SOCIETÀ

Una Cina verde è davvero possibile? Prospettive per una transizione inaspettata

Una frase proclamata da Xi Jinping, presidente della Repubblica Popolare Cinese, nel corso dell’assemblea generale delle Nazioni Unite tenutasi lo scorso 22 settembre, ha lasciato tutti di stucco. “Il nostro obiettivo è di arrivare ad un picco di emissioni di CO2 circa nel 2030, per poi raggiungere la neutralità climatica entro il 2060”.

Un annuncio quanto meno inaspettato, se si considera il peso della Cina nell’acuirsi della crisi climatica: il Paese, infatti, contribuisce al tasso annuale di emissioni globali per il 28%, più di un quarto del totale; la sua economia in forte espansione, sostenuta da una politica economica molto aggressiva, richiede di un’imponente quantità di energia, che è ottenuta ricorrendo ai combustibili fossili, il cui consumo è vertiginosamente aumentato negli ultimi vent’anni (si pensi, ad esempio, che la Cina consuma circa la metà di tutti gli stock di carbone attualmente disponibili su scala planetaria). La Repubblica comunista è il primo consumatore al mondo di carbone – il più inquinante tra tutti i combustibili fossili, per giunta – e il secondo più grande consumatore di petrolio (superata, in questo, solo dagli Stati Uniti); negli ultimi anni, il governo ha investito molto per migliorare le centrali a carbone esistenti e per costruirne di nuove, aumentando così la disponibilità di energia derivata da questa fonte fossile, che soddisfa circa la metà del fabbisogno dell’intera nazione – e, come riferisce un report tematico dell’IEA (International Energy Agency), produce circa 4.6 GigaTonnellate di CO2 all’anno, che si aggiungono alle 4.9 prodotte dal consumo degli altri combustibili.

Stralcio del discorso di Xi Jinping all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 22 settembre 2020

L’incredulità con la quale il mondo ha accolto l’annuncio di Xi non è, dunque, del tutto ingiustificata. Qualcuno ha spiegato questa presa di posizione in termini di opportunità geopolitiche: affermando il proprio impegno per l’ambiente, la Cina si propone infatti, ancora una volta, come perfetta antitesi degli Stati Uniti, il cui presidente uscente si è da sempre opposto a qualunque politica per la riduzione delle emissioni climalteranti, rifiutando di onorare gli impegni dell’accordo di Parigi sul clima, sottoscritto dal suo predecessore. Potrebbe non essere un caso, dunque, che l’impegno cinese sia stato annunciato alle Nazioni Unite proprio a poche settimane dall’abbandono dell’accordo da parte degli Stati Uniti: l’uscita ufficiale del Paese dovrebbe essere firmata il 4 novembre, subito dopo le elezioni presidenziali.

Anche tralasciando le ambizioni internazionali, la Cina è percorsa, al suo interno, da numerose contraddizioni: gli analisti si chiedono, ad esempio, in che modo sarà possibile conciliare l’annunciata rapida riduzione delle emissioni con l’attuale tasso di crescita dell’economia. La crescita economica che ha interessato la Cina negli ultimi decenni ha infatti contribuito a innalzare di molto il tenore di vita della popolazione, ma questo ha comportato un mutamento nei consumi e negli stili di vita che ha avuto effetti decisamente negativi sull’ambiente: spiccano, tra i possibili esempi, l’incremento nell’utilizzo delle automobili e la crescita del consumo di carne (che ha registrato un +150% rispetto al 1980), due status symbol della nuova classe medio-alta. Il governo dovrà dunque lavorare molto sull’educazione della cittadinanza a modi di vivere più sostenibili, compatibilmente con il raggiungimento di altri obiettivi dell’Agenda 2030 – di cui la Cina è da sempre promotrice – come l’eradicazione della fame e della povertà.

Ultima, ma non meno importante, sorge la questione dell’effettiva possibilità di raggiungere la neutralità climatica entro il 2060 dal punto di vista tecnologico. In primo luogo, infatti, sarà necessario ridurre drasticamente il ricorso ai combustibili fossili, soprattutto nel settore dei trasporti e in quello della produzione di energia: ciò significherebbe da una parte abbandonare soprattutto il carbone, dismettendo o riconvertendo le centrali attive (ma le lobby del settore premono nella direzione contraria), e dall’altra aumentare drasticamente l’utilizzo di energia elettrica proveniente da fonti rinnovabili.

Sebbene non sia ancora stato diffuso alcun dato ufficiale sulle politiche energetiche che la Repubblica cinese adotterà nei prossimi anni, un report apparso su Nature rende conto di diversi piani d’azione sviluppati da gruppi di ricerca cinesi “vicini al governo” che potrebbero essere presi in considerazione e attuati a partire dal 2021, in concomitanza con il lancio del quattordicesimo Piano Quinquennale, che verrà presentato a marzo. Le varie strategie differiscono nei dettagli, ma concordano sulle misure generali: per raggiungere la neutralità climatica senza rinunciare alla crescita, entro il 2060 la produzione di energia elettrica dovrà più che raddoppiare, ma dovrà derivare pressoché esclusivamente da fonti rinnovabili. Sarà necessario, dunque, incrementare la capacità produttiva delle tecnologie rinnovabili: ad esempio, il solare dovrà aumentare di almeno 16 volte rispetto ad oggi, l’eolico di 9. Poiché i combustibili fossili non potranno essere totalmente abbandonati – si ritiene che, in questo scenario, rimarrebbero all’origine del 16% dell’energia consumata – bisognerà fare affidamento anche sulle tecnologie di sequestro di anidride carbonica dall’atmosfera (CCS: Carbon Capture and Storage), delle quali la Cina si sta già dotando;  altrettanto fondamentali, inoltre, saranno i progetti di riforestazione.

Vi è, sul tavolo, anche una terza soluzione, molto controversa: si tratta dell’energia nucleare, che, dopo l’incidente della centrale giapponese di Fukushima (2011), non è vista di buon occhio dall’opinione pubblica cinese. Eppure, secondo un’altra proiezione, questa potrebbe essere la soluzione più valida per innescare la transizione verde: in tal caso, l’elettricità necessaria a sostituire le fonti fossili sarebbe di origine nucleare per il 28%, mentre l’eolico peserebbe per i 21%, il solare per il 17%, l’idrico per il 14% e le biomasse per l’8%; rimarrebbe, infine, il ricorso ai combustibili fossili per un  12%. In ogni caso, per affidarsi al nucleare bisognerebbe potenziare l’attuale capacità produttiva del Paese di almeno cinque volte: è proprio questo il punto irrisolto, perché anche in Cina il nucleare desta non poche preoccupazioni.

Probabilmente, maggiori dettagli su come la Cina deciderà di dar seguito al suo impegno arriveranno già sul finire dell’anno in corso, quando tutti i paesi firmatari dell’accordo di Parigi saranno chiamati ad aggiornare i loro targets sul taglio delle emissioni. La decisione annunciata dal colosso comunista, in ogni caso, ha un alto valore simbolico: altre economie emergenti, qualora la strada si rivelasse non troppo impervia, potrebbero seguire il suo esempio. L’incognita sulla sincerità delle dichiarazioni del presidente, tuttavia, rimane: sarà chiaro nei prossimi mesi (e anni) se davvero non si sia trattato solo di un’abile mossa politica.

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