SCIENZA E RICERCA

Biodiversità: un diritto o un dovere?

Il 17 agosto 2018 la Conference of Parties ha definito con la decisione 14/34 il processo di sviluppo di un quadro globale per la biodiversità post-2020, istituendo un gruppo di lavoro aperto sul Global Biodiversity Framework (GBF) post- 2020 che ne ha redatto una prima bozza zero.

L’obiettivo è contrastare la perdita di biodiversità che sta deteriorando gran parte del patrimonio forestale del mondo ripercuotendo i suoi effetti, tutt’altro che indiretti, anche sul benessere umano, si pensi alla pandemia globale che stiamo affrontando.

La bozza del Global Biodiversity Framework post 2020 si pone altresì in un rapporto di complementarietà con l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite, e definisce un piano ambizioso per realizzare azioni concrete sia a livello governativo che della società civile, incluse le popolazioni indigene e i gruppi locali, sia a livello di imprese, per trasformare la percezione e il rapporto della società con la biodiversità in linea con l’obiettivo 2050 di vivere in armonia con la natura. L’intero quadro è finalizzato all’applicazione della Theory of Change che pone l’accento sull’urgente necessità di politiche innovative su larga scala, globale, regionale e nazionale, in grado di attuare una conversione degli attuali modelli economici, sociali e finanziari che hanno comportato la costante perdita di biodiversità, a favore di policies incentrate sulla sostenibilità e la riduzione delle minacce alla natura e all’ambiente attraverso la predisposizione di risorse finanziarie, umane e tecnologiche.

Un’attenzione particolare è riservata alle popolazioni locali, in particolare quelle indigene, a cui è dedicato il target 20 della bozza zero del Global Biodiversity Framework post 2020 nel quale viene sancito il loro pieno ed equo coinvolgimento nei processi decisionali riguardanti i loro territori, le loro risorse naturali e le loro tradizioni.

Il diritto delle comunità locali e delle popolazioni indigene a partecipare ai processi decisionali in cui sono portatori d’interesse è inoltre ribadito anche nell’International Human Rights Law.

La Declaration on the Rights of Indigenous Peoples (UNDRIP) delle Nazioni Unite del 2007 è un accordo non legalmente vincolante ma senz’altro il più grande strumento internazionale posto a tutela dei 370 milioni di indigeni nel mondo spesso vittime di vere e proprie violazioni dei diritti umani da parte dei governi a favore di investitori stranieri.

All’articolo 18, infatti, si sancisce il loro diritto a partecipare ai processi decisionali sulle questioni che possono riguardare i loro diritti, attraverso i rappresentati eletti dalla comunità stessa con le loro procedure. L’articolo 19 esorta gli Stati a cooperare in buona fede con i leaders delle comunità indigene locali per trovare un accordo e ottenere il loro libero, previo consenso informato sui provvedimenti legislativi e amministrativi che li riguardano.

Purtroppo però assistiamo sempre più spesso ad episodi di mancato coinvolgimento delle comunità locali nei processi decisionali concernenti i loro territori e a tentativi, che spesso sfociano in atti violenti, di estorcere il loro consenso con la forza.

Questa situazione, che ha portato ai fenomeni del land grabbing e del water grabbing, ha comportato non solo una palese violazione dei diritti umani e in particolare della UNDRIP ma anche una violazione della Convention of Biological Diversity sullo sviluppo sostenibile, con  una consistente perdita di biodiversità e danno all’ambiente in alcune delle aree più ricche del pianeta fino ad allora gestite e custodite dalle popolazioni indigene, situazione aggravata ancor di più dalla pandemia di Covid 19.

Il continente più colpito e martoriato da questa situazione è senz’altro il Centro e il Sud America in cui sono in corso controversie delle comunità locali contro multinazionali e corporazioni straniere responsabili di danni ambientali e violazioni di ogni genere, a cui seguono l’Africa e l’Asia.

