SOCIETÀ

Israele e Palestina, la storia è rimandata: il discorso di Lapid all'ONU non convince

«Israele sostiene la soluzione dei due stati», ha dichiarato poche ore fa il primo ministro israeliano Yair Lapid, intervenendo all’Assemblea Generale dell’Onu, presentandola come la “soluzione del conflitto con i palestinesi”. «Un accordo con i palestinesi, basato su due stati per due popoli, è la cosa giusta per la sicurezza di Israele, per l’economia israeliana e per il futuro dei nostri figli», ha detto Lapid, ponendo comunque una condizione: «Che un futuro Stato palestinese sia pacifico. Che non diventi un'altra base terroristica da cui minacciare il benessere e l’esistenza stessa di Israele. Che avremo la capacità di proteggere la sicurezza di tutti i cittadini di Israele, in ogni momento. La maggior parte degli israeliani sostiene una soluzione a due stati: e io sono uno di loro. La pace non è un compromesso. È la decisione più coraggiosa che possiamo prendere». «Dico da qui alla gente di Gaza, siamo pronti ad aiutarvi a costruire una vita migliore, a costruire un'economia. Abbiamo solo una condizione: smettere di sparare razzi e missili contro i nostri figli». Parole del genere, sul più grande palcoscenico internazionale, di fronte ai più influenti leader mondiali, non si ascoltavano da diversi anni. L’ultimo a pronunciarle, pur differenti nei toni, fu l’ex premier Benjamin Netanyahu, nel 2016, che ha poi ha cancellato l’argomento dal suo vocabolario, come tutti i partiti di destra, arrivando a proporre nel 2020, di concerto con Donald Trump, i fallimentari Accordi di Abramo.

Un’ondata di critiche

Ma l’intervento di Yair Lapid, al netto della sua valenza emotiva, non può essere considerato un passaggio storico, né l’avvio di una nuova stagione nella politica estera d’Israele. È piuttosto una mossa, di certo coraggiosa, perfino azzardata, che s’inserisce a pieno titolo nell’ennesima campagna elettorale israeliana (Lapid è il leader di Yesh Atid, partito centrista e laico) alla vigilia dalle elezioni che si svolgeranno domenica 1 novembre, le quinte in meno di 4 anni. Al punto che le reazioni interne, sia dall’opposizione, sia dai suoi stessi alleati di governo, sono state furiose. L’ex premier supplente Naftali Bennett, leader del partito di estrema destra Yamina alleato di Yesh Atid (tra Bennett e Lapid era stata prevista una “staffetta” all’inizio del mandato), ha dichiarato: «Non c’è spazio né logica nel far riemergere l’idea di uno stato palestinese. Siamo nel 2022, non nel 1993 (anno in cui furono siglati gli Accordi di Oslo, ndr). Anche i veri amici dello Stato d’Israele non si aspettano che accettiamo compromessi sulla nostra sicurezza e sul nostro futuro». Ancor più drastico il commento della ministra dell’Interno, Ayelet Shaked, capo del partito di destra Jewish Home, che ha twittato: «Lapid non ha alcuna legittimità pubblica per intrappolare Israele con dichiarazioni che causano danni al Paese. Lapid sta parlando a nome di sé stesso, non per conto del governo». Mentre per Gideon Sa'ar (partito dell’Unità Nazionale), ministro della Giustizia, «…l’instaurazione di uno stato terroristico in Giudea e Samaria (nome biblico della Cisgiordania, ndr) metterà in pericolo la sicurezza di Israele. La maggioranza della popolazione israeliana e i suoi rappresentanti lo impediranno». La replica del Likud, il partito ora all’opposizione dell’ex premier Netanyahu, è stata sprezzante: «Dopo che Lapid ha formato il primo governo israelo-palestinese, ora vuole consegnare i territori della nostra patria ai nostri nemici». Lo stesso Netanyahu ha definito l’intervento di Lapid all’Onu «…un discorso pieno di debolezza, di sconfitta, con il capo chino. Dopo che il governo di destra da me guidato ha rimosso la questione dello Stato palestinese dall’agenda mondiale, Lapid sta riportando i palestinesi in prima linea sulla scena e mettendo Israele proprio nel buco palestinese». Anche il leader del Religious Zionist Party, Betzalel Smotrich, ha sostenuto che «il discorso di Lapid è un ritorno ai giorni maledetti di Oslo».

