo, nel 2004, all’Unione Europea: il rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello stato di diritto e dei diritti umani, con l’impegno a promuovere il pluralismo, la non discriminazione, la tolleranza, la giustizia, la solidarietà, la parità tra uomini e donne. Un blocco Est europeo che comincia ad avere simpatizzanti anche al centro del continente. Perciò l’Unione Europea è costretta a intervenire con severità. E l’unica arma che possiede è la minaccia di ridurre, o sospendere, i fondi che questi stati ricevono dall’Ue (infografica 2016). Che tra l’altro per i paesi dell’Est sono i più alti. Gli ultimi dati disponibili (2017) dicono che l’Ungheria ha versato all’Unione 820 milioni di euro, incassando invece 4,049 miliardi (nel 2016, 924mila euro versati, 4,546 miliardi ricevuti). Cifre ancor più importanti per la Polonia, che versa 3,048 miliardi di euro nel 2017 (3,553 miliardi nel 2016) per un ritorno di 11,921 miliardi nel 2017(10,637 nell’anno precedente). Nel 2017 il contributo al bilancio Ue della Romania è stato pari a 1,228 miliardi, a fronte di 4,741 miliardi di finanziamenti ricevuti. Per fare un paragone: l’Italia (terza tra i paesi che più contribuiscono) ha versato poco più di 12 miliardi di euro per riceverne quasi 10. La Germania ha un saldo negativo di quasi 9 miliardi, il Regno Unito è a meno 4, la Francia a meno 3.
Lo scoglio del voto in Consiglio
Da qui la minaccia, l’alzare la voce nel tentativo di costringere in qualche modo i dissidenti al rispetto delle regole sancite con l’appartenenza all’Unione. Ma arrivare a sentenza, per così dire, sarà impresa ardua. Perché la proposta di legge deve prima diventare legge. E i meccanismi di voto non sono così agili. Soprattutto, sul punto dovrà esprimersi il Consiglio europeo, vale a dire i governi. Scontata l’opposizione del blocco dell’Est, ma un assist potrebbe arrivare da altri paesi (Italia e Austria ad esempio), il che renderebbe la strada per l’approvazione ancor più in salita. Le norme comunitarie prevedono che il Paese sotto procedura d’infrazione venga ascoltato dal Consiglio dell'Ue, che dovrà decidere a maggioranza di almeno 4/5 degli Stati se vi sia un “chiaro e serio rischio di violazione dei valori dell'Unione”. In caso affermativo, si apre un periodo di dialogo (non sono previsti limiti temporali) con il Paese, in cerca di soluzioni. Se comunque si continuassero a ravvisare “violazioni serie e persistenti dei valori dell'Unione”, si attiverebbe meccanismo sanzionatorio, che può essere avviata da un terzo dei Paesi dell'Ue in Consiglio, o dalla Commissione europea. La decisione finale dev’essere presa all'unanimità dal Consiglio europeo. Una procedura che spiega bene come mai gli Stati colpiti da procedura d’infrazione molto spesso continuano dritti sulla loro strada, quasi sfidando le istituzioni europee, quasi cercando lo scontro, se non la spaccatura. Perché l’Europa, tra difficoltà e contraddizioni mai superate, è riuscita a mettere in piedi un’unione esclusivamente economica, tralasciando qualsiasi unitarietà negli aspetti di gestione della politica (l’esempio delle divisioni e degli egoismi sulla questione dell’accoglienza ai migranti è emblematico). Ma se si è arrivati a questo punto, alle minacce, alle accuse, alle procedure d’infrazione, vuol dire che due cose nel frattempo sono accadute: che l’onda sovranista è più estesa che mai (a partire dal gruppo di Visegrad, ma non soltanto). E che il limite di sopportazione è stato ormai superato.