Uno dei casi recenti più discussi è senz’altro la grande perdita di biodiversità nel Pantanal, la pianura alluvionale più umida del mondo, abitata da specie rare in pericolo di estinzione tra cui il giaguaro. Si estende per gran parte del Brasile, proseguendo poi in Bolivia e Paraguay.

Colpita da due anni di siccità, nel 2020 si è registrata una grave perdita di biodiversità in seguito a vasti incendi che hanno distrutto circa il 30% dell’area brasiliana, secondo fonti ufficiali gli incendi sono riconducibili alla mano dell’uomo.

Il sospetto ricade su molte aziende agricole, così come denunciato dalle comunità locali e Greenpeace nel rapporto “Making mincemeat of the Pantanal”, accusate di aver violato la Moratória do Fogo entrata in vigore a partire da Luglio 2020 che vietava di accendere fuochi all’aperto in Amazzonia e nel Pantanal per 120 giorni. Le popolazioni indigene e molte comunità forestali tradizionali hanno, dal loro canto, sempre rivendicato i loro diritti sull’area ma ad oggi, secondo il Ministério da Agricultura, Pecuária e Abastecimento, Serviço Florestal Brasileiro circa il 90% del Pantanal brasiliano è iscritto nel Registro Ambientale Rurale, elemento chiave per il land grabbing poiché consente di registrare e regolarizzare il diritto di proprietà di un terreno tramite una semplice autocertificazione e questo spesso viene utilizzato per legittimare l’occupazione abusiva di un’area da parte di privati o, come in questo caso, aziende agricole del settore dell’allevamento intensivo e dell’agricoltura intensiva che esportano i loro prodotti a livello globale, a discapito delle comunità locali e dell’ambiente.

Tra i principali paesi importatori di carni provenienti da questo territorio spicca l’Italia come primo paese UE importatore di carni brasiliane e il sesto a livello mondiale.

Alla base di tutto ciò c’è una scarsa regolamentazione a livello nazionale e internazionale che si traduce nella mancanza di trasparenza in uno dei settori, quello delle produzioni industriali di carni, tra i più redditizi e meno controllati dell’economia globale.

I danni causati da questo ciclo produttivo sono immensi. La deforestazione e la costante perdita di biodiversità nell’area del Pantanal e dell’Amazzonia costituiscono una delle sfide cruciali dei governi poiché mettono a repentaglio non solo l’estinzione di molte specie animali e vegetali ma della stessa umanità, concorrendo al surriscaldamento globale, all’ingiustizia sociale e alla circolazione di virus e malattie.

A tal proposito i principali attori dell’economia globale stanno iniziando a muoversi per regolamentare il settore in un'ottica di sostenibilità ambientale e sociale, tra questi anche l’Unione Europea.

L’UE ha a sua disposizione strumenti normativi volti a combattere alcune cause della deforestazione ma non il fenomeno nel suo complesso. Nel 2019, la Commissione Europea ha adottato la comunicazione "Intensificare l'azione dell'UE per proteggere e ripristinare le foreste del pianeta" il cui scopo è ridurre l’impatto sul suolo dei consumi dell’UE e incoraggiare il consumo di prodotti provenienti da catene produttive a deforestazione zero.

Inoltre si è mossa nella promozione di ulteriori strumenti regolamentari e non regolamentari tesi ad aumentare la trasparenza delle catene di approvvigionamento e ridurre in modo significativo le percentuali di deforestazione derivate dalla produzione di materie prime importate dall’UE, tra cui la consultazione “Disboscamento e distruzione delle foreste- ridurre l’impatto dei prodotti venduti nell’Ue” conclusasi a dicembre 2020, rivolta a tutti i potenziali stakeholders tra cui i Governi, le imprese, il mondo accademico e la società civile, a cui l’Italia ha risposto con 76498 commenti pari al 6% dei portatori d’interesse stimati. Questo impegno è stato ribadito nel Green Deal europeo nella strategia dell’Ue sulla biodiversità per il 2030.

Nuovi scenari post pandemia si stanno delineando per la tutela della biodiversità ed è essenziale coinvolgere concretamente nel processo decisionale anche le comunità locali che da sempre si prendono cura della loro “casa”.

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