SOCIETÀ

Viaggio a Tbilisi, al bivio tra oligarchi e Occidente

Un albero immenso, un liriodendro alto quaranta metri, naviga lentamente attraverso il Mar Nero. Il fusto pari a un palazzo di tredici piani, eretto e fissato su una grande chiatta, viaggia silenzioso, completo di rami e chioma, verso la sua nuova dimora. Se dovessimo scegliere una sola immagine per raccontare la nuova Georgia, il piccolo Stato caucasico patria di Stalin, useremmo questa. Perché, a conoscerne il retroscena, ci racconta tante cose. Èproprio dei grandi artisti offrire visioni profetiche, anticipatorie: in Lo sguardo di Ulisse Theo Angelopoulos, regista greco scomparso qualche anno fa, aveva compendiato la disgregazione del blocco sovietico filmando una smisurata statua di Lenin, fatta a pezzi e adagiata su una chiatta, che avanzava attraverso il Danubio per essere venduta a un collezionista. Adattando la profezia all’oggi, con il liriodendro anfibio georgiano non si dissolvono decenni di valori ex sovietici, ma si sublima la smania di grandezza di chi, da quella dissoluzione, ha tratto la sua fortuna: Bidzina Ivanishvili, ex premier, l’uomo più ricco e il vero padrone della Georgia, divenuto un magnate grazie alle privatizzazioni seguite al crollo dell’Urss. Oltre allo squalo privato che ne orna l’acquario di casa, Ivanishvili annovera tra i suoi hobby collezionare alberi giganti, che acquista in ogni angolo del Paese, sradica e trasporta nel grande arboreto che ha costituito a Ureki, sulla costa. Così, ogni tanto, è possibile osservare uno di questi colossi, strappati al terreno che li nutre da cent’anni, muoversi pigri e solenni diretti all’harem vegetale del Capo. 

Di tutti i destini che hanno segnato gli Stati sorti dopo la fine dell’Urss, quello georgiano è tra i più drammatici: una lacerazione continua tra la stretta della Russia putiniana e l’aspirazione all’Europa, la Nato, l’Occidente. Ma il Caucaso non è Europa, né Asia, né Russia: forse un po’ di tutto questo. E dunque ogni tentativo di semplificare, dare letture drastiche delle tensioni che percorrono questa nazione grande come Piemonte, Lombardia e Veneto insieme, è velleitario e fuorviante. Se si guardia alla storia degli ultimi vent’anni, la Georgia è stata percorsa da una successione ininterrotta di fratture politiche e sociali. L’affrancamento dal governo post-sovietico di Shevardnadze con la Rivoluzione delle Rose, il decennio di strapotere di chi quella rivoluzione aveva guidato, Mikheil Saakashvili, la guerra e l’occupazione russa del 2008 di Abkhazia e Ossezia del Sud, la sconfitta e l’autoesilio di Saakashvili e l’affermazione di Ivanishvili come nuovo dominus, il faticoso equilibrio tra politiche filooccidentali e allentamento della tensione con la Russia. Contrasti che si esprimono negli scossoni che agitano periodicamente il dibattito politico, che si svolge più in piazza che in Parlamento: la Camera unica oggi è dominata da Georgian Dream, il partito fondato da Ivanishvili, che conta su oltre due terzi dei seggi. L’opposizione è frammentata, e la contestazione passa perciò attraverso periodici moti di contestatori che vengono gestiti dal governo con grande durezza. Le manifestazioni più recenti, dallo spiccato tenore antirusso, hanno preso il via lo scorso giugno. La miccia è stata innescata da un gesto imprudente, dal forte valore simbolico, avvenuto nell’aula del Parlamento georgiano. Durante i lavori di un organismo internazionale che riunisce parlamentari di fede ortodossa di diverse nazioni, un deputato russo si è seduto sullo scranno riservato al presidente e ha pronunciato un discorso in russo. Il fatto, in un Paese in cui il 20 per cento della superficie è occupato da Mosca, ha scatenato la reazione dell’opposizione: le manifestazioni sono state represse dalle forze di polizia con proiettili di gomma, ferendo e arrestando molte persone. A questo punto le proteste si sono concentrate sul ministro dell’Interno Giorgi Gakharia, di cui veniva chiesta la destituzione con raduni quotidiani davanti al Parlamento. Risultato: da qualche settimana Giorgi Gakharia è il nuovo primo ministro, con la benedizione del solito Ivanishvili. Un messaggio chiaro a chi aspira a mettersi di traverso al tentativo del governo di scongelare i rapporti con Putin: una tappa importante, tra l’altro, è stata raggiunta pochi giorni fa, con il primo incontro tra i rispettivi ministri degli Esteri dall’epoca del conflitto.

