Dal 1611, dopo la pubblicazione del Sidereus Nuncius, mentre Galileo continua a portare avanti le sue ricerche, “la polemica anti-galileiana (e insieme anti-copernicana) - come osserva Annibale Fàntoli nel suo Galileo per il Copernicanesimo e per la Chiesa, p. 119 - si sposterà progressivamente sul piano teologico, man mano che andranno diminuendo le possibilità di rifiutare le scoperte galileiane sul piano scientifico e le loro conseguenze nei confronti della filosofia aristotelica”. Queste prime avvisaglie di uno scontro con la Chiesa Romana, che purtroppo si concluderà con l’abiura del 1633, spingono Galileo a impegnarsi anche su un altro fronte particolarmente moderno: quello dell’autonomia del pensiero scientifico rispetto ad autorità esterne, politiche o religiose (oggi aggiungeremmo anche economiche).
Quattro viaggi a Roma scandiscono le tappe del confronto tra Galileo e la Chiesa Romana. Il primo viaggio è del 1611, anno in cui iniziano le polemiche scritturistiche che si appuntano sulla non conformità del sistema copernicano a quanto si legge nelle Sacre Scritture. Galileo decide allora di recarsi a Roma dove arriva il 29 marzo, ripartendo per Firenze il 4 giugno. A Roma incontra i gesuiti del Collegio Romano, intrattenendosi con Clavio e i suoi allievi. Nella visita incontra varie personalità tra cui Maffeo Barberini (che nel 1623 diventerà papa Urbano VIII) e il cardinale Bellarmino. Il viaggio romano conforta Galileo: l’accoglienza dei gesuiti, di molti cardinali e dello stesso Papa Paolo V, gli danno l’impressione di poter star tranquillo e proseguire nelle sue ricerche.
Ma la situazione in realtà è molto più complessa. Alcuni segnali arrivano al momento della concessione dell’imprimatur per la pubblicazione della Istoria e dimostrazioni intorno alle Macchie Solari, stampato nel 1613. Già nel suo primo viaggio a Roma, Galileo aveva parlato della sua scoperta delle macchie solari e nelle tre lettere raccolte nella Istoria dimostrava come queste stessero sulla superficie del Sole o molto vicino a essa, e deduceva dai loro moti il moto di rotazione del Sole intorno al proprio asse. Un ulteriore colpo alla cosmologia aristotelica: la perfezione del Sole, infatti, veniva meno. Galileo ottiene l’imprimatur, ma gli viene chiesto di rimuovere un cenno alle sacre scritture (fatto che Galileo sottovaluta), anche se viene lasciato passare un riferimento alle tesi copernicane (fatto che Galileo sopravvaluta come concessione alle nuove idee da parte ecclesiale). Non solo, ma alcuni mesi prima, il primo novembre del 1612, il domenicano Niccolò Lorini, in una conversazione con un gruppo di intellettuali a Firenze, attacca le idee copernicane. Galileo, venutone a conoscenza, manda una lettera, oggi perduta, di protesta a Lorini, che gli risponde con una lettera nella quale, pur stupendosi della missiva galileiana, ammette di aver fatto cenno, anche se senza impegnarsi a fondo, “all’opinione di quell’Ipernico o come di chiama” affermando che “apparisce che osti la Divina Scrittura”.
Il 21 dicembre del 1613, su sollecitazione di Benedetto Castelli, Galileo gli invia una lettera nella quale per la prima volta entra nella polemica scritturistica [Opere, V, pp. 281-8]. In essa Galileo sostiene che, vista la possibilità, e spesso la necessità, di un’interpretazione delle Sacre Scritture diversa da quella letterale “mi pare che nelle dispute naturali ella dovrebbe essere riserbata nell’ultimo luogo”. Sia le Sacre Scritture sia la natura procedono dal Verbo divino. Ma mentre la Scrittura deve adattarsi alle comuni capacità di intendimento e quindi usare parole e modi di dire che, presi nel loro senso letterale, sono lontani dalla verità, la natura non trasgredisce mai “i termini delle leggi imposteli”. E quindi se le sensate esperienze e le certe dimostrazioni ci permettono di concludere qualcosa, questo non deve essere posto in dubbio in base a luoghi scritturistici. È problema dei teologi ottenere concordanza tra verità scientifiche e passi delle Scritture. In un periodo di aspri conflitti tra protestanti e cristiani (si pensi solo alla Guerra dei Trent’anni) seguito alla Controriforma, l’idea che Galileo discutesse questioni teologiche e di esegesi biblica era vista con grande preoccupazione.
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La lettera a Castelli, da questi diffusa in numerose copie [recentemente è stato ritrovato quello che sembra il testo originale della lettera nella biblioteca della Royal Society di Londra], sarà uno degli elementi scatenanti il cosiddetto primo processo a Galileo che si concluderà nel 1616. L’inchiesta del Sant’Uffizio prende le mosse dalla deposizione del domenicano Tommaso Caccini del 20 marzo del 1615, che già il 21 dicembre del 1614 si era scagliato, in una predica in Santa Maria Novella a Firenze contro la matematica sostenendo che “la matematica è un’arte diabolica e i matematici sono seminatori di eresie”. Nel frattempo le posizioni espresse da Lorini e Caccini avevano stimolato Galileo a scrivere nel 1615 almeno altre tre lettere in difesa del sistema copernicano e della sua autonomia da quanto affermato nelle sacre scritture. Due di queste, del 16 febbraio e del 23 marzo, sono indirizzate a Piero Dini, e la terza a Cristina di Lorena, probabilmente qualche mese dopo. In quest’ultima si ribadivano, approfondendoli e articolandoli, molti dei ragionamenti proposti nella lettera a Benedetto Castelli e si affermava che “l’intenzione dello Spirito Santo [che ispira le Sacre Scritture] essere di insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo” [Opere, V, p. 319].
