SOCIETÀ

La sete d'acqua dell'Iraq

Di giorno in giorno l’orizzonte per l’Iraq diventa sempre più arido. Temperature di fuoco, soprattutto nel sud del paese, piogge sempre più rare, corsi d’acqua ridotti a rigagnoli, con i deserti che avanzano e si mangiano le terre un tempo fertili, paludi prosciugate come le speranze dei contadini, che nulla più hanno se non la prospettiva di lasciarsi i loro villaggi alle spalle e di tentare la sorte avvicinandosi alle città. Anche il Tigri e l’Eufrate, i poderosi fiumi gemelli che per millenni hanno garantito la sopravvivenza delle comunità agricole (dalla Turchia alla Siria, all’Iran, per sfociare infine nel Golfo Persico) sono ai minimi storici: i flussi fluviali sono diminuiti del 40% negli ultimi quattro decenni. E già nel 2021 un rapporto del governo iracheno aveva avvisato che i due fiumi sono destinati a prosciugarsi entro il 2040 per colpa della siccità, esasperata dai cambiamenti climatici. Così i raccolti vanno a male: i semi piantati non riescono a sopravvivere. La produzione del tipico riso ambrato iracheno a chicco lungo è ormai poco più che simbolica. Le risaie, piantate a maggio, dovrebbero restare sommerse fino a ottobre: un lusso, un doloroso ricordo. Le riserve idriche del paese si sono ridotte della metà: e spesso chi scava pozzi trova soltanto acqua salata. Ma l’uso non regolamentato del sottosuolo sta provocando ulteriori danni: nella regione meridionale di Samawa, lo scavo illegale di pozzi ha portato alla totale scomparsa del lago Sawa. Il ministero iracheno delle risorse idriche stima che un ulteriore 25% dell’acqua dolce rimasta andrà perduto nel prossimo decennio. Gli allevatori non hanno più pascoli per le loro bestie. I pescatori non hanno più acqua né pesce dove andate a cercare sostentamento. Ondate di calore insopportabile (in alcune regioni meridionali tra aprile e ottobre si superano spesso i quaranta gradi, con punte che sfiorano i 50°) si sommano a tempeste di sabbia quasi quotidiane: lo scorso anno il ministero dell’ambiente iracheno ha stimato che nei prossimi due decenni la media dei fenomeni di sandstorms, più o meno intensi, potrebbe attestarsi a 272 giorni l’anno, per superare quota 300 entro il 2050. In quelle più violente, quando il cielo diventa color ocra, si respira polvere e terra, con migliaia di persone costrette a chiedere assistenza medica: accade spesso anche a Baghdad, una delle capitali più calde del mondo. Secondo Jaafar Jotheri, geo-archeologo dell’Università di al Qadisiyah di Baghdad, «più il suolo è secco e privo di vegetazione più si presta a generare tempeste di sabbia quando soffiano venti intensi. E l’Iraq è particolarmente vulnerabile: negli ultimi anni le risorse idriche sono state gestite male, l’urbanizzazione è aumentata. E, soprattutto, il paese ha perso più di due terzi della sua copertura verde». Entro il 2035, si stima che l'Iraq avrà la capacità di soddisfare appena il 15% del suo fabbisogno idrico. Circa il 90% dei fiumi iracheni è inquinato e sette milioni di persone (un sesto della popolazione totale) soffrono di un “accesso ridotto” all’acqua. «L’evaporazione - scrive The Century Foundation - è un altro problema che affligge l’approvvigionamento idrico dell’Iraq. La gestione delle risorse si basa su una filosofia di gestione delle inondazioni, con bacini idrici e dighe costruiti essenzialmente per proteggere le grandi città dalle inondazioni. Questi serbatoi immagazzinano acqua in inverno e in primavera per l’uso in estate. Ma i bacini idrici sono particolarmente suscettibili all’evaporazione, specialmente nelle calde e secche estati irachene. Di conseguenza, l’Iraq perde ogni anno più di 10 miliardi di metri cubi di acqua per evaporazione».