L’influenza delle imminenti elezioni in Israele

La fragilità della posizione di Yair Lapid è evidente. Entrato in carica il 1° luglio scorso, in virtù della staffetta concordata con Bennett (che è stato primo ministro per un anno, da giugno 2021), sa che il suo mandato terminerà tra pochissimo. E ha scelto di rischiare, lui che viene considerato uno dei politici più prudenti e calcolatori degli ultimi anni. Di riportare in primo piano l’argomento in assoluto più divisivo per la politica israeliana, attirandosi contro le critiche di gran parte delle formazioni politiche, il che però gli ha consentito di ottenere un’attenzione, una visibilità (e un plauso) internazionale che altrimenti mai avrebbe avuto. Ha sfruttato la sua breve occasione, probabilmente per accreditarsi come “capofila” di quanti sostengono, soprattutto a sinistra (e oggi a sinistra, in Israele, c’è un deserto di rappresentanza), la necessità del dialogo con i palestinesi. Quasi a porsi, nella consapevolezza che non sarà di certo lui il prossimo primo ministro, come “contraltare” allo strapotere della destra e dell’estrema destra. Alcuni suoi collaboratori, quando è stato reso noto il contenuto del suo discorso, hanno commentato così: «Stiamo andando alle elezioni, dobbiamo mettere sul tavolo le nostre posizioni».

Certo per lui non sarà facile d’ora in avanti stringere alleanze: come se si fosse già seduto, da solo, sui banchi dell’opposizione. «Ma almeno Lapid è stato onesto», ha commentato sul Jerusalem Post l’editorialista Lahav Harkov. «Per decenni ha sostenuto, anche quando lavorava come giornalista, una soluzione a due stati. E quando gli è stato chiesto direttamente – e gli è stato chiesto in quasi tutti i briefing che ha guidato come ministro degli Esteri – ha sempre risposto di sì, che dovrebbe esserci una soluzione a due stati e che Israele e i palestinesi hanno bisogno di una completa separazione l’uno dall’altro. E ha anche incontrato due volte l’alto funzionario dell’Autorità Palestinese Hussein al-Sheikh, con dispiacere di Bennett». Anche se questa volta, stando a quanto riferisce ancora il Jerusalem Post, Lapid non ha espresso l’intenzione di incontrare il presidente dell’Autorità palestinese Mahmoud Abbas, soprattutto dopo le sue parole pronunciate il mese scorso in Germania, quando ha accusato Israele di aver commesso "50 olocausti contro i palestinesi”. Wasel Abu Youssef, esponente dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, ha dichiarato alla Reuters che «le parole di Lapid non significano nulla. Chiunque voglia una soluzione a due stati deve attuarla sul campo, rispettando gli accordi precedentemente raggiunti, bloccando l’espansione degli insediamenti e riconoscendo Gerusalemme Est come capitale di un futuro stato palestinese».

Un vicolo cieco

Dunque no: nulla di quel che Lapid ha prospettato davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite avverrà, almeno non nel breve periodo. Gli ultimi sondaggi dicono che Benjamin Netanyahu, che nonostante gli scandali e i processi da cui deve ancora difendersi ora potrebbe giocarsi la carta di essere “il male minore” (sia di fronte all’elettorato, ma soprattutto verso quei partiti, anche di destra, che avevano giurato di non allearsi mai più con il feroce king maker della politica israeliana), avrebbe i numeri per raggiungere la maggioranza in Parlamento (tra 61 e 62 seggi, sui 120 della Knesset) e tornare così in sella. Come dire: la mossa di Lapid potrebbe portare aver portato un nuovo argomento alla destra, contribuendo a far vincere il voto o l’alleanza “di paura”. Anche perché la tensione tra israeliani e palestinesi non accenna a diminuire, in quest’anno costellato da un continuo crescendo di attacchi: cinque gli attentati palestinesi in Cisgiordania soltanto la scorsa settimana (negli assalti tra marzo e maggio sono state 19 le vittime israeliane), mentre Israele ha lanciato l’operazione antiterrorismo Breakwater (oltre 1500 arresti, circa 100 palestinesi uccisi). Una qualsiasi forma di pace, o di tregua, sembra sempre più un irraggiungibile miraggio.

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