SOCIETÀ

Emissioni di metano in crescita nonostante ridurle sia semplice

Il settore energetico e in particolare quello dei combustibili fossili è responsabile, secondo solo al settore agricolo, di circa il 40% delle emissioni antropiche annuali di metano, un gas con un’azione climalterante decine di volte superiore all’anidride carbonica.

Dalla rivoluzione industriale la temperatura del pianeta è già salita di quasi 1,2°C e circa il 30% di questo riscaldamento è ascrivibile proprio al metano incombusto che si accumula in atmosfera. Oggi i suoi livelli di concentrazione sono sopra le 1900 parti per miliardo, un valore tra le 3 e le 4 volte più alto di quello di 150 anni fa.

A differenza della CO2, che permane in atmosfera per centinaia di anni, il metano è un inquinante climatico di breve durata: si degrada in una decina di anni. Questo significa anche che riducendo oggi le sue emissioni si osserverebbero risultati concreti sul fronte della mitigazione del cambiamento climatico nel breve termine.

Nel giro di un paio di decenni, se si dimezzassero le emissioni di metano si eviterebbero 0,3°C di aumento del riscaldamento globale. Stati Uniti e Unione Europea, con il Global Methane Pledge lanciato alla COP26 di Glasgow nel 2021, hanno proposto di tagliarle del 30% entro il 2030 e da allora hanno aderito 150 Paesi, responsabili del 55% delle emissioni di metano globali e del 45% di quelle del settore energetico. L’accordo prevede il taglio delle emissioni provenienti non solo dal settore energetico, ma anche da quello agricolo, dei rifiuti e altri.

Raggiungere quest’obiettivo è indispensabile per contenere il riscaldamento globale entro 1,5°C e per mantenere in vita gli accordi di Parigi. Le cose tuttavia non sembrano andare per il verso giusto.


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Nel 2022 i prezzi dell’energia sono letteralmente esplosi e in particolare quelli del gas naturale sono schizzati alle stelle. Nonostante ciò, una parte consistente di quel gas è finito in atmosfera, invenduto e incombusto, principalmente durante le operazioni di estrazione e di trasporto dell’energia.

Secondo il rapporto Global Methane Tracker 2023 dell’Agenzia Internazionale dell’Energia, l’anno scorso l’industria energetica ha rilasciato direttamente in atmosfera 135 milioni di tonnellate di metano, una quantità in crescita rispetto al 2021 e di poco inferiore al record raggiunto nel 2019 prima della pandemia.

Grazie alle immagini satellitari oggi disponibili, e ai metodi di analisi ad esse associate, con un investimento adeguato in manutenzione e con una migliore programmazione delle estrazioni, ridurre le emissioni sarebbe relativamente semplice, oltre che conveniente, dato che le compagnie non vedrebbero letteralmente volatilizzata la propria merce.

“Le emissioni di metano del settore Oil&Gas potrebbero venire ridotte del 75% con le tecnologie esistenti, il che evidenzia una carenza di azione da parte dell’industria su una questione che spesso è molto poco costosa da affrontare” scrive nel suo comunicato la stessa IEA, che punta i riflettori sugli extra-profitti: “sarebbe richiesto meno del 3% dei proventi accumulati lo scorso anno dalle compagnie di combustibili fossili per raggiungere l’investimento di 100 miliardi di dollari necessari a ottenere tale riduzione”.

Il direttore esecutivo dell’Agenzia, Fatih Birol, rincara la dose, proponendo un paragone allarmante: “Non ci sono scuse. L’esplosione del condotto Nord Stream l’anno scorso ha rilasciato un enorme quantità di metano in atmosfera. Ma le normali operazioni dell’industria Oil&Gas in giro per il mondo rilasciano ogni giorno la stessa quantità di metano derivata dall’esplosione di Nord Stream”.

Birol fa riferimento soprattutto alle operazioni di flaring e venting, rispettivamente fiammate e sfoghi di gas dalla sommità dei camini degli impianti. Le prime sono ben visibili a occhi nudo i secondi invece no, perché il metano è trasparente e inodore. Un’inchiesta di Clean Air Task Force nell’aprile 2021 aveva rivelato che le emissioni invisibili in Europa sono molte più di quanto ufficialmente dichiarato.

I dati satellitari dalla IEA nel 2022 hanno mostrato più di 500 super eventi emissivi derivanti dalle operazioni su petrolio e gas e oltre 100 dalle miniere di carbone.

Il Guardian ha recentemente condotto un’indagine su un migliaio di eventi emissivi, tra cui rientrano le operazioni di fracking, un metodo di estrazione degli idrocarburi altamente impattante sull’ambiente, sia in termini di emissioni, sia in termini di inquinamento delle falde acquifere, in quanto vengono utilizzati getti d’acqua ad alta pressione per fratturare le rocce nel sottosuolo da cui estrarre petrolio e gas.

Un sito estrattivo in Pennsylvania ha rilasciato circa 28 milioni di tonnellate di metano (1 miliardo di piedi cubi, secondo i dati satellitari analizzati da Kayrros), mettendo a repentaglio la salute di un milione e mezzo di persone che vivono entro un raggio di mezzo miglio dal sito di Rager Mountain.

Sembra un paradosso, ma anche in un anno, il 2022, in cui il gas naturale si vendeva a peso d’oro, a domanda soddisfatta le grandi compagnie hanno ritenuto più semplice o vantaggioso bruciare in atmosfera quello estratto in eccesso, invece di stoccarlo. Allo stesso modo hanno valutato come non prioritario un investimento nella manutenzione degli impianti per prevenire fughe dalle condutture.

Ogni anno, riporta la IEA, l’industria dei combustibili fossili perde in atmosfera circa 260 miliardi di metri cubi di metano. Tre quarti di questi potrebbero venire recuperati, ovvero più di quanto l’Europa, prima della guerra in Ucraina, importava dalla Russia in un anno (circa 155 miliardi di metri cubi).

“Fermare le operazioni di flaring e venting non emergenziali è la misura più impattante che i Paesi possono mettere in atto per controllare le emissioni” scrive la IEA. “I produttori di combustibili fossili devono agire e i decisori politici devono entrare in gioco, e farlo velocemente”.

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