SCIENZA E RICERCA

Garattini, 90 anni a servizio della ricerca

“Buon compleanno professore. Come festeggia oggi questa ricorrenza così importante?” “Grazie molte. È un giorno come tutti gli altri questo, pensi che sto andando in Istituto come tutte le mattine”. Inizia così la nostra intervista al professor Silvio Garattini che raggiungiamo al telefono questa mattina nel giorno del suo novantesimo compleanno. Sta andando al lavoro, nel ‘suo’ Istituto Mario Negri a Milano, che ha fondato nel 1963 e che ha diretto fino a luglio di quest’anno quando ha lasciato il posto al nefrologo Giuseppe Remuzzi per assumere l’incarico di presidente del consiglio di amministrazione della Fondazione. Ma la prima parte della nostra conversazione, si interrompe all’improvviso. All’ingresso del Mario Negri ci sono tutti i suoi collaboratori che lo aspettano riuniti per una sorpresa di fronte alla quale, chiaramente emozionato, mi chiede di poterci risentire a breve.

Non è una giornata qualunque questa. È il compleanno di Silvio Garattini, è vero, ma con lui si festeggia anche una pezzo di storia della ricerca, quella a cui il professore ha dedicato oltre 60 anni di vita, studio ed esperienza.

Professore, cos’è cambiato da quando  ha iniziato a fare ricerca? Da quel lontano 1952 sono cambiate moltissime cose. Allora avevamo pochissimi mezzi per studiare i problemi. Per misurare i farmaci avevamo uno spettrofotometro, oggi abbiamo ogni tipo di possibilità analitica. Avevamo scarse conoscenze sui bersagli su cui agivano i farmaci, oggi abbiamo una conoscenza molto più diretta della cosa. Una volta quando dovevamo scrivere, usavamo macchina da scrivere e carta carbone, oggi le tecnologie sono le più varie. Una volta era difficile reperire informazioni, oggi sono disponibili ovunque, basta cercarle. Una volta studiavamo gli effetti dei medicinali su alcune funzioni e cercavamo poi di comprenderne il meccanismo; adesso invece sappiamo, o tentiamo di sapere, quali sono i target sui quali i farmaci agiscono e una volta conosciuti gli effetti andiamo, al contrario, a cercare le funzioni. Era tutto molto, molto diverso.

È indubbiamente facile reperire informazioni oggi, ma è difficile saperle usare bene. Gli effetti negativi di questa semplicità, fanno si che molto spesso le opinioni prevalgano sui fatti e questo è un danno quando accade. Il nostro è un Paese in cui la ricerca scientifica viene sostanzialmente ignorata, in cui, per milione di abitanti, abbiamo la metà dei ricercatori della media europea; il nostro è un Paese dove si spende per la ricerca circa l’1,2% del Pil (in Germania circa il 3,5%). E la ragione di questo, sta nel fatto che la ricerca non viene considerata cultura in Italia; la formazione della maggioranza degli italiani infatti, è di tipo letterario, filosofico, artistico, giuridico ma la scienza è ancora vista soprattutto per i benefici che è capace di apportare. Manca ancora il concetto di una scienza che sia reale elemento di conoscenza integrato a tutte le altre forme che abbiamo. Principi e metodologie scientifiche non hanno ancora un reale peso in ciò che viene insegnato a scuola; se venissero spiegati in altro modo, avremmo sicuramente una società caratterizzata da meno opinioni e più fatti. Si potrebbe anche immaginare una maggiore consapevolezza tra i politici nel considerare oggi la ricerca come uno degli elementi trainanti di un paese. Senza ricerca non c’è futuro, innovazione, non esistono prodotti che abbiamo valore aggiunto. Forse tocca ancora a noi ricercatori essere più attivi nel sostenere questi principi e sollecitare il governo nel considerare la ricerca, elemento fondamentale nello sviluppo di un paese.

