SOCIETÀ

Le elezioni in Polonia e il malessere democratico dell'Est Europa

Domenica 10 maggio i cittadini polacchi avrebbero dovuto eleggere il nuovo presidente della Repubblica, alla scadenza dei 5 anni del mandato di Andrzej Duda, eletto nel 2015. Ma l’elezione non si è tenuta. Anzitutto per via dell’emergenza coronavirus, che ha impedito lo svolgimento di una normale tornata elettorale: troppo pericoloso chiamare i cittadini a recarsi ai seggi. Ma anche il “piano B” escogitato dalla maggioranza di governo che ha tentato a tutti i costi di mantenere la data dell’elezione, il voto “per posta”, un esperimento mai tentato nel paese, è stato bocciato nel passaggio parlamentare del Senato dopo settimane di feroci polemiche e lacerazioni anche interne al  partito Diritto e Giustizia (Pis), che guida il paese, con Jarosław Kaczyński primo ministro. Un palese tentativo di forzare le regole democratiche, utilizzando il pretesto della pandemia. Le opposizioni, temendo brogli, avevano minacciato di boicottare il voto anche qualora si fosse trovata una “cornice legale” nel quale inserirlo. Neanche la Conferenza Episcopale si era allineata, e aveva chiesto una “mediazione” tra maggioranza e opposizione. Il voto al Senato (dove il Pis non ha la maggioranza, a differenza della Camera bassa) ha stoppato, almeno per ora, il tentativo di modifica alla legge elettorale, che comunque resta di dubbia costituzionalità. Così i partiti della maggioranza sono stati costretti a comunicare di aver “raggiunto un accordo per posticipare il voto a data da destinarsi”. Ma quando? Un’ipotesi indica la data delle elezioni (sempre via posta, ma con un margine maggiore di tempo per stampare 30 milioni di plichi) al prossimo 23 maggio. Oppure a luglio (il mandato di Duda scade formalmente ad agosto). Il Pis, parallelamente alla proposta di modifica della legge elettorale, ha presentato al Parlamento una proposta di rinvio del voto al 2022.

Il piano di Kaczyński e lo scontro con Bruxelles

Un caos politico totale, ma con alcuni punti estremamente limpidi. Il primo: obiettivo del Pis, e del premier Kaczyński, è mantenere Andrzej Duda nel ruolo di presidente della Repubblica (i sondaggi lo danno sicuro vincitore in caso di elezioni). Duda è un esponente di Diritto e Giustizia. È dunque (e resterebbe in futuro) un presidente “non ostile” allo schema di governo del Pis, che sembra ricalcare quello imposto in Ungheria da Viktor Orban: accentramento dei poteri, nazionalismo, repressione delle voci discordanti, controllo della magistratura e dei media. Il secondo punto fermo è proprio il ruolo della magistratura, con la Corte Suprema che dovrà ora pronunciarsi per stabilire la costituzionalità del voto postale. Ma il governo polacco sta tentando di influenzare e condizionare i giudici con l’istituzione di una “Camera disciplinare” che avrebbe il compito di controllare l’operato dei magistrati della Corte Suprema. Una sorta di minaccia, secondo la Corte Europea, che ha disposto l’immediato stop della riforma. E Bruxelles (che ha accolto con sollievo la decisione di rinviare l’elezione presidenziale) ha già avviato nei confronti della Polonia una nuova procedura d’infrazione ai sensi dell’articolo 7 del Trattato europeo: violazione dello stato di diritto. Il commissario europeo alla Giustizia, Didier Reynders, ha dichiarato in un tweet che l’Unione Europea «continuerà a monitorare l’organizzazione di queste elezioni». Nel frattempo la presidente della Corte suprema polacca, Malgorzata Gersdorf, che non ha mai risparmiato critiche all’attuale esecutivo, ha lasciato l’incarico dopo 6 anni. «Il partito nazionalista Diritto e Giustizia ha trasformato il paese in uno stato autoritario», ha dichiarato.

