Un veicolo militare russo nella regione del Nagorno-Karabakh. Foto: Reuters
Putin ed Erdoğan hanno trovato un accordo, sfruttando il difficile passaggio di poteri negli Usa, e a pagarne le spese sarà soprattutto la popolazione di lingua e cultura armena. È ufficiale, dopo qualche iniziale tentativo di smentita, la firma di un accordo che dovrebbe sospendere l’ultimo conflitto tra Armenia e Azerbaigian sul Nagorno-Karabak, regione azera storicamente a maggioranza armena.
Non ci sono dubbi sulla vittoria dell’Azerbaigian, che grazie all’aiuto turco ha riconquistato quasi tutto il territorio che aveva perso nel 1994. L’accordo è stato annunciato tramite un post su Facebook dal premier armeno Nikol Pashinyan, che lo ha definito necessario ma “incredibilmente doloroso”. E mentre su social e agenzie rimbalzano le immagini di colonne di profughi anche l'Armenia appare sull’orlo del caos, con continue manifestazioni di piazza ed esponenti della maggioranza aggrediti e picchiati per strada. Scenari da 8 settembre 1943 che gettano un’ombra pesantissima sulla sopravvivenza del governo democratico e liberale eletto appena due anni fa.
Intanto in quello che rimane dell'autoproclamata Repubblica del Nagorno-Karabak – Artsakh la situazione è drammatica: “Le fonti sul posto dicono che la popolazione armena è fuggita quasi per intero, almeno 100.000 persone su 140.000 hanno lasciato o stanno lasciando il Paese senza un piano di evacuazione e senza prospettive di tornare prima o poi nelle loro case”, spiega a Il Bo Live Simone Zoppellaro, giornalista e ricercatore che ha vissuto per sei anni tra Armenia e Iran. “Per ora resistono soltanto la capitale Stepanakert e alcuni piccoli territori a nord – continua il giornalista –. La parte sud e la città di Shushi (Şuşa) sono stati persi mentre il corridoio di Laçın, che collegava l’Artsakh all’Armenia, è ora controllato dai russi che hanno già dispiegato le loro truppe di peace-keeping”.
Cosa prevede l'accordo di pace tra #Armenia e #Azerbaigian sul #NagornoKarabakh mediato dalla #Russia.
— Radio Radicale (@RadioRadicale) November 10, 2020
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L’Armenia abbandonata da Mosca
Secondo Zoppellaro “l’accordo raggiunto tra le parti è l’ennesimo cessate il fuoco e non un vero e proprio trattato di pace; dal punto di vista militare inoltre il problema è che Stepanakert è indifendibile senza il controllo di Shushi, che sorge su un’altura a pochi chilometri dal centro della capitale”. Quattro anni fa lo scrittore ha pubblicato il libro Armenia oggi. Drammi e sfide di una nazione vivente (Guerini), in cui ci si sofferma a lungo anche sulla situazione del Nagorno-Karabakh. All’obiezione, fatta da alcuni osservatori, che l’autoproclamata Repubblica non aveva alcuna legittimità internazionale, Zoppellaro risponde: “È vero, non era riconosciuta da nessun governo: nemmeno dall’Armenia che la proteggeva e che controllava la buffer zone, la zona cuscinetto intorno ad essa. Bisogna però ricordare che sulla questione le risoluzioni Onu citano i cosiddetti principi di Madrid, accettati e promossi anche dal gruppo di Minsk: una roadmap che prevedeva sì la restituzione temporanea all’Azerbaigian, ma con la promessa di avviare un processo che permettesse l’autodeterminazione di una popolazione che era a stragrande maggioranza armena”.
Ancora una volta insomma il principio di integrità territoriale entra in conflitto con quello dell’autodeterminazione dei popoli: “Violenze e pulizia etnica ci sono state da entrambe le parti, ma non credo che una violenza del passato ne giustifichi una presente. La spirale che non è stata ancora fermata e continuerà a produrre nuove violenze, quando invece la storia d’Europa dovrebbe insegnarci che bisogna avere il coraggio di voltare determinate pagine e di riconciliarsi”.