Ci sono i margini perché questo possa succedere? I margini sono molto scarsi, secondo me, soprattutto per i giovani. Viviamo in una società sempre più tecnologizzata in cui sarà sempre più difficile distinguere tra ciò che fa male e ciò che fa bene, tra ciò che è frutto di conoscenza e ciò che non lo è. Per decidere se vaccinarsi o no, non lo si può chiedere alla letteratura, alla filosofia, all’arte ma solo alla scienza che è un’attività umana soggetta ad errori ma che ha il pregio di potersi correggere di continuo. L’esistenza di una comunità scientifica, infatti, permette che ci sia una continua verifica di quello che si fa, e questo è una garanzia.

Parliamo di farmaci. La sua esperienza sembra quasi un controsenso. Li ha studiati per una vita e ha proposto di abolirne la metà di quelli esistenti. Perché? Proprio perché conosciamo i farmaci sappiamo che ce ne sono tantissimi di validi e fondamentali per la salute ma tanti altri che rispondono invece, solo alle richieste del mercato. Il difetto del sistema è che è organizzato, per quanto riguarda i medicinali, per mostrarne esclusivamente i benefici. Gli studi clinici controllati vengono fatti per studiare i benefici ma esistono anche molti effetti collaterali e tossici che vengono sottovalutati e sui quali non si fanno studi. Bisognerebbe al contrario individuarli, fare cioè quella che si chiama una farmaco-vigilanza proattiva perché quello che conta, a livello di utilizzo, è avere sempre presente che si paga comunque sempre qualcosa anche quando si usano farmaci che ci fanno stare bene. E’ soltanto il rapporto beneficio-rischio che è in grado di dire se vale la pena o meno fare un trattamento o no. Oggi un farmaco, in base alla legislazione europea, viene approvato se risponde a queste caratteristiche: qualità, efficacia e sicurezza. Tuttavia questi elementi non ci dicono se il farmaco è più o meno attivo di quelli che abbiamo già a disposizione; bisognerebbe quindi che la legislazione ne specificasse anche il valore terapeutico aggiunto. Mancano studi comparativi per capire quali sono i medicinali migliori o peggiori rispetto a quelli esistenti e questo accade per lo più in favore del mercato e non dei pazienti perché si trattano i farmaci ancora come beni di consumo anziché mezzi di salute. Il servizio sanitario nazionale non è obbligato ad approvare tutti i farmaci indicati dalla legislazione europea, ha il diritto e il dovere di scegliere e dovrebbe quindi preferire solo quelli migliori tra quelli già esistenti. Questo però non succede in maniera sistematica tanto che l'ultima revisione del prontuario terapeutico nazionale (cioè dei farmaci che vengono rimborsati dal servizio sanitario nazionale) risale a 25 anni fa.  

Questa è una delle sue tante battaglie. Ha portato avanti quella per i farmaci generici, quella per le sperimentazioni sugli animali, per l’omeopatia e molte altre ancora. Quali sente di aver perso e quali di aver vinto in questi anni?
In fondo, abbiamo perso in tutto. Abbiamo ottenuto qualche risultato ma la realtà è che si continua a fumare e non esistono campagne per  incentivare la gente a smettere di farlo, dal momento che lo Stato incassa 13 miliardi l’anno in tasse da questo; la sperimentazione animale è in grande difficoltà e siamo ancora un Paese in cui i farmaci generici vengono utilizzati solo per il 30-35% contro l’80 % della Francia, della Germania e dell’Inghilterra. In Italia, ancora, si discute dei farmaci biosimilari e la questione delle vaccinazioni è ancora aperta. Questo però non vuol dire che dobbiamo fermarci nel fare il nostro mestiere, anzi. Il fatto di non aver raggiunto dei traguardi deve essere sempre uno stimolo ad andare avanti.