 

La democrazia sta scomparendo

Quanto sta accadendo in Polonia non è un episodio isolato. È la spia di un “malessere democratico” che si sta diffondendo inesorabilmente, soprattutto nei paesi dell’Europa orientale. «Un numero crescente di leader ha abbandonato perfino la finzione di seguire le regole della democrazia». A sostenerlo è il rapporto “Nations in Transit”, della Ong statunitense Freedom House, che si occupa annualmente di valutare l’indice di democrazia e di libertà nei vari Paesi del Mondo. Un livello che si sta drammaticamente abbassando, scivolando verso la deriva dei regimi autoritari. I casi più eclatanti, e che ci riguardano più da vicino essendo nel cuore dell’Europa (e stati membri dell’UE), sono due: la Polonia e l’Ungheria. Si sapeva, si temeva. Scrive Zselyke Csaky, ex ricercatrice di Amnesty International che per Freedom House ha diretto la ricerca “Nations in Transit” in Europa ed Eurasia: «Il consenso democratico post Guerra Fredda ha ormai lasciato il posto a una lotta per il potere e alla rincorsa dell'interesse personale. Questi politici hanno smesso di nascondersi dietro una facciata di normalità. Perciò stanno attaccando apertamente le istituzioni democratiche e stanno tentando di eliminare qualsiasi controllo residuo sul loro potere d’azione». Il riferimento, esplicito, è a Kaczyński (Polonia) e Orban (Ungheria), che circa un mese fa è riuscito a farsi dare dal Parlamento “pieni poteri illimitati” per contrastare l’emergenza Covid-19. «In Polonia si verificano attacchi alla magistratura che non hanno precedenti in Europa. E in Ungheria Orban ha abbandonato qualsiasi pretesa di rispetto delle istituzioni democratiche».

Tra i 24 paesi sotto osservazione, il “tasso di democrazia”, per così chiamarlo, è peggiorato in 15 stati. In questo elenco, secondo quanto accertato da Freedom House, compaiono anche Serbia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Georgia, Lettonia e Montenegro. «La rottura del consenso democratico è stata più evidente in Europa centrale e nei Balcani», si legge ancora nel rapporto “Nations in Transit”, che indica Aleksandar Vučić in Serbia e Milo Djukanović in Montenegro come esempi di politici “autoritari” che hanno portato i loro rispettivi Paesi, per la prima volta dal 2003, a non essere più classificati come democrazie, ma “regimi ibridi”. Per non parlare della Bulgaria, che per il terzo anno consecutivo si piazza al 111° posto nell’Indice mondiale della libertà di stampa, stilato dai giornalisti di Reporters sans frontières, su un totale di 180 paesi, all’ultimo posto di tutta l’Unione Europea. In Europa, peggio della Bulgaria, si piazzano soltanto Russia, Bielorussia e Turchia.

Il no dell’Ungheria alla Convenzione di Istanbul

Una crescente spinta verso l’autoritarismo, verso il modello dell’uomo forte al comando, sulla scia dell’esempio di Putin ed Erdogan. L’ultima perla proprio in Ungheria, dove il governo guidato da Viktor Orban ha respinto la ratifica della Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne. Un documento, secondo il governo ungherese, promuove «l’ideologia distruttiva di genere e la migrazione illegale», capace di «distruggere le famiglie». Tra i punti contestati, la definizione di “violenza di genere” che secondo il trattato include ogni forma di abuso e discriminazione basata sul sesso che colpisce non soltanto le donne ma anche le persone che non si identificano in un preciso genere. «L’approccio ideologico della Convenzione è contrario alla legge ungherese e alle credenze del governo», ha poi precisato il deputato Lorinc Nacsa, dei democratici cristiani, alleato di minoranza della coalizione con il partito Fidesz. Amnesty International ha chiesto all’Ungheria di «rivedere questa decisione», facendo un appello a «prendere tutte le misure necessarie per proteggere le ragazze e le donne dalla violenza domestica, soprattutto in questo periodo di contrasto alla pandemia».

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