Tra il dicembre 1615 e il giugno 1616 Galileo è a Roma nella speranza di convincere la Chiesa a non mettere all’indice il De Revolutionibus di Copernico. Ma il risultato finale è l’incarico dato a Bellarmino da Michelangelo Segizi, Commissario generale del Sant’Uffizio, di “ammonire” Galileo perché non sostenga tesi copernicane, ammonimento al quale Galileo si sottomette e promette di ubbidire in futuro. Il 3 marzo 1616 viene comunicata la decisione di mettere all’indice gli scritti copernicani e gli scritti di Antonio Foscarini. Il decreto viene pubblicato due giorni dopo, il 5 marzo 1616. Ma non si fa menzione a Galileo e a nessuno dei suoi scritti.
Dopo questa sconfortante conclusione per alcuni anni Galileo prosegue la sua attività cercando di evitare polemiche e clamori. Ma quando il 6 agosto 1623 Maffeo Barberini viene eletto papa con il nome di Urbano VIII, Galileo pensa che i tempi siano cambiati: Barberini, infatti, era stato grande ammiratore di Galileo fin dai primi incontri del 1611 a Roma e Firenze. A lui Galileo dedica il Saggiatore, pubblicato nel 1623, e dal 23 aprile al 7 giugno 1624 si reca nuovamente a Roma dove incontra varie volte il nuovo papa Urbano VIII. Barberini è sicuramente persona intelligente e aperta, ma era e resterà convinto che le ricerche astronomiche non sarebbero mai state capaci di svelare il mistero dei cieli, noto solo a Dio. Questo suo “scetticismo a base teologica” - come lo definisce Fàntoli a p. 301 del suo libro - nei confronti delle capacità della scienza umana di spiegare i segreti della natura e dell’universo sarà una costante del suo atteggiamento e uno degli elementi che porteranno alla condanna di Galileo.
Con l’impressione (errata) che il clima fosse cambiato, Galileo intraprende la stesura definitiva del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. L’opera, terminata nel 1630, affronta l’iter dell’imprimatur che si conclude nel 1632 con la stampa. Ma Niccolò Riccardi, che come revisore aveva già concesso l’autorizzazione alla stampa, ordina all’inquisizione di Firenze di impedirne la diffusione. Il 12 aprile 1633 Galilei compare davanti al Sant’Uffizio, e il 22 giugno successivo viene emessa la sentenza di condanna formale; nello stesso giorno Galilei pronuncia l’abiura.
Galileo di fronte al Sant'Uffizio, dipinto di Joseph-Nicolas Robert-Fleury - Wikipedia
Dopo essergli stata assegnata come sede formale della detenzione la casa dell’Arcivescovo di Siena (Ascanio Piccolomini), viene infine deciso il suo trasferimento nella sua casa di Arcetri. Negli ultimi anni Galilei ormai cieco, riesce a far stampare a Leida, presso gli Elzeviri, l’ultima sua opera: I Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (1638). Muore l’8 gennaio del 1642.
L’atteggiamento della Chiesa (sia nel 1616, sia nel 1633) non è mai ispirato da un esame delle prove addotte da Galileo. Nel 1616 i qualificatori-consultori del S. Uffizio non presero nemmeno in esame le prove, perché la teoria copernicana era assurda in filosofia (cioè contro la filosofia naturale aristotelica), per non parlare del piano teologico. Nel 1632-33, poi, tutta la discussione si concentrò sulla questione se Galileo avesse o no violato il precetto ingiuntogli da Bellarmino e Segizzi nel 1616. La questione del valore filosofico scientifico del Dialogo non fu nemmeno toccata.
La scienza indaga il mondo dei fenomeni, ha un vincolo preciso nei dati di esperienza, non esiste nessuna autorità (se vogliamo l’unica autorità è quella della natura), che possa dirgli cosa guardare e cosa cercare. Galileo ha piena consapevolezza che la scienza non può che progredire, a dispetto di qualunque autorità, e quindi una delle sue preoccupazioni è che la chiesa romana non prenda partito contro evidenze (quelle della teoria Copernicana) che comunque hanno grande probabilità di essere confermate dagli sviluppi della scienza. La scienza propone “verità fino a nuovo ordine”, la fede si affida a “verità eterne” (Einstein che ben conosce Galileo avendo scritto la Prefazione traduzione inglese del Dialogo di Stillman Drake). In questo senso sono ambiti incommensurabili. Per la Chiesa, perché non si impegni ex cathedra su questioni che si potrebbero rivelare sbagliate (per Galileo certamente si riveleranno sbagliate), e per il copernicanesimo che considera sufficientemente solido sulla base di una serie di considerazioni, teoriche e sperimentali.
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