Una riappacificazione tutt’altro che favorita dalla presenza sul campo di Russia e Turchia, con un Putin apparso insolitamente restio a prendere le parti del tradizionale alleato armeno. Da tempo del resto la Russia vendeva armi a Baku, arricchitasi negli ultimi anni grazie ai colossali introiti dai giacimenti del Mar Caspio, e a questo potrebbe essersi aggiunta la volontà di dare una lezione ad Erevan, colpevole agli occhi del presidente russo di guardare troppo a occidente. “Direi proprio che è andata così – conferma Zoppellaro –. Già da tempo non condivido la narrativa egemone che dipinge questo conflitto come una proxy war, una guerra per procura tra Russia e Turchia, e gli eventi di questi giorni mi sembrano confermarlo”.
È d’accordo con questa analisi Carlo Pallard, giovane storico e analista formatosi all'università di Torino: “la Russia mantiene e rafforza la sua presenza tutelare nella regione, anche se accetta di condividerla con la Turchia. La politica di Putin ha alcuni principi di base che non tutti comprendono, soprattutto tra i suoi fan europei: la Russia non ha alleati ma partner, e in questo momento storico il partner principale è la Turchia. Rispetto a questa priorità anche l'Armenia può essere sacrificata, come del resto fece già Lenin”.
Intervista di Daniele Mont D'Arpizio, montaggio di Elisa Speronello
Erdoğan vince ancora
“L’accordo raggiunto è importante non solo perché coinvolge Russia e Turchia, ma anche perché lascia fuori gli altri componenti del cosiddetto gruppo di Minsk, ovvero Stati Uniti e Francia – continua Pallard –. Allo stesso tempo tramonta anche il sogno di un’Armenia liberale che guarda a occidente: difficilmente il premier resisterà al potere e prima o poi sarà probabilmente sostituito da oligarchi filorussi sul modello delle altre repubbliche ex sovietiche”.
Intanto Erdoğan incassa l’ennesimo successo in politica estera: dopo aver esercitato negli ultimi anni un ruolo da protagonista in Siria, Libia, Corno d’Africa e Mediterraneo orientale, il presidente turco ora si proietta sempre a più a est e cerca di estendere la sua influenza sulle popolazioni turcofone dell’Asia centrale, in una linea d’azione virtualmente capace di arrivare fino agli Uiguri dello Xinjiang. Il potere di Erdoğan appare inoltre solidamente impiantato anche in Europa, sia nei Balcani che all’interno della stessa Unione Europea, dove sempre più spesso si erge a difensore delle comunità musulmane (come si visto nelle recenti polemiche su Charlie Hebdo e dallo stesso intervento pubblico nell’ultimo attentato a Vienna).
“Al momento non è ancora del tutto chiaro come la Turchia dispiegherà le sue truppe sullo scacchiere caucasico – riprende lo studioso torinese, che quest’anno ha dato alle stampe il libro Turchia. Dai generali a Erdoğan 1960-2020 (Eiffel edizioni) –. La cosa forse più importante a livello geopolitico è che sembra che l’Armenia abbia dovuto concedere all’Azerbaigian anche un corridoio che colleghi Baku all’exclave del Naxçıvan: questo permetterebbe alla Turchia di avere un accesso terrestre continuo al mar Caspio e alle sue ricchezze”.
Eppure dal punto di vista interno il presidente turco appare quanto mai in difficoltà: “È stranissima la parabola della Turchia di Erdoğan: ottiene forse il più grande successo geopolitico della sua storia repubblicana mentre la sua economia è sull'orlo dell'implosione e il regime sembra perdere pezzi – è l’analisi di Pallard –. Ultimamente il presidente turco ha licenziato il governatore della banca centrale Murat Uysal, ritenuto non abbastanza fedele alle politiche economiche populiste e sempre più scriteriate volute dal governo. Uysal era stato nominato poco più di un anno fa: in Turchia dai tempi del golpe del 1980 non era mai stato rimosso un governatore della banca centrale e adesso Erdoğan ne ha licenziati due in un anno. Successivamente si è dimesso anche il ministro delle finanze Berat Albayrak, ufficialmente per motivi di salute: anche questa è una delle novità più clamorose dal golpe del 2016, dato che si tratta del genero di Erdoğan ed era fino a poco tempo fa considerato il suo delfino e collaboratore più stretto”.
Lo scenario insomma è tutt’altro che chiaro e stabile: quello che intanto è certo è che anche il Caucaso è tornato ad essere una polveriera. “Oggi l’odio etnico tra azeri e armeni è più forte che mai – conclude Zoppellaro –. Le prospettive per una riconciliazione appaiono remote: c’è ancora tanto da fare, a partire da un accordo tra Armenia e Azerbaigian senza interferenze esterne. Senza è impossibile pensare a una pace vera”.