SOCIETÀ

La Corte Suprema USA contro l’agenzia ambientale: obiettivi climatici più lontani

La Corte Suprema statunitense, pochi giorni dopo aver abolito il diritto costituzionale all’aborto e una legge che limitava di portare armi negli spazi pubblici, ora prende una decisione che avrà gravi conseguenze per la lotta al cambiamento climatico.

Con una sentenza pubblicata il 30 giugno, ha limitato le capacità dell’agenzia per la protezione ambientale (EPA, Environmental Protection Agency) di regolare le emissioni delle industrie energetiche (in particolare quelle che producono energia elettrica da carbone e gas), rendendo così pressoché irraggiungibile, per il presidente Biden e per gli Stati Uniti, l’obiettivo di dimezzare le emissioni di CO2 entro il 2030.

Il pronunciamento della più alta corte della magistratura americana è stata votata dai 6 giudici conservatori e respinta dai 3 liberali. Questi ultimi hanno dichiarato che la maggioranza ha strappato dalle mani della EPA “il potere di rispondere alla più pressante sfida ambientale del nostro tempo”, riporta il New York Times.

La sinistra del Paese ha criticato fortemente la decisione della Corte Suprema, mentre parti dell’industria del carbone e alcuni Stati conservatori l’hanno accolta con favore. Joe Biden l’ha definita “un’altra decisione devastante che mira a portare indietro il nostro Paese”. E ha aggiunto: “non possiamo ignorare, e non lo faremo, le minacce alla sopravvivenza e alla salute pubblica che la crisi climatica ci pone di fronte”.

Il lavoro dei giudici della Corte Suprema in questo caso verteva sull’interpretazione del Clean Air Act, la principale legge federale sulla qualità dell’aria degli Stati Uniti. Nel 2015, sotto l’amministrazione Obama, l’EPA aveva promulgato il regolamento Clean Power Plant volto appunto a regolamentare, tramite il Clean Air Act, le emissioni di gas serra delle centrali a carbone e a gas che producono energia elettrica.

L’iniziativa faceva parte di una visione più ampia volta a ridurre del 32% le emissioni entro il 2030 (rispetto ai livelli del 2005). Già nel 2016 però la Corte Suprema aveva bloccato il piano, in attesa della soluzione di alcuni contenziosi tra industrie e Stati.

Ora con la decisione del 30 giugno, la Corte ha sostanzialmente contestato all’EPA il fatto che il Congresso non avesse conferito all’agenzia una vera e propria autorità di regolamentare il settore dell’industria energetica. Più in generale, la maggioranza conservatrice della Corte si dimostra molto scettica sul fatto che le agenzie amministrative siano gli organi adatti ad affrontare le grandi sfide del Paese e del pianeta, senza un esplicito mandato del Congresso, specialmente quando in ballo ci sono questioni politiche o economiche.

Durante la pandemia, ad esempio, la Corte Suprema aveva decretato che il Centro per la Prevenzione e il Controllo delle Malattie (CDCP – Centers for Disease Control and Prevention) non poteva sospendere gli sfratti, decisione che per il CDCP sarebbe servita a limitare la circolazione di persone, in un periodo di diffusione del contagio, che altrimenti non avrebbero avuto una casa in cui stare.

Allo stesso modo la Corte aveva decretato che la Occupational Safety and Health Administration, agenzia del Dipartimento del Lavoro, non avesse potere di dire alle grandi aziende se vaccinare i propri lavoratori o sottoporli a test di frequente. La contrapposizione alle azioni dell’EPA è quindi solo l’ultima di una serie.

“L’EPA non può più mettere da parte il Congresso per esercitare un ampio potere regolatorio che trasformerebbe radicalmente la rete energetica nazionale e forzerebbe gli Stati fondamentalmente a togliere dal proprio portafoglio energetico la generazione di energia dal carbone” ha dichiarato Patrick Morrisey, procuratore generale della Virginia dell’Ovest, tra i principali promotori dell’azione legale contro l’EPA (al suo fianco una ventina di Stati Repubblicani e diverse industrie energetiche).

Il West Virginia è altamente dipendente dall’industria del carbone e anche il senatore democratico dello Stato Joe Manchin III (espressione di quell’industria) è stato uno dei principali oppositori del cosiddetto climate bill, un pacchetto di enormi investimenti che Biden aveva proposto per combattere il cambiamento climatico (sostituendo il carbone con le rinnovabili), ma che è stato fortemente ridimensionato e depotenziato nei passaggi al Congresso.

La decisione della Corte Suprema non impedirà completamente all’EPA di regolamentare le emissioni dell’industria energetica statunitense, ma secondo molti esperti limiterà fortemente il suo potere nella lotta al cambiamento climatico. Obama prima e Biden poi speravano di accelerare la transizione alle energie rinnovabili anche con l’aiuto dell’agenzia per la protezione ambientale. Questo ora non sarà possibile e di conseguenza si allontana l’obiettivo aggiornato di quasi dimezzare le emissioni entro il 2030.

Gli Stati Uniti possono ancora lavorare al taglio delle emissioni di metano e alla transizione verso una mobilità elettrica. Dovrebbero anche ridurre le estrazioni di petrolio e gas, come chiede anche l’Agenzia Internazionale dell’Energia per rispettare gli impegni climatici. Tuttavia la guerra in Ucraina ha spinto anche l’amministrazione Biden, e in particolare la segretaria dell’energia Jennifer Granholm, a chiedere alle proprie industrie nazionali di estrarre più gas e più petrolio.

Non rispettando i propri impegni climatici gli Stati Uniti contribuirebbero ad aumentare la concentrazione di anidride carbonica in atmosfera (già ai suoi livelli record da 800.000 anni: 412 ppm) e la temperatura del pianeta (che dall’era preindustriale è già salita di 1,1°C). Mantenerla al di sotto di 1,5°C, come previsto dagli accordi di Parigi (da cui l’amministrazione Trump era voluta uscire), sembra ora un’impresa difficilmente realizzabile senza il contributo decisivo degli Stati Uniti.

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