Sessant’anni di ricerca e oltre cinquanta spesi nel suo Istituto che ha rivoluzionato il modo di fare ricerca e che è intitolato a un gioielliere.
L’idea nasce nel 1957 da un lungo viaggio negli Stati Uniti dove ho potuto visitare per la prima volta molte istituzioni di ricerca. Due cose mi hanno colpito subito: la ricerca lì era già una professione, mentre da noi era una cosa che si faceva in università quando c’era il tempo per farla. Da noi la ricerca era più che altro un metodo per far carriera. L’altra cosa che mi aveva colpito era l’esistenza delle fondazioni ma non intese come luoghi di raccolta fondi per sostenere la ricerca di altri, ma fondazioni che raccoglievano fondi per agire in proprio. Una volta rientrato in Italia, ai miei collaboratori (circa 20) ho detto: ‘Se vogliamo fare qualcosa di serio con la ricerca, o andiamo tutti negli Stati Uniti oppure cerchiamo di fare qualcosa di diverso qui’. Siamo rimasti qui e abbiamo dato vita alla Fondazione. Avevo 29 anni e una grande ingenuità. Andavo dai vari enti a chiedere un aiuto per la ricerca e molti mi rispondevano sorridendo. Un giorno però è venuto da noi il gioielliere milanese Mario Negri e dopo aver parlato assieme, si è interessato a noi e al nostro progetto e ci ha sostenuto. Da quel momento, ci siamo licenziati tutti dall’università e abbiamo intrapreso questa avventura che dura ormai da 55 anni.

In una sua vecchia intervista diceva che per arrivare a 100 anni, la medicina giusta si chiama 'vita sana'. Qual è il suo segreto?
Non ci sono segreti, servono buoni stili di vita e anche un po’ di fortuna. Certamente noi dobbiamo contribuire a star bene attraverso i nostri stili di vita. Io non ho mai fumato, non ho mai ecceduto nell’alcol, ho cercato di muovermi e di avere un’alimentazione adeguata attenta alle calorie. Seguendo tutte queste regole, assieme a una costante attività fisica e intellettuale, si ha una forte probabilità che le cose vadano bene.
Una buona salute non è soltanto qualcosa che aiuta noi stessi,  è una sorta di dovere che abbiamo nei confronti di tutti dal momento che viviamo e utilizziamo un servizio sanitario nazionale. Tutti sappiamo che almeno il 50% delle malattie ‘non piovono dal cielo’ ma siamo noi che ce le procuriamo attraverso i nostri cattivi stili di vita. Se non rispettiamo noi e la nostra salute, non lo facciamo neanche con quella degli altri perché sottraiamo  risorse che dovrebbero invece essere lasciate a disposizione dei tanti bisogni che questo servizio ha.
Siamo in un Paese in cui la durata media della vita è più alta rispetto a tanti altri paesi europei ma gli ultimi anni delle nostre vite risultano essere di cattiva qualità. Il nostro obiettivo futuro dovrebbe essere quindi non tanto quello di guadagnare anni di vita, ma di riuscire ad avere una vita sana, fino alla fine. E questo lo possiamo fare attraverso la prevenzione.

Questo è quello che possiamo fare noi, ma c’è anche chi nello specifico si occupa di lavorare concretamente a quelle politiche che garantiranno determinate condizioni a chi il futuro lo ha davanti. Che messaggio si sentirebbe di dare in questo senso?
Credo che lo Stato dovrebbe prendere in seria considerazione il fatto di aumentare le risorse per la ricerca, premiando il merito e privilegiando la possibilità che i giovani possano rimanere in Italia. Perché noi perdiamo moltissimi giovani bravi, capaci, che abbiamo sostenuto e formato, che hanno rappresentato un costo economico di formazione e che graziosamente poi regaliamo ad altri paesi in concorrenza con noi.
Per la ricerca non servono così tanti soldi rispetto a quelli necessari per altre questioni; solo il costo di un po’ di chilometri di autostrada cambierebbe la prospettiva di vita di molti giovani italiani. Noi che abbiamo, tutti,  la responsabilità di questo, dobbiamo spingere in questo senso per cercare di far cambiare le cose.

Quale augurio vuole fare invece a quei giovani che cercano di impegnare il loro futuro nella ricerca?
Se avete curiosità e spirito di sacrificio, la ricerca è per voi. Pensate in grande, pensate di fare cose importanti, studiate, datevi da fare e ci riuscirete.

L'audio integrale dell'intervista è disponibile a questo link: https://www.youtube.com/embed/dykH8YKbFO4

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