SOCIETÀ
Università e combustibili fossili: dagli USA appelli per la trasparenza nei finanziamenti
Studenti manifestano per il disinvestimento di Harvard dai combustibili fossili di fronte alla Hall, 10 settembre 2021, foto di Pei Chao Zhuo, via The Harvard Crimson
In un pianeta già surriscaldato di oltre 1,1°C (rispetto all’era preindustriale) e drammaticamente instradato verso la soglia critica di 1,5°C, anche il rapporto tra mondo della ricerca e industria dei combustibili fossili merita di essere ripensato. Perlomeno questo è quanto è stato messo sul tavolo dalla stessa università di Cambridge, che presto potrebbe diventare la prima università al mondo a smettere di ricevere finanziamenti dalle industrie responsabili dell’aumento di concentrazione di CO2 in atmosfera.
Secondo un rapporto di Open Democracy riportato dal Guardian, negli ultimi 4 anni, alcuni dei principali colossi di petrolio, gas e carbone hanno elargito a Cambridge 14 milioni di sterline, a Oxford 8 milioni e all’Imperial College di Londra 54 milioni di sterline. Anche oltreoceano, negli Stati Uniti, quello tra istituzioni di ricerca e “Big Oil” è un rapporto di lunga durata.
Un articolo pubblicato sul British Medical Journal ricorda che alcuni dei più importanti centri di ricerca dedicati alla lotta al cambiamento climatico fondati negli anni 2000 in università del calibro di Stanford, Princeton, Berkeley e MIT (Massachusetts Institute of Technology), sono nati grazie al supporto di società quali ExxonMobil, Shell, British Petroleum e Total.
L’ovvio conflitto di interessi che ne deriva, scrive Paul Thacker sul BMJ, ha portato ricercatori e studenti di quelle università statunitensi a denunciare pubblicamente legami spesso poco trasparenti e a chiedersi se l’industria del petrolio o del gas possa essere ritenuta credibile quando sceglie di finanziare ricerche il cui obiettivo è trovare alternative ai combustibili fossili, che secondo Thacker equivale a “finanziare la propria morte”.
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Che questo genere di conflitto di interesse esista e che non sia una mal supportata teoria del complotto è documentato da numerosissime evidenze e pubblicazioni, anche su riviste scientifiche.
Campagne di disinformazione
Un lavoro fondamentale a questo riguardo è stato pubblicato nel 2010 da Erik Conway e Naomi Oreskes, storici della scienza che lavorano rispettivamente al CalTech e a Harvard, e tradotto in italiano da EdizioniAmbiente nel 2019 come Mercanti di dubbi: come un manipolo di scienziati ha nascosto la verità, dal fumo al riscaldamento globale.
Mercanti di dubbi sono coloro che progettano vere e proprie campagne di disinformazione, portate avanti sia da giornalisti sia da scienziati, per far percepire come controversi risultati scientifici che controversi in realtà non sono, come ad esempio quelli che stabiliscono l’origine antropica del cambiamento climatico, ma non solo.
Come scrive Alan M. Brandt, storico di Harvard, sull’American Journal of Public Health, l’industria del tabacco a partire dagli anni ‘50 si è sempre dichiarata a supporto della scienza, ma solo come strategia di pubbliche relazioni per distorcere la ricezione delle ricerche che mostravano i danni alla salute provocati dal fumo.
Conway e Oreskes nel loro libro hanno documentato che queste strategie sono state portate avanti non solo dall’industria del tabacco, ma anche da quella dei combustibili fossili per minimizzare le conseguenze delle emissioni di CO2 in atmosfera che quella stessa industria produceva.
Un ormai noto documento interno di ExxonMobil risalente al 1982 mostra che la compagnia petrolifera era, 40 anni fa, perfettamente consapevole delle conseguenze che le emissioni di grandi quantità di CO2 in atmosfera avrebbero provocato alle temperature del pianeta. Le previsioni, come si vede dall’immagine, erano molto precise e si sono di poco discostate da ciò che è avvenuto: nel 2020 la concentrazione di CO2 in atmosfera era intorno alle 418 ppm e il riscaldamento globale era a 1,1°C.
