Venezia sommersa dall’acqua granda. Sempre più granda e sempre più frequente, a causa dei cambiamenti climatici. E poi le teredini, quelle specie di molluschi bivalvi che Linneo definiva calamitas navium, perché rappresentano, appunto, una calamità per gli scafi in legno. E per tutti i legni in acqua salmastra. Scavatori così efficaci che nel 1731 hanno eroso le dighe (in legno) e provocato un’inondazione del mare in un’area vastissima di cui nei Paesi Bassi serbano ancora memoria. A Venezia le teredini stanno attaccando i pali in legno, che hanno una così grande parte nella stabilità della città. Le teredini sono animali che amano l’acqua salata e non l’acqua dolce: la loro presenza in laguna è aumentata dopo che sono state allargate le bocche di porto per fare entrare le grandi navi.
Tutto questo e altro ancora popola la seconda parte del nuovo romanzo di Amitav Ghosh, L’isola dei fucili, appena pubblicato da Neri Pozza (traduzione di Anna Nadotti e Norman Gabetti, pagg. 315, euro 18). Inutile sottolineare l’attualità del tema proposto dallo scrittore indiano di origini bengalesi. Il libro esce proprio mentre Venezia combatte con acque alte da record non solo per l’altezza raggiunta (187 centimetri, il picco massimo) ma anche per la inusitata frequenza.
La coincidenza sembra casuale. Ma, in realtà, Amitav Ghosh è da molto tempo attento ai cambiamenti climatici e ai loro effetti. In particolare all’aumento del livello dei mari che minaccia di inondare in larga parte il Bangladesh, paese d’origine della sua famiglia.
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In un libro pubblicato nel 2017, La grande cecità, Amitav Ghosh lanciava un vibrante J’accuse: com’è possibile che i mass media e le classi dirigenti di tutto il mondo ignorano sistematicamente la più grave minaccia che pesa sul capo dell’umanità in questo secolo? Perché siamo così ciechi difronte ai cambiamenti del clima?
Non sappiamo se La grande cecità di Amitav Ghosh abbia giocato un qualche ruolo nel movimento Friday for Future messo in moto da Greta Thunberg. Di certo non ha scosso le coscienze nelle redazioni e nei governi così come lo scrittore indiano avrebbe voluto. Ecco perché è ritornato sul tema del climate change con un romanzo.
Non entriamo nel merito letterario di L’isola dei fucili. Rileviamo però sia la coincidenza (solo in apparenza straordinaria) tra le recentissime vicende a Venezia e la sua rappresentazione della città sia l’intreccio con quattro degli effetti (dei tanti effetti) dei cambiamenti: l’aumento del livello dei mari, la migrazione delle specie biologiche, la migrazione degli umani, il cambiamento della sensibilità politica nelle popolazioni che sono interessate a questi fenomeni.
Il primo effetto denunciato da Ghosh è una fotografia di quanto accaduto (di quanto sta ancora accadendo) a Venezia. Un’immagine pressoché perfetta. Non è una mera coincidenza, come lo stesso scrittore sottolinea. È un evento, quello dell’inondazione per aumento del livello dei mari, che dobbiamo attenderci con sempre maggiore frequenza nei prossimi anni e persino nei prossimi mesi. Sta già accadendo. In Bangladesh come a Venezia. E se accade alla città veneta, una delle più note al mondo ubicata in un paese del ricco occidente, significa che sarà molto difficile difendersi dalle inondazioni. Sarà molto difficile – come aveva già sottolineato in La grande cecità – soprattutto nei paesi poveri. Soprattutto per i poveri del mondo.
Il secondo aspetto su cui, con l’abilità quindi con l’ambiguità del grande scrittore, è l’invasione di specie aliene. A Venezia non ci sono le teredini – le calamitas navium – penetrate in laguna, ma lo scrittore annuncia la visione anche di animali, come ragni velenosi, provenienti dai tropici secondo strade imperscrutabili ma che trovano (troverebbero) un ambiente ormai adatto alla loro sopravvivenza e moltiplicazione.
Molto concreto e privo di ambiguità è, invece, il tema delle migrazioni umane per cause ambientali. A causa del cambiamento climatico. La Venezia narrata da Ghosh è piena di immigrati del Bangladesh che hanno affrontato tutti pericoli del viaggio clandestino alla mercé di uomini senza scrupoli pur di sfuggire ai disastri che nel loro paese sta già causando il cambiamento climatico. Questa non è una fotografia frutto dell’immaginazione. È una realtà già attuale. Sono decine di milioni nel mondo i migranti climatici. Solo una piccola parte giunge a Venezia. Solo una piccola parte giunge nel ricco occidente.
L’associazione tra clima e migranti è un carattere originale di Amitav Ghosh. Pochi sono ancora gli scrittori che nel mondo raccontano il climate change. E tra questi pochi, pochissimi lo associano al fenomeno globale delle migrazioni. Onore al merito, dunque, allo scrittore indiano per aver denunciato l’ennesima grande cecità.
Ma Amitav Ghosh non si limita a questo. Prende in esame anche la reazione che i popoli ricchi della “fortezza Europa” oppongono alle migrazioni umane. E in particolare la percezione, del tutto infondata, dell’invasione. Il tentativo di esorcizzare invece che di governare un fenomeno che è, appunto, globale. Ecco, dunque, che Amitav Ghosh denuncia l’approccio italiano alle migrazioni costruito sulla pratica (una pratica colabrodo) dei respingimenti. Qui il suo J’accusediventa politico. E qui noi ci fermiamo. Il lettore capirà a chi oltre che a cosa Amitav Ghosh si riferisce.
A noi premo solo un’ultima riflessione. Se uno scrittore (un grande scrittore) e un antropologo (perché Ghosh è anche uno studioso dell’uomo e dell’umanità) che viene dalla lontana India, che ha origini dell’ancor più lontano Bangladesh ed è poi emigrato negli Stati Uniti dove ha a lungo insegnato alla Columbia University, per denunciare gli effetti dei cambiamenti climatici e restituire la vista all’intero pianeta ha scelto Venezia per ambientare il suo racconto e denunciato la politica italiana per il suo approccio, beh una ragione per indurci a riflettere ci deve essere.