È l’ottobre del 1604. Gli occhi degli astronomi sono da vario tempo puntati nella regione della volta celeste tra la costellazione del Sagittario e quella dell’Ofiuco o Serpentario. Osservano un evento assai raro, ancorché ciclicamente ricorrente e prevedibile: la congiunzione celeste di tre pianeti, cioè l’avvicinamento nel cielo di Giove, Saturno e Marte. Sono quindi in molti a fissare lo sguardo in direzione di quella zona del cielo quando, con grande meraviglia, vedono apparire all’improvviso, chi dice il 9 chi il 10 di ottobre, una nuova sorgente luminosa. La nuova fonte di luce cresce di intensità luminosa per un paio di settimane fino a eguagliare quella di Venere per poi perdere progressivamente luminosità sparendo alla vista circa un anno e mezzo dopo l’apparizione.
Emozioni contrastanti agitano le persone che osservano il fenomeno: un misto di stupore e paura, di superstizione e curiosità emerge dalle lettere e dai resoconti dell’epoca. Si ricorda un’analoga apparizione e successiva scomparsa di una “stella nova” nella costellazione di Cassiopea, osservata nel novembre del 1572 da Tycho Brahe, che aveva suscitato qualche clamore anche tra la popolazione; mentre sono in pochi a sapere che un fenomeno apparentemente simile anche se meno luminoso era stato osservato da Willem Blaeuw nella costellazione del Cigno nell’agosto del 1600 senza destare troppa attenzione.
La concezione dominante all’epoca, sostenuta dai seguaci di Aristotele, distingueva nettamente i fenomeni e gli oggetti celesti da quelli terrestri.
foto tratta dal libro di Keplero "De Stella nova in pede Serpentarii"
I corpi celesti, creati ab inizio da Dio, erano formati da una sostanza speciale, una quintessenza perfettissima non soggetta a variazione alcuna; la loro perfezione si rispecchiava nella perfezione dei loro eterni moti circolari.
Al contrario la regione sublunare, comprendente l’atmosfera e la Terra, era sede del divenire, della vita e della morte, della generazione e della corruzione, e ospitava corpi formati dalla mescolanza di quattro elementi (terra, acqua, aria e fuoco). Questi corpi, a seconda della proporzione degli elementi costituenti, avevano una loro collocazione “naturale” a una certa altezza o distanza dal centro della Terra: se si trovavano in luoghi diversi, compievano moti “naturali” in linea retta che li riportavano nel loro luogo naturale. Su questa base si spiegava, per esempio, il moto di un grave verso la superficie della Terra, e il moto delle fiamme del fuoco verso l’alto.
Una siffatta concezione del Cosmo, fortemente intrisa di elementi teologici e metafisici, non poteva accordarsi con l’apparizione di nuove stelle: queste apparizioni o generazioni dovevano essere legate a enti o corpi situati non nella regione celeste ma in quella sublunare, dovevano cioè in ultima analisi essere fenomeni meteorologici, per quanto rari e strani. E non a caso la discussione sulla nuova apparizione si accese intorno alla sua collocazione. In gioco non c’era solo la spiegazione di un evento, per quanto singolare, ma una visione millenaria del cosmo sostenuta da una filosofia della natura che era diventata nei secoli sempre più attenta a maneggiare bibliografie, glossare libri e a ricercare una presunta coerenza con le sacre scritture, perdendo di vista progressivamente la rilevanza e cogenza dell’osservazione diretta. Una filosofia/teologia della natura che cercava di difendersi da attacchi che dalla metà del Cinquecento si erano fatti sempre più frequenti. La controversia scientifica coinvolgeva quindi poteri e autorità consolidate sia nella Chiesa sia nell’Università.
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Tuttavia Galileo (che allora insegnava “teoriche dei pianeti”), in tre affollate lezioni pubbliche tenute alla fine del 1604, prende posizione per una collocazione della Stella Nuova sopra la Luna. Di queste sue lezioni sono rimasti solo pochi appunti e una bozza di lettera su una sua “fantasia”: ricercare conferma del moto di rivoluzione della Terra intorno al Sole con misure di parallasse sulla Nuova a distanza di sei mesi.
Contro questa sua conclusione sulla posizione della Stella Nuova, a fine gennaio 1605, viene pubblicato a Padova il Discorso intorno alla nuova stella di Antonio Lorenzini da Montepulciano, ispirato dal grande aristotelico padovano Cesare Cremonini.
Nucleo dell’argomentazione del Lorenzini era la strenua difesa della perfezione dell’essenza celeste: l’ingenerabilità e incorruttibilità dei cieli dovevano implicare che la nova nient’altro fosse che una meteora collocata nel mondo sublunare. Per sostenere questa sua convinzione, Lorenzini citava Aristotele secondo il quale se una stella si fosse aggiunta al cielo questo non avrebbe più potuto muoversi; introduceva poi una serie di riflessioni sul fatto che essendo il cielo formato solo da una quintessenza in esso non potevano prodursi gli elementi contrari necessari alla corruzione e generazione, e concludeva con la domanda retorica: in qual modo il cielo ha potuto corrompere il cielo per generare il cielo? A questa domanda faceva seguito una lunga digressione sulla parallasse e su questioni, confuse se non errate, riguardanti teoremi geometrico-astronomici, dopo la quale ritornava a esporre idee della tradizione scolastica sulle macchie lunari e sulla via lattea, per soffermarsi poi nuovamente sul sito della nova. E non mancavano un paio di capitoli sulla cosiddetta astrologia giudiziaria, nella quale trattava dell’influenza della nova sulle stagioni e sui raccolti, sulla salute pubblica e sulle condizioni fisiche e morali dell’umanità.
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