This @exxonmobile chart from 1982 predicted that in 2019 our atmospheric CO2 level would reach about 415 parts per million, raising the global temperature roughly 0.9 degrees C.
— Tom Randall (@tsrandall) May 14, 2019
Update: The world crossed the 415 ppm threshold this week and broke 0.9 degrees C in 2017 1/ pic.twitter.com/sLpOVkwzTF
Conflitti di interesse
Oltre alle campagne mediatiche a valle delle ricerche scientifiche, le grandi aziende energetiche hanno agito anche a monte.
Uno studio pubblicato su Global Environmental Change ricostruisce le strategie di risposta al cambiamento climatico da parte di Total, multinazionale energetica francese, dagli anni ‘70 a oggi. “Dopo aver appreso dagli scienziati di Exxon che i governi avrebbero iniziato a regolamentare le aziende di petrolio e gas per fermare il riscaldamento globale, l’industria francese dei combustibili fossili ha iniziato a finanziare studi sull’assorbimento di anidride carbonica da parte degli oceani alla Columbia University negli anni ‘90, un genere di ricerca che avrebbe fatto apparire il cambiamento climatico meno allarmante. Hanno anche iniziato a piazzare ingegneri all’MIT e in altre istituzioni per monitorare il lavoro scientifico” scrive Thacker sul BMJ.
Risale invece ad aprile 1998, a pochi mesi dalla firma del protocollo di Kyoto, un documento preparato da compagnie quali ExxonMobil, Chevron e l’American Petroleum Institute in cui viene delineata una strategia, supportata da milioni di dollari, volta a contrastare l’azione governativa sul cambiamento climatico e finalizzata a far passare messaggi di incertezza sui risultati della scienza del clima.
Quando il documento circolò nei media, l’American Petroleum Institute negò di aver in alcun modo implementato il piano, ma nel 2000 la British Petroleum e la Ford donarono 20 milioni di dollari a Princeton che lanciò la Carbon Mitigation Initiative, il primo grande programma di un’università statunitense sul cambiamento climatico. Nel 2020 Princeton ha esteso le proprie partnership a ExxonMobil, per conto della quale sta portando avanti ricerche sulla cattura e lo stoccaggio di anidride carbonica.
Analogamente in quegli anni è nata al MIT nel 2006 l’Energy Initiative e l’Energy Biosciences Institute a Berkeley, università della California, nel 2007, riporta Thacker sul BMJ. Nel 2002 è invece nato a Stanford il Global Climate and Energy Project (GCEP) con il supporto, tra gli altri, di ExxonMobil.
In una lettera pubblicata l’anno scorso su Stanford Daily, gli studenti dell’università californiana lamentano che tre dei quattro membri finanziatori della Strategic Energy Alliance di Stanford (nata dopo la chiusura del GCEP nel 2018) sono Shell, ExxonMobil e Total. “Dal 2011 Stanford ha accettato decine di milioni di dollari dalle aziende dei combustibili fossili per condurre ricerca” scrivono gli studenti di Stanford, che in un’altra lettera ancora, assieme a molti professori e ricercatori, chiedono che la neonata Doerr School of Sustainability rifiuti i finanziamenti fossili, tra cui quelli del Natural Gas Institute.
Cattura e stoccaggio dell’anidride carbonica
“Molti di coloro che chiedono alle proprie università di tagliare i ponti con l’industria dei combustibili fossili citano le ricerche sulla cattura dell’anidride carbonica come uno dei principali problemi” scrive Thacker sul BMJ.
Lo Stanford Center for Carbon Storage ad esempio ha tra i suoi affiliati Chevron, ExxonMobil, Shell e Schlumberger. Anche a Berkeley gli scienziati di ExxonMobil collaborano per la scoperta di nuovi materiali per la cattura dell’anidride carbonica.