Si tratta con ogni evidenza di una catastrofe ambientale e sociale, in una terra straziata dai conflitti, da decenni di guerre, di dittature, di instabilità, di governi che si sono dimostrati incapaci di gestire la tutela delle risorse idriche, senza riuscire a raggiungere accordi di alcun genere con i paesi confinanti. Le dighe costruite a monte (in Turchia, in Iran) hanno cambiato e diminuito sensibilmente la portata idrica del Tigri e dell'Eufrate. Ma già nel 2019, un rapporto delle Nazioni Unite aveva classificato l’Iraq come il quinto paese più vulnerabile al mondo in termini di disponibilità di acqua e cibo ed esposizione a temperature estreme. Temperature che stanno aumentando fino a sette volte più velocemente della media globale, mentre si prevede che le precipitazioni annuali diminuiranno del 9% entro il 2050. Condizioni che stanno scatenando una gravissima emergenza sanitaria. Come scrive il British Medical Journal, in un report pubblicato lo scorso marzo: «Nell’estate del 2018, il 90% della popolazione di Basra (Bassora) - la città per sempre legata ai viaggi di Sinbad il Marinaio e un campo di battaglia chiave nelle guerre del Golfo e dell’Iraq - non aveva accesso all’acqua dolce sicura. Tra agosto e ottobre 2018 sono stati registrati 100.000 casi di malattie legate all’acqua. Nell’agosto 2021, l’Unicef ha stimato che circa tre bambini su cinque in Iraq non avevano accesso a servizi idrici gestiti in modo sicuro. Gli epidemiologi del governatorato iracheno di Dhi Qar hanno detto che gli abitanti dei villaggi hanno iniziato a dipendere dalle acque sotterranee dei pozzi. Ma tale acqua è contaminata da batteri e non adatta al consumo: questo ha causato la diffusione della febbre tifoide e del colera». Il BMJ ha anche interpellato Naseer Baqar, attivista per il clima e coordinatore della Tigris River Protectors Association in Iraq: «Diarrea, varicella, morbillo, febbre tifoide e colera si stanno attualmente diffondendo in tutto l’Iraq a causa della crisi idrica e il governo non fornisce più vaccini ai suoi cittadini», sostiene l’attivista.

Clima, uomo, petrolio

La crisi idrica irachena è il combinato disposto di una somma di fattori. A partire dal clima, con l’uomo che, come al solito, ci ha messo del suo: l’inadeguatezza dei funzionari politici nella gestione complessiva delle risorse, l’incapacità di stringere accordi internazionali (le dighe a monte sono un problema reale) e di prevedere gli effetti di un’emergenza più volte annunciata, l’inquinamento progressivo dei fiumi. Ma c’è anche un’altra ragione che ha non provocato, ma di certo esasperato l’attuale situazione di crisi idrica. Parliamo di petrolio, la più grande ricchezza dell’Iraq, che è il secondo produttore dell’Opec, l’Organizzazione dei paesi esportatori, con la quinta più grande riserva di greggio del mondo, pari a circa 145 miliardi di barili. Un business fondamentalmente in mano alle compagnie straniere, soprattutto tre: l’italiana Eni, la britannica BP e la statunitense Exxon Mobile (oltre a PetroChina e alla locale South Oil Company of Iraq). Dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, il valore delle esportazioni di petrolio è cresciuto del 9%: le entrate, nel 2022, sono valutate 115,5 miliardi di dollari. E in Iraq, all’Iraq, restano le briciole. Ma il punto è nel metodo utilizzato dalle compagnie petrolifere: per estrarre il greggio si adotta la tecnica dell’iniezione d’acqua (qui nel dettaglio). E le proporzioni sono considerevoli: per estrarre un barile di petrolio bisogna iniettare nel terreno da un barile e mezzo a 3 barili d’acqua. E se l’acqua non c’è? Gli iracheni se la prendono apertamente con le compagnie petrolifere, soprattutto Eni, accusata di aver costruito una piccola diga per deviare l’acqua dal canale di Bassora fino al suo impianto di trattamento delle acque. The Guardian riporta una dichiarazione di Eni, nel quale l’azienda italiana sostiene che «…non è stata utilizzata acqua dolce dalla società in quanto l’acqua dei canali è salata e inquinata, e quindi non è in competizione con altri usi». In un’altra risposta scritta, Eni ha precisato che «…nel 2022 sono stati iniettati mediamente 470mila barili/giorno di acqua per poter sostenere la pressione del giacimento e i livelli di produzione».

