CULTURA

Gli spazi dell'ospedale, dal medioevo a oggi

Il dibattito sulla necessità di adeguare le strutture ospedaliere padovane, di ricollocarle, conservarle, ampliarle o convertirle non è nuovo per la città. Ciclicamente a Padova, come in qualsiasi altra città, l’edilizia per la cura e la ricerca sanitaria viene sottoposta a richieste di aggiornamento, ed insegue necessariamente nuove teorie costruttive, tecniche mediche e bisogni sociali.

Su questo argomento si sviluppa la mostra, in questi giorni aperta al Musme, il Museo di Storia della medicina in Padova, “Luoghi e spazi della salute. Immagini, progetti e disegni degli archivi ospedalieri di Padova”. Vi si racconta di un inizio, durante il Medioevo, in cui la cura della salute non si esercitava in un unico luogo, ma in decine di piccoli ospitali distribuiti a ridosso delle porte della città, appena dentro e appena fuori delle mura. “La sanità si è sempre accompagnata al concetto di ospitalità. Questo sistema policentrico di accoglienza e sollievo non ospitava solo i malati, ma anche i poveri e i bisognosi. Il numero di queste strutture si ridusse all’improvviso nel secondo decennio del 1500, quando gli ospitali esterni alle mura vennero spazzati via nella formazione del guasto da parte dei veneziani”, rileva Maurizio Rippa Bonati, componente del comitato scientifico del Musme.

Uno di questi ospitali, posto accanto alle mura Trecentesche, era costituito dal complesso di San Francesco, attivo a partire dal secondo decennio del 1400. Grazie ad un recente restauro, l’edificio, oggi sede proprio del Musme, conserva idealmente le linee del chiostro originale, “una forma ideale per l’edilizia ospedaliera” sottolinea Rippa Bonati, “che consente soleggiamento e arieggiamento, e che viene chiaramente mutuata dalla tradizione monastica”.

Una soluzione, quella degli spazi disposti attorno a tre ampi chiostri, che venne adottata nella nuova sede dell’ospedale quando, nel corso del Settecento, l’antico complesso di San Francesco iniziò a rivelarsi insufficiente per i bisogni della città. Il progetto per la nuova sede, da costruirsi sul luogo del convento dismesso dei Gesuiti, era stato affidato all’architetto Domenico Cerato, che aveva sperimentato diverse soluzioni progettuali prima di tradurre in opera la soluzione finale a partire dal 1778; quello che venne poi indicato come ospedale Giustinianeo venne inaugurato vent’anni dopo. 

Ma già un secolo più tardi quell’edificio si sarebbe rivelato inadeguato. Spiega infatti Stefano Zaggia, consulente scientifico della mostra: “Dall’Ottocento in poi gli edifici ospedalieri diventano come delle fabbriche, che devono essere pronte al repentino e continuo cambiamento delle tecniche, delle cure, delle necessità, dell’evoluzione delle teorie mediche e degli spazi adatti per applicarle. Questi edifici si moltiplicano per rispondere in modo specifico a bisogni particolari”. Ecco allora che, oltre a essere realizzati molti cambiamenti interni nell’edificio progettato da Cerato, vengono costruite nuove strutture architettoniche di servizio e cura.

Nei primi anni del Novecento i progetti si susseguono a ritmo ancor più sostenuto e si realizzano complessi specialistici isolati, cliniche, padiglioni autonomi e sanatori. Fra il 1906 e il 1911 vengono elaborati ulteriori piani di ampliamento e di riordino del Giustinianeo, mentre nuove costruzioni vengono predisposte sulla base di specifiche beneficenze private, come i padiglioni per la pediatria e per le cure dermosifilopatiche.

Nel frattempo maturano esigenze specifiche di cura e assistenza nei confronti di malattie infettive o di condizioni di salute particolari. Per la cura della tubercolosi vengono adottati provvedimenti sia sul piano della profilassi, ad esempio con la costruzione delle scuole all’aperto, che della cura. 

L’amministrazione provinciale, a seguito di provvedimenti di legge nazionali, nel 1904 avvia anche la costruzione di un ospedale psichiatrico, vasto complesso a padiglioni eretto fuori delle mura cittadine, a Brusegana. L’ingegnere Francesco Sansoni ne elabora il progetto in un momento di discussione tipologica, seguendo la concezione terapeutiche del no-restraint. Il risultato è una cittadella immersa nel verde, dotata di servizi e semi-autosufficiente.

La discussione progettuale sulle cliniche matura negli anni Trenta, soprattutto in relazione alle esigenze dell’insegnamento clinico e nell’ambito del Consorzio edilizio per lo sviluppo universitario, per essere poi interrotta durante la guerra.

Sulla base del decreto contenente le Istruzioni per le costruzioni ospedaliere, le  proposte progettuali degli anni Cinquanta prevedono soluzioni a monoblocco o poliblocco verticale, impianto architettonico e distributivo alla base delle soluzioni applicate successivamente. Daniele Calabi e Giulio Brunetta furono fra gli architetti protagonisti delle realizzazioni operate fra gli anni Cinquanta e Sessanta, con i progetti per la clinica pediatrica (1952-56), la clinica ostetrico-ginecologica (1953-56) e il policlinico universitario (1957-61). Sulla base di un piano preliminare studiato da Calabi, Francesco Mansutti e Gino Miozzo progettarono la soluzione definitiva per il monoblocco ospedaliero e il blocco con ingressi e pronto soccorso (1960-68).

La mostra, che si avvale del contributo del dipartimento di Ingegneria civile edile e ambientale dell’università di Padova, si conclude così, con uno iato che conduce ad oggi, ad un momento che sembra ormai maturo per la definizione di un nuovo piano edilizio per la sanità, nella rinnovata esigenza di un sistema di strutture per la salute che continui a incorporare le componenti essenziali dell’insegnamento e della ricerca, in una nuova visione, magari non solo urbanistica.

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