Nel 2021 gli impianti attivi di cattura dell’anidride carbonica sono riusciti a immagazzinare, dalla produzione industriale, poco meno di 40 milioni di tonnellate di CO2, stando ai dati IEA, ovvero una piccolissima parte dei circa 35 miliardi di tonnellate di anidride carbonica emessi ogni anno dalle industrie dell’energia, che rappresentano circa i tre quarti di tutte le emissioni globali. Secondo la stessa Agenzia Internazionale dell’Energia, le tecnologie di cattura e stoccaggio della CO2 dovranno svilupparsi a sufficienza da arrivare a catturare 7,6 miliardi di tonnellate di CO2 nel 2050, altrimenti la neutralità climatica non sarà garantita (a patto che tutti gli altri impegni previsti dal rapporto Net Zero by 2050 vengano rispettati).
Tuttavia diversi osservatori esprimono scetticismo su un eccessivo affidamento a questo genere di soluzione, per varie ragioni. Una è che per far funzionare gli impianti di cattura occorre energia e fintanto che questa non è a basse emissioni il processo risulta impattante. Un’altra riguarda il fatto che questi impianti di necessitano di tanta energia: per catturare 1 miliardo di tonnellate di CO2 i sistemi di Direct Air Capture necessiterebbero, riporta il BMJ, di quasi tutta l’energia elettrica generata in nel 2020 dagli Stati Uniti (più di 3.800 TWh). Di conseguenza i costi energetici ed economici di un uso di questa tecnologia su larga scala sarebbero esorbitanti.
Inoltre la maggior parte della CO2 ad oggi sequestrata tramite questi sistemi non viene semplicemente stoccata, ma viene iniettata in forma liquida nel sottosuolo per aumentare la pressione nei pozzi di idrocarburi ed estrarre nuovo petrolio, che verrà poi bruciato generando nuove emissioni. La tecnica si chiama Enhanced Oil Recovery.
Many international bodies and national governments are relying on #carboncapture in the fossil fuel sector to get to #netzero, and it simply won’t work says @barobertson111. https://t.co/7NZyAmVRrM pic.twitter.com/GFbOBJ6vLn
— IEEFA.org (@ieefa_institute) September 1, 2022
Un recente rapporto del IEEFA (Institute for Energy Economics and Financial Analysis) ha analizzato 13 dei più importanti progetti di cattura dell’anidride carbonica che da soli equivalgono a più della metà della capacità di cattura attualmente in opera nel mondo (circa il 55%). Di questi, sette hanno ottenuto risultati al di sotto delle aspettative, due hanno fallito e uno è stato sospeso.
Nell’accordo quadro firmato tra università di Padova e Eni, tra le “nuove linee strategiche di ricerca per lo sviluppo sostenibile e la decarbonizzazione” vengono menzionate anche “nuove tecnologie per la Carbon Capture, Utilisation and Storage”.
Un appello per la trasparenza
A giugno dello scorso anno, ricercatori e professori dell’università di San Diego hanno presentato al proprio senato accademico una risoluzione che chiede a tutti gli istituti del circuito delle università della California la massima trasparenza a riguardo dei finanziamenti alla ricerca provenienti dall’industria dei combustibili fossili. La norma è simile a quella già adottata per l’industria del tabacco.
“Nell’ultimo decennio, la crescente colonizzazione degli spazi dell’università e di altre pubbliche istituzioni da parte delle compagnie energetiche è stata ben documentata” si legge nella risoluzione. “Milioni di dollari sono arrivati per supportare una ricerca amica dell’industria e i cui risultati a volte sono stati predeterminati dai finanziatori”. I promotori della risoluzione stanno lavorando per ottenere trasparenza non solo nel caso delle industrie energetiche.
Le iniziative intraprese dai ricercatori dell’università di Cambridge, che sono arrivati a chiedere lo stop completo ai finanziamenti fossili, e da quelli dell’università di San Diego, appena menzionati, sono segnali importanti che in ogni caso aiuteranno ad aumentare la trasparenza nei rapporti tra mondo della ricerca e industrie dell’energia.
L’augurio è che gli appelli che giungono da oltre Manica e oltreoceano possano suscitare una riflessione anche in Italia a tutti i livelli dell’organizzazione accademica, dai vertici governativi alle organizzazioni studentesche, passando per professori, ricercatori e personale amministrativo.