Due giornaliste italiane, Sara Manisera e Daniela Sala, hanno pubblicato lo scorso aprile su IrpiMedia (Investigative Reporting Project Italy) un reportage dal quale emerge come l’industria del petrolio sia quantomeno corresponsabile del peggioramento della crisi idrica irachena: «Come Zubair, la maggior parte dei giacimenti del Sud dell’Iraq si rifornisce di acqua grazie all’impianto di Qarmat Ali, cinque miglia a sud di Al Khora. Costruito negli anni ‘70, è attualmente gestito dal Rumaila Operating Organization (ROO), un consorzio di cui la multinazionale britannica British Petroleum possiede il 47,7% delle azioni. L’acqua, prelevata da un canale collegato al fiume omonimo, viene prima trattata e poi, attraverso un sistema di tubature in superficie, distribuita ai vari giacimenti del sud, tra cui Rumaila e Zubair dove operano BP e Eni. A IrpiMedia, l’accesso all’impianto di Qarmat Ali è stato negato». Anche in questo caso Eni ha escluso “un impatto su riduzioni dei volumi di acqua potenzialmente utilizzabile per altri scopi”. Ma le giornaliste precisano: «Se è vero che l’acqua dei fiumi e dei canali, utilizzata dalle compagnie petrolifere, è di scarsa qualità a causa della concentrazione di sale e di altri inquinanti, non è vero però che non sia utilizzata per altri scopi. Se depurata quest’acqua può essere utilizzata dai cittadini per uso domestico. Poco più a valle dell’impianto di Al Khora e di quello di Qarmat Ali, i canali da cui le compagnie si riforniscono di acqua confluiscono in un impianto pubblico di depurazione, conosciuto come R0 (R Zero). Il 35% dell’acqua usata nelle case di Basra (Bassora) viene proprio da qui. Inoltre l’acqua, pur salmastra, consentiva la navigazione e la pesca in quello che restava del delicato ecosistema delle paludi». Infine una descrizione dell’impianto di Zubir: «Il giacimento è militarizzato e pressoché inaccessibile», scrivono Sara Manisera e Daniela Sala. «Il panorama dei dintorni è desolante: aree che un tempo erano agricole e ora sono inquinate, case prive di allacciamento all’elettricità, strade malconce, rifiuti sparsi un po’ ovunque. Un ritratto che stride con le promesse di Eni di “creare sviluppo e stabilità anche in Iraq”». Sempre The Guardian riporta una dichiarazione di Walid al-Hamid, capo dell’agenzia ambientale dell’Iraq meridionale, il dipartimento che sovrintende alle ispezioni dei giacimenti petroliferi e che può imporre sanzioni per danni ambientali: «Contrariamente ad altri paesi in cui operano, in Iraq la maggior parte delle compagnie petrolifere straniere non fa nulla per limitare il proprio impatto ambientale: per loro è solo più economico continuare a inquinare l’ambiente». Il Guardian rivela inoltre che, in un documento da loro visionato, Eni e BP sono nell’elenco delle società multate: «Ma molte delle multe - sostiene Walid al-Hamid - non sono mai state pagate».

Migranti climatici e demografia

E più la terra diventa arida, più quelli che un tempo erano contadini, o allevatori, o pescatori, lasciano i loro villaggi (con le loro famiglie) e tentano di trovare fortuna nelle città. Dove “fortuna” dev’essere intesa come sopravvivenza. Dove “città” vuol dire spesso vivere in baraccopoli, dove “lavoro” vuol dire adattarsi a quel che si trova. La fuga rurale sta comunque aumentando in modo insopportabile la pressione sulle aree urbane dove le infrastrutture sono fatiscenti dopo decenni di conflitti, corruzione e cattiva gestione. Scrive l’Onu, in un rapporto appena pubblicato: «In assenza di servizi pubblici sufficienti e di opportunità economiche, l’urbanizzazione e la mobilità legate al clima possono rafforzare le strutture preesistenti di emarginazione ed esclusione. È concreto il rischio che da questa situazione possano nascere disordini sociali». Senza dimenticare che l’Iraq deve comunque fare i conti con un tasso di crescita demografica al 2,3%, ben superiore alla media globale: oggi gli iracheni sono circa 43 milioni, ma si stima che la popolazione raggiungerà i 50 milioni entro il 2030, i 70 milioni entro il 2050, i 100 milioni entro il 2085.

Intanto la situazione politica irachena resta una polveriera di instabilità. Pochi giorni fa l’Onu ha esortato il governo iracheno (dopo uno stallo durato più di un anno, a ottobre 2022 sono stati eletti il presidente Abdul Latif Rashid e il primo ministro Mohammad Shia al-Sudani, alleato di lunga data dell’Iran) a proseguire nel percorso di riforme e a combattere sia la corruzione sia le infiltrazioni nelle istituzioni di al-Qaeda e di altri gruppi terroristici. «Vent’anni dopo che l’invasione degli Stati Uniti ha rovesciato il dittatore di lunga data Saddam Hussein, l'Iraq è ancora alla ricerca di stabilità», sostiene il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che ha incoraggiato il governo di al-Sudani non solo a realizzare riforme e affrontare la corruzione, ma a proteggere e rispettare i diritti umani di tutti gli iracheni, promuovere la responsabilità per le violazioni dei diritti, fornire servizi essenziali, diversificare l’economia dipendente dal petrolio, creare posti di lavoro, migliorare la governance, combattere i cambiamenti climatici e rafforzare il settore della sicurezza.

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