Se la politica appare, al momento, ingessata in un sistema autoritario e dominato da pochi potenti, la società georgiana sta vivendo una fase di grande apertura ed evoluzione. La Georgia di oggi beneficia dell’espansione dei flussi turistici globali. Nuove rotte aeree si stanno aprendo per far scoprire ai viaggiatori occidentali un’area di straordinario interesse per storia e cultura, a tre ore di volo dall’Europa centrale. Nei primi nove mesi del 2019, i turisti europei sono aumentati rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, secondo i Paesi di provenienza, dal 10 al 30 per cento: per l’Italia è più 20,7%, in assoluto circa 17mila visitatori, numeri ancora modesti ma in forte ascesa. Tbilisi, città che pochi ancora sanno come pronunciare e dove collocare su una mappa, inizia a svelare il suo fascino contraddittorio, disomogeneo e sconcertante, come il Paese di cui è capitale. Adagiata nella valle del fiume Mt’k’vari, ricca di verde e circondata da alture suggestive, Tbilisi è un luogo in cui si percepisce tutto l’impegno in corso nella valorizzazione e nel restauro delle sue bellezze, in particolare la città vecchia, che da un fianco della valle digrada verso il basso con un accavallarsi di edifici nel tipico stile tradizionale, a più piani con grandi logge esterne in legno. Come in ogni città ex sovietica, il tessuto urbano composto da antichi monasteri, edifici in stile floreale, schiere di palazzi moderni, è interrotto da elementi giganteschi e stranianti. Spicca su tutto la statua di Kartlis Deda, personificazione della Georgia, venti metri di alluminio che dal 1958 dominano la città dalle alture di Sololaki, incarnando lo spirito bifronte della popolazione: una coppa di vino in una mano, la spada sguainata nell’altra. L’altro moloch cittadino, il Georgia Memorial, è più periferico ma ancora più incombente: è soprannominato “La Stonehenge georgiana” perché consiste in una successione ravvicinata di 16 smisurate, tetre colonne poste sulla sommità di un monte e decorate con rilievi che illustrano la storia del Paese. Il Memorial, che risale agli anni Ottanta ed è incompiuto, porta la firma di uno degli architetti-scultori più famigerati del globo: Zurab Tsereteli, il potente artista georgiano che, grazie all’amicizia di molti maggiorenti russi come l’ex sindaco di Mosca Luzkhov, ha disseminato Mosca e molte altre nazioni di monumenti che, per le dimensioni colossali, le tinte funeree e la più assoluta assenza di levità ed eleganza, si sono guadagnati nomee sinistre. A Mosca Tsereteli è tristemente famoso per il monumento a Pietro il Grande, 98 metri di bronzo, acciaio e rame che troneggiano da un’isoletta nella Moscova, un cupissimo intrico di protuberanze, rilievi e panneggi che dovrebbe rappresentare lo zar nella sua veste di fondatore della Marina russa.  

Ma non si deve credere che il gigantismo sia una peculiarità del solo periodo sovietico. Tbilisi abbonda di edifici e strutture recenti a dir poco vistosi: la passione per l’architettura contemporanea dell’ex premier Saakashvili era famosa. Tra le tante opere che non passano inosservate, il Ponte della Pace dell’italianissimo Michele De Lucchi, soprannominato “l’assorbente” per la sua forma allungata e ondulata; la Rike Concert Hall, centro culturale a “binocolo” composto da due immensi tubi convergenti progettati da Massimiliano e Doriana Fuksas; sempre dei Fuksas, la Public Service Hall, un palazzo di vetro con una copertura costituita da undici “petali”. A Tbilisi incalzano la modernità, le comitive dei nuovi turisti, un desiderio di Occidente che è però sentito più nella metropoli che in periferia, tra i meravigliosi villaggi sui monti. Alla pulsione verso l’Europa e la Nato, percepite come necessaria tutela da un vicino troppo grande, si accompagna il forte timore che i valori occidentali collidano con le tradizioni e il sentimento etico-religioso radicati nella popolazione. La Georgia è ancora un Paese in cui Chiesa, famiglia e matrimonio sono al centro della vita sociale, e tutto ciò che non vi appartiene è tollerato solo se vissuto nella clandestinità. Èdi pochi giorni fa la censura espressa dal Consiglio d’Europa, che ha osservato come il Paese sia ancora carente nell’assicurare la libera espressione dell’orientamento sessuale: tra gli episodi citati, il più recente è il mancato svolgimento, a giugno, di una manifestazione simile ai Pride occidentali per l’assenza di misure a tutela dei manifestanti, oggetto di minacce e intimidazioni. Il Consiglio d’Europa rileva che “persiste un certo numero di gravi e sistemiche mancanze nella legislazione e nella prassi contro i crimini legati alla discriminazione, in particolare verso persone LGBTI”.  Per parte sua, la Chiesa ortodossa georgiana ha dichiarato sul punto che secondo la costituzione georgiana la libertà di espressione può trovare dei limiti qualora contrasti con i “valori morali” della società.

Nel ribollire di questa società in trasformazione, intanto, c’è chi manda i suoi ordini da lontano, inaccessibile. Sulle alture di Sololaki, un mostro smisurato in vetro e acciaio è visibile da ogni punto di Tbilisi: è un palazzo fantascientifico, un progetto da 50 milioni di dollari realizzato dal giapponese Shin Takamatsu, che per il suo aspetto da quartier generale della Spectre è noto come “la casa di James Bond”. Da lì, Bidzina Ivanishvili controlla, come un onnipresente sovrano, il presente e il futuro della sua nazione. 

 

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