SOCIETÀ

I bannati della democrazia

È giusto togliere la parola a una persona o a un soggetto politico, e soprattutto a chi spetta farlo? È l’interrogativo che rimbalza nel web dopo che, in seguito agli scontri avvenuti a Washington e all’occupazione del Campidoglio federale, Facebook e Twitter hanno deciso di bloccare i profili del presidente uscente. Un’azione estrema seguita a eventi estremi, che tuttavia sta suscitando dubbi anche tra chi non simpatizza con Donald Trump.

“Col senno di poi è facile dire che bisognava aspettarselo: certamente quello che è accaduto è coerente con l’evoluzione negli ultimi anni dei grandi social network – spiega Gabriele Giacomini, coordinatore del master in filosofia digitale presso l’università di Udine –. Decisioni del genere vengono applicate da anni ad aziende, comuni cittadini, giornalisti e politici, di estrema destra ma anche di sinistra. Capita quotidianamente che profili e pagine vengano chiusi, o che dei contenuti siano oscurati in base alle policy che le piattaforme si danno autonomamente e che si presumono accettate quando ci si iscrive ad esse. A colpire oggi è il fatto che il provvedimento riguardi il presidente degli Stati Uniti, ovvero il politico più potente della nazione più potente”. Un dato che dà la percezione immediata di quella che Giacomini nel libro Potere digitale. Come internet sta cambiando la sfera pubblica e la democrazia (Meltemi 2018) ha chiamato neointermediazione, un potere finora meno visibile ma per questo ancora più pervasivo ed efficace rispetto a quello espresso dai media classici.

Tutto bene allora? “No. Certo c’è chi dice che i social sono spazi privati, in cui il padrone ha sempre l’ultima parola su chi debba entrare e chi no: si tratta però di una lettura molto insoddisfacente. Se una piattaforma con una posizione dominante o addirittura monopolistica decide ad esempio di zittire da un momento all’altro una parte politica, il valore della libertà d’impresa si scontra con quello del pluralismo, che in democrazia è ugualmente fondamentale. Nel caso specifico certamente Trump ha messo in campo azioni e comportamenti gravissimi, che avranno sicuramente conseguenze politiche e giudiziarie, ma questo non significa che dobbiamo chiudere gli occhi davanti ai rischi di un privato che decida in base a criteri che non sono certamente quelli di una legge o di un tribunale”. Secondo Giacomini si deve iniziare a pensare a come accompagnare queste decisioni con le garanzie e i diritti propri di una democrazia occidentale, tramite magari un’agenzia indipendente. “Del resto è quello che accade già con la televisione, in cui durante le campagne elettorali l’arbitrio dei singoli è limitato dalla normativa sulla par condicio. Del resto se razzismo, pedofilia e terrorismo sono pericoli reali a maggior ragione la risposta non può essere lasciata esclusivamente ad aziende private”.

Le piattaforme più potenti degli Stati

Nel frattempo a preoccuparsi non sono solamente i trumpiani ma persino i governi di Francia e Germania. “In questo momento stiamo arrivando al redde rationem nella misura in cui la politica, finora totalmente disinteressata ai social in quanto non ne ha mai capito le reali implicazioni, inizia a rendersi conto del loro potere”. A parlare è Stefano Epifani, docente di Internet studies alla Sapienza di Roma e presidente della fondazione Digital Transformation Institute. “Quello che è successo a Trump probabilmente rappresenta un punto di non ritorno, che farà sì che prima o poi ci si occupi di regolamentare non solo i social ma la tutta la platform society, un potere economico e politico enorme attualmente concentrato in pochissime mani”. Secondo Epifani “il problema non è tanto Trump o la censura: il ragionamento da affrontare è che oggi una piattaforma come Facebook di fatto determina in maniera completamente autonoma ciò che oltre miliardo di persone possono vedere o conoscere. Per questo abbiamo bisogno di regole nuove, anche per aiutare gli stessi social: in fondo è stato lo stesso Zuckerberg a dire più volte di non volere tutta questa responsabilità”.

Se i Social non sono editori allora non possono nemmeno oscurare arbitrariamente soggetti e contenuti

Si parla in questi giorni anche di altri soggetti ‘silenziati’ come il libertario Ron Paul, il giornale Libero e in passato soggetti politici come Forza Nuova. “Il problema è se le piattaforme possano prendersi questa responsabilità, e la risposta a mio avviso è no: altrimenti negli Usa non dovrebbero essere più regolamentata dalla sezione 230 del Communications Decency Act (CDA) del 1996, che le esclude dalla responsabilità giuridica rispetto ai contenuti che ospitano. Se però non sono editori allora non possono nemmeno oscurare arbitrariamente soggetti e contenuti”.

È però giusto che sui social girino sistematicamente offese e ‘bufale’, quando non veri e propri inviti alla violenza o alla sollevazione? “Dipende anche da cosa intendiamo per offese e bufale. Se su internet vengono commessi reati è giusto perseguirli, ma allora il problema è quali siano i procedimenti più corretti ed efficaci, se ad esempio sia necessario istituire un task force di magistrati che si dedichino soprattutto ad applicare la giustizia in questo contesto. Se però l’alternativa è un privato che decide cosa è vero e cosa è falso, allora preferisco una bufala in più”. E per quanto riguarda il blocco del social Parler? “Quello che è successo dimostra la difficoltà di un nuovo soggetto ad operare se i big della Silicon Valley decidono di ostacolarlo e di non dargli i server. Tutto questo impone una riflessione sull’imperialismo di piattaforma, ovvero sullo strapotere di questi attori che ormai assomiglia sempre più a quello degli Stati”.

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